lunedì 16 maggio 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - III

Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Oggi vengono richiamati due importanti principi: il primo è quello riferito alla collegialità dei Vescovi e il secondo è riferito all'unione tra tutti i cristiani. Per quanto riguarda la collegialità, esso è un principio che discende da Gesù stesso il quale ha voluto che vi fossero dodici apostoli all'interno dei quali spiccava come autorità la figura di Pietro. Dunque, il collegio dei Vescovi segue proprio le orme del collegio apostolico, essendo un'unione collegiale con a capo il Successore di San Pietro. 
Importante è il richiamo alla volontà di ritrovare l'unità tra tutti i cristiani: sarebbe meraviglioso veder ricostituito il popolo cristiano dopo tante divisioni e scismi. Il beato Giovanni Paolo II ha sempre coltivato questo sogno ecumenico e la Chiesa di oggi ha il dovere morale di seguirne la via per tentare di portare avanti il disegno dell'unità:


I – Eredità   

5. Collegialità e apostolato

Questa Chiesa è - contro tutte le apparenze - più unita nella comunione di servizio e nella coscienza dell'apostolato. Tale unione scaturisce da quel principio di collegialità, ricordato dal Concilio Vaticano II, che Cristo stesso innestò nel collegio apostolico dei Dodici con Pietro a capo, e che rinnova continuamente nel collegio dei Vescovi, il quale sempre più cresce su tutta la terra, rimanendo unito col Successore di San Pietro e sotto la sua guida. Il Concilio non ha soltanto ricordato questo principio di collegialità dei Vescovi, ma lo ha immensamente vivificato, fra l'altro auspicando l'istituzione di un Organo permanente che Paolo VI stabilì costituendo il Sinodo dei Vescovi, la cui attività non solo diede una nuova dimensione al suo pontificato, ma, in seguito, si è chiaramente riflessa, fin dai primi giorni, nel pontificato di Giovanni Paolo I ed in quello del suo indegno Successore.

Il principio di collegialità si è dimostrato particolarmente attuale nel difficile periodo postconciliare, quando la comune ed unanime posizione del collegio dei Vescovi - che soprattutto mediante il Sinodo ha manifestato la sua unione col Successore di Pietro - contribuiva a dissipare i dubbi e indicava parimenti le giuste vie del rinnovamento della Chiesa, nella sua dimensione universale. Dal Sinodo, infatti, è scaturito fra l'altro quell'impulso essenziale all'evangelizzazione che ha trovato la sua espressione nell'Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi17, con tanta gioia accolta come programma del rinnovamento di carattere apostolico e insieme pastorale. La stessa linea è stata seguita anche nei lavori dell'ultima sessione ordinaria del Sinodo dei Vescovi, la quale ebbe luogo circa un anno prima della scomparsa del Pontefice Paolo VI, e fu dedicata - com'è noto - alla catechesi. I risultati di quei lavori richiedono ancora una sistemazione e una enunciazione da parte della Sede Apostolica.

Poiché stiamo trattando dell'evidente sviluppo delle forme in cui si esprime la collegialità episcopale, occorre almeno ricordare il processo di consolidamento delle Conferenze Episcopali nazionali in tutta la Chiesa e di altre strutture collegiali a carattere internazionale o continentale. Riferendoci poi alla tradizione secolare della Chiesa, conviene sottolineare l'attività dei diversi Sinodi locali. Fu, infatti, idea del Concilio, coerentemente attuata da Paolo VI, che le strutture di questo genere, da secoli sperimentate dalla Chiesa, come anche le altre forme della collaborazione collegiale dei Vescovi, ad esempio la metropolia, per non parlare già di ogni singola diocesi, pulsassero in piena consapevolezza della propria identità ed insieme della propria originalità, nell'unità universale della Chiesa. Lo stesso spirito di collaborazione e di corresponsabilità si sta diffondendo anche tra i sacerdoti, e ciò viene confermato dai numerosi Consigli Presbiterali, che son sorti dopo il Concilio. Questo spirito si è esteso anche tra i laici, confermando non soltanto le organizzazioni dell'apostolato laicale già esistenti, ma creandone delle nuove, aventi spesso un profilo diverso ed una dinamica eccezionale. Inoltre, i laici, consapevoli della loro responsabilità dinanzi alla Chiesa, si sono impegnati volentieri nella collaborazione con i Pastori, con i rappresentanti degli Istituti di vita consacrata, nell'àmbito dei Sinodi diocesani o dei Consigli pastorali nelle parrocchie e nelle diocesi.

È per me necessario avere in mente tutto questo agli inizi del mio pontificato, per ringraziare Dio, per esprimere un vivo incoraggiamento a tutti i Fratelli e Sorelle, e per ricordare, inoltre, con viva gratitudine l'opera del Concilio Vaticano II ed i miei grandi Predecessori, che hanno dato avvio a questa nuova «ondata» della vita della Chiesa, moto ben più potente dei sintomi di dubbio, di crollo e di crisi.

6. Via all'unione dei cristiani

E che cosa dire di tutte le iniziative scaturite dal nuovo orientamento ecumenico? L'indimenticabile Papa Giovanni XXIII, con evangelica chiarezza, impostò il problema dell'unione dei cristiani, come semplice conseguenza della volontà dello stesso Gesù Cristo, nostro Maestro, affermata più volte ed espressa, in modo particolare, nella preghiera del Cenacolo, alla vigilia della sua morte: «Prego..., Padre..., perché tutti siano una cosa sola»18. Il Concilio Vaticano II rispose a questa esigenza in forma concisa col Decreto sull'ecumenismo. Il Papa Paolo VI, avvalendosi dell'attività del Segretariato per l'unione dei Cristiani, iniziò i primi difficili passi sulla via del conseguimento di tale unione. Siamo andati lontano su questa strada? Senza voler dare una risposta particolareggiata, possiamo dire che abbiamo fatto dei veri ed importanti progressi. Ed una cosa è certa: abbiamo lavorato con perseveranza e coerenza, ed insieme con noi si sono impegnati anche i rappresentanti di altre Chiese e di altre Comunità cristiane, e di questo siamo loro sinceramente obbligati. E certo, inoltre, che, nella presente situazione storica della cristianità e del mondo, non appare altra possibilità di adempiere la missione universale della Chiesa, per quanto riguarda i problemi ecumenici, che quella di cercare lealmente, con perseveranza, con umiltà e anche con coraggio, le vie di avvicinamento e di unione così come ce ne ha dato il personale esempio Papa Paolo VI. Dobbiamo, pertanto, ricercare l'unione senza scoraggiarci di fronte alle difficoltà, che possono presentarsi o accumularsi lungo tale via; altrimenti, non saremmo fedeli alla parola di Cristo, non realizzeremmo il suo testamento. E lecito correre questo rischio?

Vi sono persone che, trovandosi di fronte alle difficoltà, oppure giudicando negativi i risultati degli iniziali lavori ecumenici, avrebbero voluto indietreggiare. Alcuni esprimono perfino l'opinione che questi sforzi nuocciano alla causa del Vangelo, conducano ad un'ulteriore rottura della Chiesa, provochino confusione di idee nelle questioni della fede e della morale, approdino ad uno specifico indifferentismo. Sarà forse bene che i portavoce di tali opinioni esprimano i loro timori; tuttavia, anche a questo riguardo, bisogna mantenere i giusti limiti. E ovvio che questa nuova tappa della vita della Chiesa esiga da noi una fede particolarmente cosciente, approfondita e responsabile. La vera attività ecumenica significa apertura, avvicinamento, disponibilità al dialogo, comune ricerca della verità nel pieno senso evangelico e cristiano; ma essa non significa assolutamente né può significare rinunciare o recare in qualsiasi modo pregiudizio ai tesori della verità divina, costantemente confessata ed insegnata dalla Chiesa. A tutti coloro che, per qualsiasi motivo, vorrebbero dissuadere la Chiesa dalla ricerca dell'unità universale dei cristiani, bisogna ripetere ancora una volta: E lecito a noi il non farlo? Possiamo - nonostante tutta la debolezza umana e tutte le deficienze accumulatesi nei secoli passati - non aver fiducia nella grazia di Nostro Signore, quale si è rivelata, nell'ultimo tempo, mediante la parola dello Spirito Santo, che abbiamo sentito durante il Concilio? Facendo così, negheremmo la verità che concerne noi stessi e che l'Apostolo ha espresso in modo tanto eloquente: «Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana»19.

Pur se in altro modo e con le dovute differenze, bisogna applicare ciò che è stato detto all'attività che tende all'avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità umana, i quali - come ben sappiamo - non mancano neppure ai membri di queste religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane - effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del Corpo Mistico - possa quasi confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei princìpi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico? E nobile esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema, a dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente perdere la certezza della propria fede20, ovvero indebolire i princìpi della morale, la cui mancanza si farà risentire ben presto nella vita di intere società, determinando, fra l'altro, deplorevoli conseguenze.

 

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