martedì 31 maggio 2011
La Città di Dio - XX parte
Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Sant'Agostino giunge al punto dimostrando che la depravazione civile in cui viveva la città eterna (Roma) era frutto del fatto che gli dei tanto onorati non si erano mai presi cura del popolo; anzi, non avevano mai mostrato loro la via da seguire per raggiungere la decenza e la moralità dei costumi. Inoltre, il Santo d'Ippona ci tiene a rimarcare come i successi (e/o gli insuccessi) della vita non dipendono certamente da démoni, ma da Dio che solo vede e provvede:
22. 1. Ma per quanto attiene al problema in esame, comunque esaltino che fosse o che sia la società romana, secondo i loro più autorevoli scrittori molto prima della venuta di Cristo era divenuta moralmente molto depravata; anzi non esisteva affatto ed era andata in rovina per costumi molto degenerati. Ma affinché non andasse in rovina, i suoi dèi protettori dovevano dare al popolo che li onorava soprattutto comandamenti di vita morale. Da esso erano appunto onorati con tanti templi, tanti sacerdoti e tante forme di sacrifici, con numerosi e vari misteri, con tante solennità festive e con celebrazioni di tanti e grandi spettacoli. Ma i demoni con queste cose fecero soltanto il proprio interesse non preoccupandosi come vivevano, anzi preoccupandosi che vivessero sfrenatamente perché, soggiogati dal terrore, offrissero in loro onore tutte quelle manifestazioni. E se le hanno date, si renda noto, si mostri, si scriva, quali leggi degli dèi date allo Stato trasgredirono i Gracchi per turbare tutti gli istituti con le sedizioni, quali leggi trasgredirono Mario, Cinna e Carbone per giungere anche alle guerre civili, iniziate per motivi ingiusti, condotte con crudeltà e con maggior crudeltà portate a termine 51, che trasgredì infine lo stesso Silla 52. Perché ogni uomo anzi deve detestare la sua vita, costumi e azioni narrati da Sallustio e da altri scrittori, ognuno deve ammettere che la società allora era in sfacelo.
22. 2. Ma in considerazione dei costumi dei cittadini di tal fatta ardiranno forse, come di solito, addurre a difesa dei loro dèi, i versi di Virgilio: Abbandonando templi e altari si sono allontanati tutti gli dèi col cui aiuto questo regno si reggeva 53? Prima di tutto, se è così, non hanno di che lamentarsi della religione cristiana per il fatto che offesi da essa i loro dèi li abbiano abbandonati. Già da prima i loro antenati con i propri costumi scacciarono come mosche dagli altari di Roma una pleiade di piccoli dèi. Ma dove era questa frotta di divinità quando, prima ancora che fossero depravati gli antichi costumi, Roma fu presa e incendiata dai Galli? Pur presenti dormivano? Caduta tutta la città in potere dei nemici, era rimasto soltanto il colle capitolino; ma anche esso sarebbe stato occupato se, mentre gli dèi dormivano, non fossero rimaste sveglie le oche 54. Per questo fatto, celebrando feste solenni all'oca, Roma era quasi caduta nella superstizione degli Egiziani che adorano bestie e uccelli. Ma per adesso non discuto di mali occasionali, e piuttosto fisici che spirituali, che provengono dalle guerre o altre sventure. Ora parlo della decadenza dei costumi. Dapprima si sbiadirono un po' alla volta, poi rovinarono con l'impeto di un torrente. Ne seguì una così grave rovina della società, pur rimanendo intatte case e mura, che i loro grandi scrittori non esitarono ad affermare che fin d'allora era perduta. Era giusto che tutti gli dèi, abbandonando templi e altari, si allontanassero affinché fosse perduta, se lo stato avesse trasgredito i loro precetti di moralità e giustizia. E allora, scusate, che razza di dèi erano se non volevano vivere con un popolo che li onorava dal momento che, poiché si comportava male, non gli avevano insegnato a comportarsi bene?
23. 1. E che dire del fatto che, come sembra, li hanno assistiti a sfogare le loro passioni smodate e che, come si afferma, non s'imposero per reprimerle? Gli dèi infatti aiutarono Mario, uomo arrivato da poco e popolano, iniziatore e continuatore di guerre civili, a divenire console per sette volte e a morire durante il suo settimo consolato, ormai vecchio, in modo che non cadesse nelle mani di Silla che fra breve l'avrebbe vinto 55. Se poi gli dèi non lo aiutarono per questi scopi, i Romani devono ammettere, e non sarebbe poco, che anche senza il favore degli dèi può verificarsi per l'uomo quel grande successo temporale che tanto desiderano. Gli individui, come Mario, malgrado l'indignazione degli dèi, possono essere pienamente appagati e godere di salute, forze, ricchezze, onori, rispetto e lunga vita. Altri, come Regolo, malgrado la benevolenza degli dèi, sono afflitti e muoiono nella prigionia, nella schiavitù, di miseria, di sonno e di sofferenze. E se concedono che è così, ammettono che gli dèi non servono a niente per determinati vantaggi e si onorano senza profitto. Infatti hanno sollecitato il popolo ad imparare piuttosto i vizi contrari alle virtù spirituali e all'onestà morale, le cui ricompense si devono sperare dopo morte. Inoltre anche nei beni passeggeri e temporali non puniscono quelli che odiano e non favoriscono quelli che amano. E allora a quale scopo sono adorati, a quale scopo si chiede con tanto zelo che siano adorati? Perché si mormora che in tempi travagliati e tristi si siano allontanati come se fossero indignati e a causa loro si offende la religione cristiana con ingiurie veramente immeritate? Se hanno negli avvenimenti del mondo il potere di fare del bene e del male, perché hanno protetto l'indegno Mario e sono mancati al degnissimo Regolo? Si deve pensare forse che anche essi sono ingiusti e cattivi? E se si pensa che proprio per questo si devono maggiormente temere e onorare, non lo si pensi di loro, perché è noto che Regolo non li ha meno onorati di Mario. E non sembri per questo che si debba scegliere una condotta moralmente indegna perché si giudica che gli dèi hanno aiutato più Mario che Regolo. Infatti Metello, il più illustre dei Romani, che ebbe cinque figli consoli, fu fortunato anche nei beni terreni, e Catilina, il peggiore dei Romani, fu oppresso dalla povertà e cadde miseramente nella guerra del suo tradimento. Infine i buoni che onorano Dio si distinguono per vero e sicuro successo che soltanto da lui può esser dato.
23. 2. Dunque mentre la società andava in sfacelo a causa dell'immoralità, i loro dèi non fecero nulla per regolare o riformare i costumi perché non decadesse, anzi contribuirono a depravarli e guastarli per farla decadere. Non si fingano dunque persone dabbene come se si siano allontanati perché offesi dalla dissolutezza del popolo. Certamente erano presenti, si sono traditi, sono smascherati; non sono riusciti né ad aiutare col loro potere né a nascondersi nel silenzio. Tralascio che Mario fu raccomandato dai compassionevoli abitanti di Minturno alla dea Marica nel suo boschetto sacro perché gliele mandasse tutte buone 56. Ed egli che aveva perduto ogni speranza tornò incolume a Roma e guidò da crudele qual era un esercito crudele. I volenterosi possono leggere gli autori che hanno narrato quanto la sua vittoria fu disumana, incivile e più spietata di quella di un nemico. Ma, come ho detto, tralascio questi fatti e non attribuisco il successo efferato di Mario a non saprei quale Marica ma piuttosto a un'occulta provvidenza di Dio per chiudere la bocca dei nostri avversari e liberare dall'errore individui che non agiscono per passione ma riflettono saggiamente sulle cose. Infatti, sebbene i demoni abbiano un certo potere su questi fatti, ne hanno tanto quanto è loro concesso dal volere nascosto di Uno che tutto può. Non dobbiamo perciò sopravvalutare il successo terreno che spesso viene accordato a malvagi come Mario e non reputarlo un male perché osserviamo che in esso sono stati eccellenti anche molti individui religiosi, onesti e adoratori del vero Dio, nonostante l'opposizione dei demoni. Così non dobbiamo credere che i medesimi spiriti immondi si devono propiziare o temere in vista di beni o mali terreni. Anche essi, come gli uomini malvagi nel mondo, non hanno il potere di fare tutto ciò che vogliono, ma solamente quanto è consentito dalla disposizione di colui, di cui nessuno comprende pienamente i giudizi, nessuno giustamente li riprende.
22. 1. Ma per quanto attiene al problema in esame, comunque esaltino che fosse o che sia la società romana, secondo i loro più autorevoli scrittori molto prima della venuta di Cristo era divenuta moralmente molto depravata; anzi non esisteva affatto ed era andata in rovina per costumi molto degenerati. Ma affinché non andasse in rovina, i suoi dèi protettori dovevano dare al popolo che li onorava soprattutto comandamenti di vita morale. Da esso erano appunto onorati con tanti templi, tanti sacerdoti e tante forme di sacrifici, con numerosi e vari misteri, con tante solennità festive e con celebrazioni di tanti e grandi spettacoli. Ma i demoni con queste cose fecero soltanto il proprio interesse non preoccupandosi come vivevano, anzi preoccupandosi che vivessero sfrenatamente perché, soggiogati dal terrore, offrissero in loro onore tutte quelle manifestazioni. E se le hanno date, si renda noto, si mostri, si scriva, quali leggi degli dèi date allo Stato trasgredirono i Gracchi per turbare tutti gli istituti con le sedizioni, quali leggi trasgredirono Mario, Cinna e Carbone per giungere anche alle guerre civili, iniziate per motivi ingiusti, condotte con crudeltà e con maggior crudeltà portate a termine 51, che trasgredì infine lo stesso Silla 52. Perché ogni uomo anzi deve detestare la sua vita, costumi e azioni narrati da Sallustio e da altri scrittori, ognuno deve ammettere che la società allora era in sfacelo.
22. 2. Ma in considerazione dei costumi dei cittadini di tal fatta ardiranno forse, come di solito, addurre a difesa dei loro dèi, i versi di Virgilio: Abbandonando templi e altari si sono allontanati tutti gli dèi col cui aiuto questo regno si reggeva 53? Prima di tutto, se è così, non hanno di che lamentarsi della religione cristiana per il fatto che offesi da essa i loro dèi li abbiano abbandonati. Già da prima i loro antenati con i propri costumi scacciarono come mosche dagli altari di Roma una pleiade di piccoli dèi. Ma dove era questa frotta di divinità quando, prima ancora che fossero depravati gli antichi costumi, Roma fu presa e incendiata dai Galli? Pur presenti dormivano? Caduta tutta la città in potere dei nemici, era rimasto soltanto il colle capitolino; ma anche esso sarebbe stato occupato se, mentre gli dèi dormivano, non fossero rimaste sveglie le oche 54. Per questo fatto, celebrando feste solenni all'oca, Roma era quasi caduta nella superstizione degli Egiziani che adorano bestie e uccelli. Ma per adesso non discuto di mali occasionali, e piuttosto fisici che spirituali, che provengono dalle guerre o altre sventure. Ora parlo della decadenza dei costumi. Dapprima si sbiadirono un po' alla volta, poi rovinarono con l'impeto di un torrente. Ne seguì una così grave rovina della società, pur rimanendo intatte case e mura, che i loro grandi scrittori non esitarono ad affermare che fin d'allora era perduta. Era giusto che tutti gli dèi, abbandonando templi e altari, si allontanassero affinché fosse perduta, se lo stato avesse trasgredito i loro precetti di moralità e giustizia. E allora, scusate, che razza di dèi erano se non volevano vivere con un popolo che li onorava dal momento che, poiché si comportava male, non gli avevano insegnato a comportarsi bene?
23. 1. E che dire del fatto che, come sembra, li hanno assistiti a sfogare le loro passioni smodate e che, come si afferma, non s'imposero per reprimerle? Gli dèi infatti aiutarono Mario, uomo arrivato da poco e popolano, iniziatore e continuatore di guerre civili, a divenire console per sette volte e a morire durante il suo settimo consolato, ormai vecchio, in modo che non cadesse nelle mani di Silla che fra breve l'avrebbe vinto 55. Se poi gli dèi non lo aiutarono per questi scopi, i Romani devono ammettere, e non sarebbe poco, che anche senza il favore degli dèi può verificarsi per l'uomo quel grande successo temporale che tanto desiderano. Gli individui, come Mario, malgrado l'indignazione degli dèi, possono essere pienamente appagati e godere di salute, forze, ricchezze, onori, rispetto e lunga vita. Altri, come Regolo, malgrado la benevolenza degli dèi, sono afflitti e muoiono nella prigionia, nella schiavitù, di miseria, di sonno e di sofferenze. E se concedono che è così, ammettono che gli dèi non servono a niente per determinati vantaggi e si onorano senza profitto. Infatti hanno sollecitato il popolo ad imparare piuttosto i vizi contrari alle virtù spirituali e all'onestà morale, le cui ricompense si devono sperare dopo morte. Inoltre anche nei beni passeggeri e temporali non puniscono quelli che odiano e non favoriscono quelli che amano. E allora a quale scopo sono adorati, a quale scopo si chiede con tanto zelo che siano adorati? Perché si mormora che in tempi travagliati e tristi si siano allontanati come se fossero indignati e a causa loro si offende la religione cristiana con ingiurie veramente immeritate? Se hanno negli avvenimenti del mondo il potere di fare del bene e del male, perché hanno protetto l'indegno Mario e sono mancati al degnissimo Regolo? Si deve pensare forse che anche essi sono ingiusti e cattivi? E se si pensa che proprio per questo si devono maggiormente temere e onorare, non lo si pensi di loro, perché è noto che Regolo non li ha meno onorati di Mario. E non sembri per questo che si debba scegliere una condotta moralmente indegna perché si giudica che gli dèi hanno aiutato più Mario che Regolo. Infatti Metello, il più illustre dei Romani, che ebbe cinque figli consoli, fu fortunato anche nei beni terreni, e Catilina, il peggiore dei Romani, fu oppresso dalla povertà e cadde miseramente nella guerra del suo tradimento. Infine i buoni che onorano Dio si distinguono per vero e sicuro successo che soltanto da lui può esser dato.
23. 2. Dunque mentre la società andava in sfacelo a causa dell'immoralità, i loro dèi non fecero nulla per regolare o riformare i costumi perché non decadesse, anzi contribuirono a depravarli e guastarli per farla decadere. Non si fingano dunque persone dabbene come se si siano allontanati perché offesi dalla dissolutezza del popolo. Certamente erano presenti, si sono traditi, sono smascherati; non sono riusciti né ad aiutare col loro potere né a nascondersi nel silenzio. Tralascio che Mario fu raccomandato dai compassionevoli abitanti di Minturno alla dea Marica nel suo boschetto sacro perché gliele mandasse tutte buone 56. Ed egli che aveva perduto ogni speranza tornò incolume a Roma e guidò da crudele qual era un esercito crudele. I volenterosi possono leggere gli autori che hanno narrato quanto la sua vittoria fu disumana, incivile e più spietata di quella di un nemico. Ma, come ho detto, tralascio questi fatti e non attribuisco il successo efferato di Mario a non saprei quale Marica ma piuttosto a un'occulta provvidenza di Dio per chiudere la bocca dei nostri avversari e liberare dall'errore individui che non agiscono per passione ma riflettono saggiamente sulle cose. Infatti, sebbene i demoni abbiano un certo potere su questi fatti, ne hanno tanto quanto è loro concesso dal volere nascosto di Uno che tutto può. Non dobbiamo perciò sopravvalutare il successo terreno che spesso viene accordato a malvagi come Mario e non reputarlo un male perché osserviamo che in esso sono stati eccellenti anche molti individui religiosi, onesti e adoratori del vero Dio, nonostante l'opposizione dei demoni. Così non dobbiamo credere che i medesimi spiriti immondi si devono propiziare o temere in vista di beni o mali terreni. Anche essi, come gli uomini malvagi nel mondo, non hanno il potere di fare tutto ciò che vogliono, ma solamente quanto è consentito dalla disposizione di colui, di cui nessuno comprende pienamente i giudizi, nessuno giustamente li riprende.
lunedì 30 maggio 2011
Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - V
Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Il discorso odierno si sofferma sulla Redenzione quale rinnovata creazione: dall'uomo-Adamo all'uomo Cristo (attraverso un discorso incredibilmente attuale che si sofferma sulla caducità della creazione che attende il momento della rivelazione dei figli di Dio):
8. Redenzione: rinnovata creazione
Redentore del mondo! In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta quando ripete più volte: «Dio vide che era cosa buona»38 Il bene ha la sua sorgente nella Sapienza e nell'Amore. In Gesù Cristo il mondo visibile, creato da Dio per l'uomo39 - quel mondo che, essendovi entrato il peccato, «è stato sottomesso alla caducità»40 - riacquista nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell'Amore. Infatti, «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»41. Come nell'uomo-Adamo questo vincolo è stato infranto, così nell'uomo-Cristo esso è stato di nuovo riallacciato42. Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell'Apostolo delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la «creazione (che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto»43 ed «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio»44, circa la creazione che «è stata sottomessa alla caducità»? L'immenso progresso, non mai prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso del nostro secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell'uomo, non rivela forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella multiforme sottomissione «alla caducità»? Basta solo qui ricordare certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell'ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante l'uso delle armi atomiche, all'idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima raggiunte, non è nello stesso tempo il mondo che «geme e soffre»45 ed «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio»?46
Il Concilio Vaticano II, nella sua penetrante analisi «del mondo contemporaneo», perveniva a quel punto che è il più importante del mondo visibile, l'uomo, scendendo - come Cristo - nel profondo delle coscienze umane, toccando il mistero interiore dell'uomo, che nel linguaggio biblico ( ed anche non biblico) si esprime con la parola «cuore». Cristo, Redentore del mondo, è Colui che è penetrato, in modo unico e irrepetibile, nel mistero dell'uomo ed è entrato nel suo «cuore». Giustamente, quindi, il Concilio Vaticano II insegna: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5, 14), e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». E poi ancora: «Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio (Col 1, 15). Egli è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato»47. Egli, il Redentore dell'uomo!
II - Il mistero della redenzione
8. Redenzione: rinnovata creazione
Redentore del mondo! In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta quando ripete più volte: «Dio vide che era cosa buona»38 Il bene ha la sua sorgente nella Sapienza e nell'Amore. In Gesù Cristo il mondo visibile, creato da Dio per l'uomo39 - quel mondo che, essendovi entrato il peccato, «è stato sottomesso alla caducità»40 - riacquista nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell'Amore. Infatti, «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»41. Come nell'uomo-Adamo questo vincolo è stato infranto, così nell'uomo-Cristo esso è stato di nuovo riallacciato42. Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell'Apostolo delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la «creazione (che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto»43 ed «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio»44, circa la creazione che «è stata sottomessa alla caducità»? L'immenso progresso, non mai prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso del nostro secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell'uomo, non rivela forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella multiforme sottomissione «alla caducità»? Basta solo qui ricordare certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell'ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante l'uso delle armi atomiche, all'idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima raggiunte, non è nello stesso tempo il mondo che «geme e soffre»45 ed «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio»?46
Il Concilio Vaticano II, nella sua penetrante analisi «del mondo contemporaneo», perveniva a quel punto che è il più importante del mondo visibile, l'uomo, scendendo - come Cristo - nel profondo delle coscienze umane, toccando il mistero interiore dell'uomo, che nel linguaggio biblico ( ed anche non biblico) si esprime con la parola «cuore». Cristo, Redentore del mondo, è Colui che è penetrato, in modo unico e irrepetibile, nel mistero dell'uomo ed è entrato nel suo «cuore». Giustamente, quindi, il Concilio Vaticano II insegna: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5, 14), e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». E poi ancora: «Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio (Col 1, 15). Egli è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato»47. Egli, il Redentore dell'uomo!
domenica 29 maggio 2011
Il Libro di Giobbe - Trentaseiesimo appuntamento
Torniamo a seguire le vicende di Giobbe attraverso il trentottesimo capitolo nel quale vediamo il Creatore porre una serie di domande al protagonista di questo libro:
Le domande del Creatore rivolte a Giobbe sono domande rivolte all'uomo di ogni tempo che crede di aver raggiunto la perfezione, illudendosi e peggio ancora ingannandosi. La scienza dei giorni nostri ci permette certo di ottenere delle risposte ma è sempre e solo grazie a Dio se l'uomo è capace di fare delle scoperte poiché il dono della scienza viene dall'Altissimo. Inoltre quanto conosciamo oggi è nulla paragonato alle infinità di cose presenti nell'universo. Spesso si fa l'errore di dissociare le creature da Dio come se non avessero nulla a che fare con Lui. Lui le ha fatte e le conosce da prima che le creasse. Se volgiamo lo sguardo agli animali domestici, dovremmo contemplare che anch'essi sono creature uscite dalla Sapienza di Dio e se sono presenti su questa Terra è per volontà del Creatore. Intenerisce vedere il Creatore parlare della leonessa e dei suoi piccoli. Questo aspetto del Creatore ci fa contemplare la Sua provvidenza che guarda a ogni creatura. Dio certamente ama l'uomo più degli animali perché è la Sua creatura prediletta tanto da avergli dato delle capacità non presenti negli animali, ma ricordiamoci che Egli ama anche i piccoli animali presenti in natura e di questo possiamo trovare conferma nel vedere come a queste creature non manchi il cibo. Come vediamo la Provvidenza opera sopra tutta la Terra. Gesù nel Vangelo ci parla del Padre che provvede a dar da mangiare agli uccelli del cielo, a vestire l'erba del campo. Dice esattamente: "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre" (Mt 6,26). "Eppure il Padre vostro celeste li nutre": Queste sono parole bellissime che mostrano la premura di Dio verso l'intero creato, quindi non solo verso noi uomini Sue creature predilette, ma anche verso tutte le altre creature presenti nel mondo. Al termine del capitolo il Creatore chiede a Giobbe: "Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi nati gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo?". E' lo stesso che dice Gesù. Il Padre nutre gli uccelli del cielo.
Il Creatore ad un certo punto dice a Giobbe: Certo, tu lo sai, perché allora eri nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande! Sembra di vedere dell'ironia in queste parole. Questo è un altro aspetto del Creatore da contemplare: presso Dio c'è gioia, quella stessa gioia che si è manifestata nei santi. Il pensiero vola in questo momento a San Filippo Neri che la Chiesa Cattolica ha ricordato qualche giorno fa. San Filippo esortava all'allegria e lui stesso era una persona molto allegra. A volte noi cattolici abbiamo la cattiva abitudine di tenere il muso, sebbene questo sia del tutto normale per la nostra fragile natura, specie in momenti difficili della nostra esistenza, e anzi il Signore soffre assieme a noi in quei momenti. Dovremmo spesso volgere lo sguardo verso le cose semplici e belle della vita, cercare Dio anche attraverso un insetto, un fiore, un albero che muove le sue foglie al vento. Guardare al creato ci permette di contemplare l'armonia e la sensibilità con le quali il Creatore ha formato tutte le cose presenti. Un gattino che miagola, una formica che trascina una mollica di pane, un cane che scodinzola allegramente.. in queste ed altre scene della vita, contempliamo la tenerezza, la gioia del Creatore. Egli manifesta la Sua gioia, la Sua tenerezza ma anche la Sua maestà attraverso le opere. Un'artista esprime il suo carattere e i suoi sentimenti attraverso i quadri e così il Creatore ha fatto altrettanto con il creato. Un vulcano imponente appena racconta la maestà del Signore, un temporale la Sua potenza, una farfalla che volteggia nell'aria ne racconta appena la delicatezza, un topolino che corre in una viuzza e un pulcino di aquila che apre il suo becco raccontano appena la tenerezza del Signore. Quanti aspetti diversi nel creato che ci fanno contemplare il carattere e i sentimenti del Creatore. Dall'immensità delle stelle ad un piccolo ragno che tesse la sua ragnatela.
Certamente queste domande rivolte dal Signore a Giobbe sono una sorta di rimprovero. Al di là delle riflessioni che abbiamo fatto sul creato e sulla gioia presente senz'altro presso Dio, riflessioni che possiamo considerare a parte poiché abbiamo contemplato un altro aspetto che non ha molto a che fare con il senso della conversazione, il Creatore rimprovera Giobbe poiché questi ha detto cose senza conoscere Dio. Infatti verso la fine di questo libro vedremo cosa risponde Giobbe al Signore al termine della conversazione.
Nel prossimo capitolo vedremo il Signore continuare a porre domande a Giobbe.
38
1Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine:
2Chi è costui che oscura il consiglio
con parole insipienti?
3Cingiti i fianchi come un prode,
io t'interrogherò e tu mi istruirai.
4Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza!
5Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
6Dove sono fissate le sue basi
o chi ha posto la sua pietra angolare,
7mentre gioivano in coro le stelle del mattino
e plaudivano tutti i figli di Dio?
8Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando erompeva uscendo dal seno materno,
9quando lo circondavo di nubi per veste
e per fasce di caligine folta?
10Poi gli ho fissato un limite
e gli ho messo chiavistello e porte
11e ho detto: "Fin qui giungerai e non oltre
e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde".
12Da quando vivi, hai mai comandato al mattino
e assegnato il posto all'aurora,
13perché essa afferri i lembi della terra
e ne scuota i malvagi?
14Si trasforma come creta da sigillo
e si colora come un vestito.
15È sottratta ai malvagi la loro luce
ed è spezzato il braccio che si alza a colpire.
16Sei mai giunto alle sorgenti del mare
e nel fondo dell'abisso hai tu passeggiato?
17Ti sono state indicate le porte della morte
e hai visto le porte dell'ombra funerea?
18Hai tu considerato le distese della terra?
Dillo, se sai tutto questo!
19Per quale via si va dove abita la luce
e dove hanno dimora le tenebre
20perché tu le conduca al loro dominio
o almeno tu sappia avviarle verso la loro casa?
21Certo, tu lo sai, perché allora eri nato
e il numero dei tuoi giorni è assai grande!
22Sei mai giunto ai serbatoi della neve,
hai mai visto i serbatoi della grandine,
23che io riserbo per il tempo della sciagura,
per il giorno della guerra e della battaglia?
24Per quali vie si espande la luce,
si diffonde il vento d'oriente sulla terra?
25Chi ha scavato canali agli acquazzoni
e una strada alla nube tonante,
26per far piovere sopra una terra senza uomini,
su un deserto dove non c'è nessuno,
27per dissetare regioni desolate e squallide
e far germogliare erbe nella steppa?
28Ha forse un padre la pioggia?
O chi mette al mondo le gocce della rugiada?
29Dal seno di chi è uscito il ghiaccio
e la brina del cielo chi l'ha generata?
30Come pietra le acque induriscono
e la faccia dell'abisso si raggela.
31Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi
o sciogliere i vincoli di Orione?
32Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino
o puoi guidare l'Orsa insieme con i suoi figli?
33Conosci tu le leggi del cielo
o ne applichi le norme sulla terra?
34Puoi tu alzare la voce fino alle nubi
e farti coprire da un rovescio di acqua?
35Scagli tu i fulmini e partono
dicendoti: "Eccoci!"?
36Chi ha elargito all'ibis la sapienza
o chi ha dato al gallo intelligenza?
37Chi può con sapienza calcolare le nubi
e chi riversa gli otri del cielo,
38quando si fonde la polvere in una massa
e le zolle si attaccano insieme?
39Vai tu a caccia di preda per la leonessa
e sazi la fame dei leoncini,
40quando sono accovacciati nelle tane
o stanno in agguato fra le macchie?
41Chi prepara al corvo il suo pasto,
quando i suoi nati gridano verso Dio
e vagano qua e là per mancanza di cibo?
COMMENTO
Le domande del Creatore rivolte a Giobbe sono domande rivolte all'uomo di ogni tempo che crede di aver raggiunto la perfezione, illudendosi e peggio ancora ingannandosi. La scienza dei giorni nostri ci permette certo di ottenere delle risposte ma è sempre e solo grazie a Dio se l'uomo è capace di fare delle scoperte poiché il dono della scienza viene dall'Altissimo. Inoltre quanto conosciamo oggi è nulla paragonato alle infinità di cose presenti nell'universo. Spesso si fa l'errore di dissociare le creature da Dio come se non avessero nulla a che fare con Lui. Lui le ha fatte e le conosce da prima che le creasse. Se volgiamo lo sguardo agli animali domestici, dovremmo contemplare che anch'essi sono creature uscite dalla Sapienza di Dio e se sono presenti su questa Terra è per volontà del Creatore. Intenerisce vedere il Creatore parlare della leonessa e dei suoi piccoli. Questo aspetto del Creatore ci fa contemplare la Sua provvidenza che guarda a ogni creatura. Dio certamente ama l'uomo più degli animali perché è la Sua creatura prediletta tanto da avergli dato delle capacità non presenti negli animali, ma ricordiamoci che Egli ama anche i piccoli animali presenti in natura e di questo possiamo trovare conferma nel vedere come a queste creature non manchi il cibo. Come vediamo la Provvidenza opera sopra tutta la Terra. Gesù nel Vangelo ci parla del Padre che provvede a dar da mangiare agli uccelli del cielo, a vestire l'erba del campo. Dice esattamente: "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre" (Mt 6,26). "Eppure il Padre vostro celeste li nutre": Queste sono parole bellissime che mostrano la premura di Dio verso l'intero creato, quindi non solo verso noi uomini Sue creature predilette, ma anche verso tutte le altre creature presenti nel mondo. Al termine del capitolo il Creatore chiede a Giobbe: "Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi nati gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo?". E' lo stesso che dice Gesù. Il Padre nutre gli uccelli del cielo.
Il Creatore ad un certo punto dice a Giobbe: Certo, tu lo sai, perché allora eri nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande! Sembra di vedere dell'ironia in queste parole. Questo è un altro aspetto del Creatore da contemplare: presso Dio c'è gioia, quella stessa gioia che si è manifestata nei santi. Il pensiero vola in questo momento a San Filippo Neri che la Chiesa Cattolica ha ricordato qualche giorno fa. San Filippo esortava all'allegria e lui stesso era una persona molto allegra. A volte noi cattolici abbiamo la cattiva abitudine di tenere il muso, sebbene questo sia del tutto normale per la nostra fragile natura, specie in momenti difficili della nostra esistenza, e anzi il Signore soffre assieme a noi in quei momenti. Dovremmo spesso volgere lo sguardo verso le cose semplici e belle della vita, cercare Dio anche attraverso un insetto, un fiore, un albero che muove le sue foglie al vento. Guardare al creato ci permette di contemplare l'armonia e la sensibilità con le quali il Creatore ha formato tutte le cose presenti. Un gattino che miagola, una formica che trascina una mollica di pane, un cane che scodinzola allegramente.. in queste ed altre scene della vita, contempliamo la tenerezza, la gioia del Creatore. Egli manifesta la Sua gioia, la Sua tenerezza ma anche la Sua maestà attraverso le opere. Un'artista esprime il suo carattere e i suoi sentimenti attraverso i quadri e così il Creatore ha fatto altrettanto con il creato. Un vulcano imponente appena racconta la maestà del Signore, un temporale la Sua potenza, una farfalla che volteggia nell'aria ne racconta appena la delicatezza, un topolino che corre in una viuzza e un pulcino di aquila che apre il suo becco raccontano appena la tenerezza del Signore. Quanti aspetti diversi nel creato che ci fanno contemplare il carattere e i sentimenti del Creatore. Dall'immensità delle stelle ad un piccolo ragno che tesse la sua ragnatela.
Certamente queste domande rivolte dal Signore a Giobbe sono una sorta di rimprovero. Al di là delle riflessioni che abbiamo fatto sul creato e sulla gioia presente senz'altro presso Dio, riflessioni che possiamo considerare a parte poiché abbiamo contemplato un altro aspetto che non ha molto a che fare con il senso della conversazione, il Creatore rimprovera Giobbe poiché questi ha detto cose senza conoscere Dio. Infatti verso la fine di questo libro vedremo cosa risponde Giobbe al Signore al termine della conversazione.
Nel prossimo capitolo vedremo il Signore continuare a porre domande a Giobbe.
sabato 28 maggio 2011
Il Sabato dei Salmi - Salmo 55 (54) - Preghiera del calunniato
Salmo 55
Preghiera del calunniato
[1]Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Maskil.
Di Davide.
[2]Porgi l'orecchio, Dio, alla mia preghiera,
non respingere la mia supplica;
[3]dammi ascolto e rispondimi,
mi agito nel mio lamento e sono sconvolto
[4]al grido del nemico, al clamore dell'empio.
Contro di me riversano sventura,
mi perseguitano con furore.
[5]Dentro di me freme il mio cuore,
piombano su di me terrori di morte.
[6]Timore e spavento mi invadono
e lo sgomento mi opprime.
[7]Dico: «Chi mi darà ali come di colomba,
per volare e trovare riposo?
[8]Ecco, errando, fuggirei lontano,
abiterei nel deserto.
[9]Riposerei in un luogo di riparo
dalla furia del vento e dell'uragano».
[10]Disperdili, Signore,
confondi le loro lingue:
ho visto nella città violenza e contese.
[11]Giorno e notte si aggirano
sulle sue mura,
[12]all'interno iniquità, travaglio e insidie
e non cessano nelle sue piazze
sopruso e inganno.
[13]Se mi avesse insultato un nemico,
l'avrei sopportato;
se fosse insorto contro di me un avversario,
da lui mi sarei nascosto.
[14]Ma sei tu, mio compagno,
mio amico e confidente;
[15]ci legava una dolce amicizia,
verso la casa di Dio camminavamo in festa.
[16]Piombi su di loro la morte,
scendano vivi negli inferi;
perché il male è nelle loro case,
e nel loro cuore.
[17]Io invoco Dio
e il Signore mi salva.
[18]Di sera, al mattino, a mezzogiorno mi lamento e sospiro
ed egli ascolta la mia voce;
[19]mi salva, mi dà pace da coloro che mi combattono:
sono tanti i miei avversari.
[20]Dio mi ascolta e li umilia,
egli che domina da sempre.
Per essi non c'è conversione
e non temono Dio.
[21]Ognuno ha steso la mano contro i suoi amici,
ha violato la sua alleanza.
[22]Più untuosa del burro è la sua bocca,
ma nel cuore ha la guerra;
più fluide dell'olio le sue parole,
ma sono spade sguainate.
[23]Getta sul Signore il tuo affanno
ed egli ti darà sostegno,
mai permetterà che il giusto vacilli.
[24]Tu, Dio, li sprofonderai nella tomba
gli uomini sanguinari e fraudolenti:
essi non giungeranno alla metà dei loro giorni.
Ma io, Signore, in te confido.
COMMENTO
Posti nella situazione del calunniato e dell'ingiustamente perseguitato, avremo provato almeno una volta nella vita, lo sconforto che Davide ha provato mentre i suoi nemici lo ingiuriavano e perseguitavano. In situazioni del genere si corre il rischio di lasciarsi trasportare dalla passione, dalla vendetta e dall'odio. Invece Davide qui ci insegna a confidare solo in Dio e a lasciare che sia Lui ad aiutarci. Ci invita ad abbandonarci al Signore perché sicuramente troveremo riposo nell'affanno causato dalla disperazione. Davide sembra utilizzare un linguaggio vendicativo, non in linea con le parole di Gesù che invita invece ad amare e a perdonare i nostri nemici, ma Davide invece con quelle parole non ci chiama alla vendetta ma ci mostra la sorte che spetta a quanti praticano il male fino alla morte. Con Gesù è arrivata la speranza per tutti della conversione e quindi della salvezza perché Dio desidera che ciascuno di noi si salvi. In tempi di angoscia causata dalle calunnie degli uomini, gettarsi nella disperazione non giova a nulla, mentre invece l'abbandono nelle braccia del Signore, non solo ci darà conforto ma ci metterà anche nella condizione di essere protetti poiché Egli protegge quanti si affidano alla Sua Bontà.
Dio veramente ascolta quanti si rifugiano in Lui e umilia coloro che con superbia e acidità calunniano il prossimo. Certamente Dio è misericordioso ma non lascia senza correzione quanti praticano il male. Infatti proprio perché Dio è misericordioso umilia i superbi, più che per castigo per correzione. In Gesù ha mostrato la Sua Misericordia perdonando a quanti Lo oltraggiavano. Se nella calunnia chiediamo al Padre vendetta, questo non ci darà mai la gioia e la pace che riceveremmo nel perdonare ai nostri persecutori. Dire al Signore: "Padre, perdono a chi mi fa del male", questo ci rende graditi a Lui perché si compiace dei Suoi figli che Lo imitano. Un papà che vede il suo bambino imitarlo, quanta tenerezza e amore prova nel suo cuore verso il suo figliolo! Così anche noi quando perdoniamo ai nostri persecutori imitiamo il Padre e il Padre si compiace di noi e teneramente e amorevolmente ci benedice. Quel "perdonate e vi sarà perdonato" di Gesù deve farci molto riflettere. Se vogliamo essere perfetti nell'amore, dobbiamo allora perdonare ai nostri nemici e non invocare su di loro disgrazie e morte. Chi compie il male, con le sue cattive azioni merita l'inferno, ma attenzione: chi si converte riceve il perdono. Per questo Davide dice: Piombi su di loro la morte, scendano vivi negli inferi; perché il male è nelle loro case, e nel loro cuore. Con quel "perché" sta ad indicare il motivo per il quale meritano la condanna: perché il male è nelle loro case, e nel loro cuore: per il motivo che hanno il male nel cuore e di conseguenza fanno il male, su di loro deve piombare la condanna della morte eterna perché così richiede la Giustizia Divina. Da qui conosciamo la Giustizia di Dio che richiede la condanna per quanti fanno il male senza pentirsi. Davide dice poi: "Per essi non c'è conversione e non temono Dio". Noi sappiamo alla Luce di Cristo che tutti sono chiamati alla conversione. Ma allora perché Davide dice che per questi non c'è conversione né timore verso Dio? Perché chi fa il male rifiuta la conversione e il rispetto dovuto a Dio. Come quando si esclama riferendosi agli empi: "per loro non c'è religione" come per dire: "per loro la religione non esiste, la rifiutano". Quindi: "per loro non c'è conversione" alla Luce di Gesù sembra voler dire questo. Quindi se Gesù chiama tutti alla conversione, per forza di cose le parole di Davide non intendono dire che per gli empi non è possibile convertirsi, ma che loro non ne vogliono sapere. Sappiamo infatti che per Dio tutto è possibile e quindi la conversione è possibile a tutti per la Grazia di Dio. Come è stato per Saulo di Tarso che era un assassino ed è diventato San Paolo, come è stato per Francesco Bernardone, giovane superficiale che viveva la mondanità del tempo e che è poi diventato l'umile poverello San Francesco d'Assisi. Lo stesso è stato per l'ebreo Alphonse Ratisbonne che non credeva nemmeno in Dio e che poi incontrando Maria in un'apparizione nella Chiesa di Sant'Andrea delle Fratte a Roma, si è convertito all'istante, si è fatto successivamente battezzare diventando poi Sant'Alfonso Maria Ratisbonne. Per questo la conversione è possibile a tutti e quindi Davide non intendeva dire che è impossibile per gli empi convertirsi, ma come già detto intendeva dire che loro rifiutano la conversione. E' sempre l'uomo che decide liberamente il suo destino: se rifiuta la conversione si danna, ma se l'accoglie si salva. Dice il Siracide: Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua; là dove vuoi stenderai la tua mano. L'uomo è quindi libero di scegliere se morire o vivere. Tuttavia Dio dà a tutti la possibilità di convertirsi e salvarsi, talvolta utilizzando situazioni difficili come malattie e povertà le quali agli occhi dell'uomo sono una disgrazia, ma in verità sono una ricchezza perché con queste l'uomo può finalmente liberarsi dal fango in cui è caduto, riconoscendo la sua miseria e fragilità così da abbandonarsi al Signore. Per questo è importante accettare le difficoltà, la via dolorosa perché accettata ci permette di camminare verso il nostro vero bene che è Dio che per raggiungerlo abbiamo bisogno di purificarci e la purificazione avviene proprio nella sofferenza.
Si corre il rischio, specie se si è lontani da Gesù di mal interpretare i Salmi, come del resto tutta la Sacra Scrittura e utilizzarli a proprio piacimento. Per questi motivi è importante conoscere la Parola di Cristo che invita all'amore e alla misericordia per poter bene interpretare il significato delle Scritture. Per questo Gesù nel Vangelo ci dice: "Avete inteso che fu detto, ma io vi dico" perché preso dalla passione e dalla sete di vendetta, l'uomo corre il rischio di interpretare la Scrittura come inneggiante alla vendetta, quando invece Dio ci chiama a perdonare i nostri nemici e ad amarli. All'ascolto della Parola di Gesù che invita al perdono, sappiamo che questo Salmo essendo Sacra Scrittura, non invita noi uomini alla vendetta dato che Davide è mosso dallo Spirito Santo che è lo Spirito di Dio presente Cristo. Lo Spirito Santo essendo Spirito di Verità, non può contraddirsi e quindi non può invitare l'uomo un tempo alla vendetta e un tempo alla misericordia e appare quindi palese che il Salmo non intenda incitare alla vendetta, ma semplicemente mostrare con quelle parole la Giustizia di Dio verso gli impenitenti e cioè gli uomini che muoiono dannati a causa dell'assenza di pentimento nel loro cuore.
Infine, con Davide sappiamo che dobbiamo rivolgerci sempre a Dio, senza mai vendicarci facendo tutto di testa nostra, e così facendo troveremo riposo. E con Gesù sappiamo anche che dobbiamo perdonare ai nostri nemici e perdonando saremo perdonati.
Dio veramente ascolta quanti si rifugiano in Lui e umilia coloro che con superbia e acidità calunniano il prossimo. Certamente Dio è misericordioso ma non lascia senza correzione quanti praticano il male. Infatti proprio perché Dio è misericordioso umilia i superbi, più che per castigo per correzione. In Gesù ha mostrato la Sua Misericordia perdonando a quanti Lo oltraggiavano. Se nella calunnia chiediamo al Padre vendetta, questo non ci darà mai la gioia e la pace che riceveremmo nel perdonare ai nostri persecutori. Dire al Signore: "Padre, perdono a chi mi fa del male", questo ci rende graditi a Lui perché si compiace dei Suoi figli che Lo imitano. Un papà che vede il suo bambino imitarlo, quanta tenerezza e amore prova nel suo cuore verso il suo figliolo! Così anche noi quando perdoniamo ai nostri persecutori imitiamo il Padre e il Padre si compiace di noi e teneramente e amorevolmente ci benedice. Quel "perdonate e vi sarà perdonato" di Gesù deve farci molto riflettere. Se vogliamo essere perfetti nell'amore, dobbiamo allora perdonare ai nostri nemici e non invocare su di loro disgrazie e morte. Chi compie il male, con le sue cattive azioni merita l'inferno, ma attenzione: chi si converte riceve il perdono. Per questo Davide dice: Piombi su di loro la morte, scendano vivi negli inferi; perché il male è nelle loro case, e nel loro cuore. Con quel "perché" sta ad indicare il motivo per il quale meritano la condanna: perché il male è nelle loro case, e nel loro cuore: per il motivo che hanno il male nel cuore e di conseguenza fanno il male, su di loro deve piombare la condanna della morte eterna perché così richiede la Giustizia Divina. Da qui conosciamo la Giustizia di Dio che richiede la condanna per quanti fanno il male senza pentirsi. Davide dice poi: "Per essi non c'è conversione e non temono Dio". Noi sappiamo alla Luce di Cristo che tutti sono chiamati alla conversione. Ma allora perché Davide dice che per questi non c'è conversione né timore verso Dio? Perché chi fa il male rifiuta la conversione e il rispetto dovuto a Dio. Come quando si esclama riferendosi agli empi: "per loro non c'è religione" come per dire: "per loro la religione non esiste, la rifiutano". Quindi: "per loro non c'è conversione" alla Luce di Gesù sembra voler dire questo. Quindi se Gesù chiama tutti alla conversione, per forza di cose le parole di Davide non intendono dire che per gli empi non è possibile convertirsi, ma che loro non ne vogliono sapere. Sappiamo infatti che per Dio tutto è possibile e quindi la conversione è possibile a tutti per la Grazia di Dio. Come è stato per Saulo di Tarso che era un assassino ed è diventato San Paolo, come è stato per Francesco Bernardone, giovane superficiale che viveva la mondanità del tempo e che è poi diventato l'umile poverello San Francesco d'Assisi. Lo stesso è stato per l'ebreo Alphonse Ratisbonne che non credeva nemmeno in Dio e che poi incontrando Maria in un'apparizione nella Chiesa di Sant'Andrea delle Fratte a Roma, si è convertito all'istante, si è fatto successivamente battezzare diventando poi Sant'Alfonso Maria Ratisbonne. Per questo la conversione è possibile a tutti e quindi Davide non intendeva dire che è impossibile per gli empi convertirsi, ma come già detto intendeva dire che loro rifiutano la conversione. E' sempre l'uomo che decide liberamente il suo destino: se rifiuta la conversione si danna, ma se l'accoglie si salva. Dice il Siracide: Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua; là dove vuoi stenderai la tua mano. L'uomo è quindi libero di scegliere se morire o vivere. Tuttavia Dio dà a tutti la possibilità di convertirsi e salvarsi, talvolta utilizzando situazioni difficili come malattie e povertà le quali agli occhi dell'uomo sono una disgrazia, ma in verità sono una ricchezza perché con queste l'uomo può finalmente liberarsi dal fango in cui è caduto, riconoscendo la sua miseria e fragilità così da abbandonarsi al Signore. Per questo è importante accettare le difficoltà, la via dolorosa perché accettata ci permette di camminare verso il nostro vero bene che è Dio che per raggiungerlo abbiamo bisogno di purificarci e la purificazione avviene proprio nella sofferenza.
Si corre il rischio, specie se si è lontani da Gesù di mal interpretare i Salmi, come del resto tutta la Sacra Scrittura e utilizzarli a proprio piacimento. Per questi motivi è importante conoscere la Parola di Cristo che invita all'amore e alla misericordia per poter bene interpretare il significato delle Scritture. Per questo Gesù nel Vangelo ci dice: "Avete inteso che fu detto, ma io vi dico" perché preso dalla passione e dalla sete di vendetta, l'uomo corre il rischio di interpretare la Scrittura come inneggiante alla vendetta, quando invece Dio ci chiama a perdonare i nostri nemici e ad amarli. All'ascolto della Parola di Gesù che invita al perdono, sappiamo che questo Salmo essendo Sacra Scrittura, non invita noi uomini alla vendetta dato che Davide è mosso dallo Spirito Santo che è lo Spirito di Dio presente Cristo. Lo Spirito Santo essendo Spirito di Verità, non può contraddirsi e quindi non può invitare l'uomo un tempo alla vendetta e un tempo alla misericordia e appare quindi palese che il Salmo non intenda incitare alla vendetta, ma semplicemente mostrare con quelle parole la Giustizia di Dio verso gli impenitenti e cioè gli uomini che muoiono dannati a causa dell'assenza di pentimento nel loro cuore.
Infine, con Davide sappiamo che dobbiamo rivolgerci sempre a Dio, senza mai vendicarci facendo tutto di testa nostra, e così facendo troveremo riposo. E con Gesù sappiamo anche che dobbiamo perdonare ai nostri nemici e perdonando saremo perdonati.
venerdì 27 maggio 2011
Siracide - Trentatreesimo appuntamento
Torna come ogni venerdì l'appuntamento con il Libro del Siracide: oggi leggiamo il trentatreesimo capitolo:
1Chi teme il Signore non incorre in alcun male,
se subisce tentazioni, ne sarà liberato di nuovo.
2Un uomo saggio non detesta la legge,
ma l'ipocrita a suo riguardo è come una nave nella tempesta.
3L'uomo assennato ha fiducia nella legge,
la legge per lui è degna di fede come un oracolo.
4Prepàrati il discorso, così sarai ascoltato;
concatena il tuo sapere e poi rispondi.
5Ruota di carro il sentimento dello stolto,
il suo ragionamento è come l'asse che gira.
6Come uno stallone è un amico beffardo,
nitrisce sotto chiunque lo cavalca.
7Perché un giorno è più importante d'un altro?
Eppure la luce di ogni giorno dell'anno viene dal sole.
8Essi sono distinti secondo il pensiero del Signore
che ha variato le stagioni e le feste.
9Alcuni giorni li ha nobilitati e santificati,
altri li ha lasciati nel numero dei giorni ordinari.
10Anche gli uomini provengono tutti dalla polvere
e dalla terra fu creato Adamo.
11Ma il Signore li ha distinti nella sua grande sapienza,
ha assegnato loro diversi destini.
12Alcuni li ha benedetti ed esaltati,
altri li ha santificati e avvicinati a sé,
altri li ha maledetti e umiliati
e li ha scacciati dalle loro posizioni.
13Come l'argilla nelle mani del vasaio
che la forma a suo piacimento,
così gli uomini nelle mani di colui che li ha creati,
per retribuirli secondo la sua giustizia.
14Di fronte al male c'è il bene,
di fronte alla morte, la vita;
così di fronte al pio il peccatore.
15Considera perciò tutte le opere dell'Altissimo;
due a due, una di fronte all'altra.
16Io mi sono dedicato per ultimo allo studio,
come un racimolatore dietro i vendemmiatori.
17Con la benedizione del Signore ho raggiunto lo scopo,
come un vendemmiatore ho riempito il tino.
18Badate che non ho faticato solo per me,
ma per quanti ricercano l'istruzione.
19Ascoltatemi, capi del popolo,
e voi che dirigete le assemblee, fate attenzione.
20Al figlio e alla moglie, al fratello e all'amico
non dare un potere su di te finché sei in vita.
Non dare ad altri le tue ricchezze,
perché poi non ti penta e debba richiederle.
21Finché vivi e c'è respiro in te,
non abbandonarti in potere di nessuno.
22È meglio che i figli ti preghino
che non rivolgerti tu alle loro mani.
23In tutte le azioni sii sempre superiore,
non permettere che si offuschi la tua fama.
24Quando finiranno i giorni della tua vita,
al momento della morte, assegna la tua eredità.
25Foraggio, bastone e pesi per l'asino;
pane, castigo e lavoro per lo schiavo.
26Fa' lavorare il tuo servo, e potrai trovare riposo,
lasciagli libere le mani e cercherà la libertà.
27Giogo e redini piegano il collo;
per lo schiavo cattivo torture e castighi.
28Fallo lavorare perché non stia in ozio,
poiché l'ozio insegna molte cattiverie.
29Obbligalo al lavoro come gli conviene,
e se non obbedisce, stringi i suoi ceppi.
30Non esagerare con nessuno;
non fare nulla senza giustizia.
31Se hai uno schiavo, sia come te stesso,
poiché l'hai acquistato con il sangue.
32Se hai uno schiavo, trattalo come fratello,
perché ne avrai bisogno come di te stesso,
33Se tu lo maltratti ed egli fuggirà,
per quale strada andrai a ricercarlo?
COMMENTO
Il timore, la benevolenza verso il prossimo, sono le virtù insegnate e verso quali l'autore del testo ci incoraggia nel praticarle. A primo impatto sembra di leggere delle contraddizioni e degli inviti che apparentemente stonano con quanto detto da Gesù. Per non incorrere in questi errori, dobbiamo sempre leggere questi testi alla Luce di Cristo, ovvero tenendo presente la Sua Parola di vita che è verità e via per la salvezza. Sembra di leggere un'esortazione alla schiavitù e al maltrattamento, ma noi sappiamo che Gesù ci invita ad amare, ad avere compassione di tutti e a perdonare i nostri nemici. Sottolineo la parola "sembra" perché infatti nella Bibbia non può esserci e non c'è contraddizione. Il capitolo di oggi stesso alla fine lo dice: Tratta come fratello lo schiavo. Certo ai tempi in cui vennero scritti questi testi, c'erano ancora gli schiavi, possiamo quindi tradurre per i giorni nostri la parola "schiavi" in "dipendenti". E' un invito fatto anche ai datori di lavoro di oggi di trattare bene i loro dipendenti, come fratelli. Allora forse potremmo dire che quanto scritto poco sopra nel capitolo, sia un invito a maltrattare il dipendente cattivo? Assolutamente no, per quale motivo la Sacra Scrittura dovrebbe invitarci a comportarci male? Nella Sacra Scrittura ci parla lo Spirito di Dio attraverso i profeti che non è mai contraddittorio, essendo Spirito di amore, verità e perfezione. E allora cosa intende dire l'autore del testo? Per cercare il significato dovremmo spendere un po' di tempo nella riflessione per capire il reale senso di questa Scrittura. La Bibbia porta in sé il linguaggio profetico, un linguaggio che solo con gli occhi della fede in Gesù Cristo può essere ben interpretato. Per quanto riguarda la superiorità e la fama, il comportamento con i figli e con i schiavi, l'autore del testo intende sicuramente non invitare alla superbia o alla violenza, perché questo sarebbe contro la santificazione e la Bibbia essendo il Libro di Dio ci invita invece all'amore, alla carità, alla misericordia e quindi alla santità. Riguardo alla superiorità, l'autore certamente invita ad essere superiori nell'amore e la fama non è quella che intende il mondo, cioè il successo, la notorietà, ma questa fama la possiamo intendere bene dandole il nome di reputazione. Se una persona agisce stoltamente, perde la sua reputazione, ma se le sue azioni sono ricche di amore e carità, la sua reputazione allora è buona presso la comunità in cui vive. Per lo schiavo cattivo, il linguaggio all'apparenza forte, sta molto probabilmente ad indicare la sorte alla quale vanno incontro i ribelli e gli insolenti. Perché infatti come dicevamo pocanzi, alla fine il capitolo invita alla fratellanza e all'umiltà. Per il rapporto con i figli, quasi certamente l'autore invita l'uomo ad avere una certa autorità con la prole perché questi non crescano nella ribellione. Autorità che però non vuol dire freddezza e violenza poiché anche i genitori sono chiamati ad amare. Ci basta guardare al Padre che ci ama e allo stesso tempo chiede quel rispetto dovutogli. In poche parole un genitore deve amare i figli e farsi rispettare perché questi non prendano la strada del disorientamento e delle cattive abitudini. "Onore il padre e le madre" è uno dei comandamenti e probabilmente l'autore del capitolo si ispira proprio a questa regola d'oro del Signore. Chi rispetta i genitori, li obbedisce e l'obbedienza permette al figlio o ai figli di crescere bene imparando dai buoni insegnamenti del padre e della madre. Infine per l'ozio, parla chiaro la Scrittura: lavorare, impegnarsi è un modo, oltre che per il sostentamento, per non cadere nei vizi.
Concludiamo volgendo lo sguardo sulla parte iniziale del capitolo nel quale ci mostra la bellezza dell'opera di Dio: la molteplicità. Prendo spunto da una riflessione di qualche settimana fa della nostra cara amica Enza pubblicata in Riflettiamo Insieme nella quale meditò sull'unità nella diversità. I giorni, le persone, tutti uguali nella loro forma e per la loro origine, ma ognuno diverso per il loro aspetto e carattere, cultura, ma tutti uniti. Questa unità nella diversità è immagine della Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono tre persone distinte ma unite e il Creatore manifesta questo Suo aspetto nella creazione. Molto bello quindi il passo dal versetto 7 al 13, da meditare per contemplare la Trinità Santissima attraverso le opere.
giovedì 26 maggio 2011
Catechismo della Chiesa Cattolica - XXVII parte
Proseguiamo il nostro percorso volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica: siamo giunti all'Articolo 5 nel quale si parla della discesa agli inferi di Gesù Cristo e della sua resurrezione avvenuta nel terzo giorno: cominciamo con il Paragrafo 1 nel quale si parla della discesa agli inferi:
ARTICOLO 5
GESU' CRISTO « DISCESE AGLI INFERI,
IL TERZO GIORNO RISUSCITO' DA MORTE »
631 Gesù « era disceso nelle regioni inferiori della terra. Colui che discese è lo stesso che anche ascese » (Ef 4,10). Il Simbolo degli Apostoli professa in uno stesso articolo di fede la discesa di Cristo agli inferi e la sua risurrezione dai morti il terzo giorno, perché nella sua pasqua egli dall'abisso della morte ha fatto scaturire la vita:
« Cristo, tuo Figlio,
che, risuscitato dai morti,
fa risplendere sugli uomini la sua luce serena,
e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen ». 525
Paragrafo 1
CRISTO DISCESE AGLI INFERI
632 Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù « è risuscitato dai morti » (1 Cor 15,20) 526 presuppongono che, preliminarmente alla risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti. 527 È il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri. 528
633 La Scrittura chiama inferi, Shéol o ~!4*0< 529 il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. 530 Tale infatti è, nell'attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; 531 il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel « seno di Abramo ». 532 « Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all'inferno ». 533 Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati 534 né per distruggere l'inferno della dannazione, 535 ma per liberare i giusti che l'avevano preceduto. 536
634 « La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti... » (1 Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell'annunzio evangelico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato di estensione dell'opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione.
635 Cristo, dunque, è disceso nella profondità della morte 537 affinché i « morti » udissero « la voce del Figlio di Dio » (Gv 5,25) e, ascoltandola, vivessero. Gesù, « l'Autore della vita », 538 ha ridotto « all'impotenza, mediante la morte, colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo », liberando « così tutti quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita » (Eb 2,14-15). Ormai Cristo risuscitato ha « potere sopra la morte e sopra gli inferi » (Ap 1,18) e « nel nome di Gesù ogni ginocchio » si piega « nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2,10).
« Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato ed ha svegliato coloro che da secoli dormivano. [...] Egli va a cercare il primo padre, come la pecora smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva, che si trovano in prigione. [...] Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio. [...] Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la Vita dei morti ». 539
In sintesi
636 Con l'espressione « Gesù discese agli inferi » il Simbolo professa che Gesù è morto realmente e che, mediante la sua morte per noi, egli ha vinto la morte e il diavolo « che della morte ha il potere » (Eb 2,14).
637 Cristo morto, con l'anima unita alla sua Persona divina, è disceso alla dimora dei morti. Egli ha aperto le porte del cielo ai giusti che l'avevano preceduto.
mercoledì 25 maggio 2011
Verità della Fede - XVIII parte
Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Proseguiamo la lettura del Cap. V composto da quattro paragrafi. La scorsa settimana abbiamo letto il paragrafo 1, oggi leggeremo i restanti tre paragrafi nei quali Sant'Alfonso prosegue l'analisi sulle profezie riguardanti gli ebrei le quali provano il già realizzato avvento del Messia che è Gesù Cristo:
Verità della Fede
di Sant'Alfonso Maria de' Liguori
SECONDA PARTE
CAP. V.
§. 2. Della dispersione degli Ebrei.
7. Fu bisogno che il popolo ebraico, come depositario delle scritture divine e delle promesse del Messia, si conservasse unito in un corpo, finché tutti i sacri libri fossero scritti e riconosciuti per divini, e si vedesse compiuta la promessa del Messia colla sua venuta. Se gli ebrei si fossero dispersi prima che si fosse fatta certa la cognizione de' sacri libri, non avrebbero potuto le scritture guadagnarsi quell'autorità universale che hanno acquistata, ed appresso se ne sarebbero forse anche smarrite le prove. E lo stesso sarebbe accaduto delle notizie del Messia. Di più, se Gesù Cristo fosse comparso dopo che il popolo fosse stato sparso per l'universo, le sue azioni ed i suoi miracoli sarebbero rimasti intricati fra molte incertezze, e poco ne avrebbe saputo il corpo intero della nazione; perciò Dio dispose che prima si fossero appurate le vere scritture, e prima Gesù Cristo morisse tra gli ebrei in Gerusalemme, e poi andassero essi dispersi per tutta la terra in castigo del loro peccato, e così portassero da per tutto le medesime scritture, per dimostrare a' gentili la venuta del Messia adorato da' cristiani: facendo così gli ebrei contro se medesimi testimonianza, e somministrando le prove della cristiana religione.
8. Senza tali prove i gentili avrebbero disprezzate le scritture come false, come fatte dopo gli avvenimenti, e si sarebbe negata ogni tradizione precedente del Messia venturo. Sicché gli ebrei in ciò sono stati i testimonj meno sospetti, perché nemici della nuova legge; e così colla loro odiosità ed ostinazione hanno molto contribuito a far conoscere Gesù Cristo, come dice s. Paolo: Sed illorum delicto salus est gentibus, ut illos aemulentur1. Ecco come il profeta Amos predisse questa loro dispersione: Ecce enim mandabo ego, et concutiam in omnibus gentibus domum Israel. 9. 9. Ordinerò che la casa d'Israele vada dispersa fra tutte le genti. E prima la predisse Davide: Nutantes transferantur filii eius, et mendicent et eiiciantur de habitationibus suis2. Ed in altro luogo: Ne occidas eos: ne quando obliviscantur populi mei. Disperge illos in virtute tua3. Con ciò profetizzò Davide che il castigo degli ebrei non dovea esser la loro total distruzione, ma l'andare dispersi per tutto il mondo; acciocché così i popoli si rammentassero sempre della vendetta che d'essi ebrei il Signore seguiva a prendersi. Miseri! Essi portano per ogni luogo il segno dell'ira divina: vanno erranti e timidi da per tutto, ma senza pentimento del loro delitto; facendo così vedere alle genti che portano essi e i loro figli la pena dello sparso sangue innocente di Gesù Cristo, giusta la imprecazione fattasi da loro stessi: Sanguis eius super nos et super filios nostros4.
9. Essi fra tutte le nazioni sono considerati come maledetti e come l'obbrobrio di tutte le genti, secondo già predisse Geremia5: Dabo eos in vexationem universis regnis terrae: in maledictionem et in stuporem et in sibilum et in opprobrium cunctis gentibus, ad quas eieci eos. Da molti sono sbanditi da' loro paesi. Da altri appena è destinato loro qualche luogo ristretto, da cui non possono uscire. Sono gl'infelici in abbominio anche agli eretici e agli idolatri. Il solo nome di giudeo oggi è riputato da tutti per una grande ingiuria; e pure è vero che Iddio a questo popolo promise la redenzione del mondo, a questo concesse il deposito delle sacre scritture, a questo mandò i suoi profeti, e da questo volle che nascesse il Messia e i di lui primi discepoli. Ma perché ostinato non volle aprire gli occhi a riconoscere il suo re e liberatore, egli è divenuto il popolo più misero e vile fra tutte le nazioni del mondo. Chi non vede qui la verità di queste profezie che tutto predissero: il peccato degli ebrei, la loro dispersione e la conversione de' gentili? Et dicam non populo meo: Populus meus es tu6. Chi non vede che chi si divide da Gesù Cristo, trova la sua rovina?
§. 3. Dell'acciecamento predetto agli ebrei.
10. Quis caecus, disse il Signore per Isaia, nisi servus meus? et surdus, nisi ad quem nuntios meos misi7? Chi è questo cieco a cui parlo, se non chi professa di esser mio servo? E chi è questo sordo, se non colui al quale inviai i miei ambasciatori? Con queste parole si lamenta il Signore della cecità del suo popolo, che, dopo essere stato così illuminato da' suoi profeti, e dopo esser vivuto tanti secoli aspettando il Messia, quando questi poi è venuto, non abbia voluto riconoscerlo. Queste espressioni par che avrebbero dovuto mettere ostacolo alla credenza de' gentili in credere a Gesù Cristo; ma no, perché le stesse scritture che promisero il Messia, predissero già l'acciecamento degli ebrei nel rifiutarlo e la conversione delle genti. E così quello che sembra ostacolo, quello rende più chiara la prova della venuta del Messia; poiché lo stesso rifiuto fattone dagli ebrei conferma la verità della sua venuta.
11. Parla Isaia dello stesso acciecamento, e dice: Vade, et dices populo huic: Audite audientes, et nolite intelligere: et videte visionem, et nolite cognoscere1. Udite quel che vi dico, ma voi non vorrete intenderlo; mirate ciò che vi discopro, ma non vorrete conoscerlo. Indi il profeta dimanda al Signore: Et dixi: Usque quo Domine? et dixit: donec desolentur civitates2. Quanto durerà questa cecità? Durerà finché le loro città restino affatto distrutte. Di più scrisse Isaia: Et erit vobis in sanctificationem. In lapidem autem offensionis et in petram scandali duabus domibus Israel3. Qui parla il profeta del Messia, ch'è la pietra angolare, la quale è il fondamento di tutta la chiesa, e dice che questa pietra sarà la santificazione delle genti; ma all'incontro le due case d'Israele, cioè la tribù di Giuda e di Beniamino da una parte e le dieci tribù degli ebrei dall'altra, anderanno ad urtare in tal pietra, in cui per loro colpa troveranno la lor rovina. Ecco prenunziato l'acciecamento del popolo ebraico: mentre di quel Redentore che venne per la loro salute, essi si sono valuti per loro perdizione, come predisse ancora il santo vecchio Simeone, parlando di Gesù Cristo: Ecce positus est hic in ruinam, et in resurrectionem multorum4.
12. Di più disse Isaia: Obstupescite, et admiramini; fluctuate, et vacillate: inebriamini et non a vino. Quoniam miscuit vobis Dominus spiritum soporis, claudet oculos vestros etc. Et erit vobis visio omnium, sicut verba libri signati5. A tempo di Gesù Cristo diventarono gli ebrei simili agli ubbriachi, che vanno vacillando per le vie; e ciò avvenne quando si videro i rabbini e sacerdoti ebrei, che in ammirare i miracoli del Redentore sentivansi mossi a crederlo, ma per l'invidia resisterono e lo perseguitarono; onde si posero ad oscurare le prove che dava Gesù Cristo della sua missione, o negando quel che vedeano, o attribuendolo a forza diabolica con dire: In principe daemoniorum eiicit daemones6. E con ciò restarono più ciechi, come già lor rimproverava il Signore; poiché dicendo essi: Nunquid et nos caeci sumus? Gesù loro rispose: Si caeci essetis, non haberetis peccatum7. Colle quali parole volle significare che essi non erano affatto ciechi, ma erano ciechi volontarj; giacché aveano motivi molto possenti, i quali gli obbligavano ad indagar la verità, che ben l'avrebbero conosciuta, se avessero atteso ad esaminar le scritture ed i miracoli colla dottrina e vita di Gesù Cristo. Questo fu il lor peccato, il voler resistere ai lumi che aveano; e questo fu lo spirito di vertigine, che si tirarono sopra in castigo della loro resistenza: Miscuit vobis Dominus spiritum soporis, claudet oculos vestros. I giudei in questa mala disposizione consultavano le scritture, non già per cedere, conoscendo la verità, ma per più imperversarsi; e così quelle per essi eran divenute un libro suggellato e chiuso: Et erit vobis visio omnium (cioè di tutti i profeti) sicut verba libri signati; onde non ne ricavavano più alcun raggio di luce.
13. Ma perché Iddio permise tale oscurità negli ebrei? Eccolo; essi attendeano alle loro speranze temporali e niente alle eterne, e perciò onoravano Dio solo esternamente: Populus iste ore suo et labiis suis glorificat me, cor autem eius longe est a me8. Onde disse Dio: mentre costoro non cercano me, ma solamente se stessi, io li lascierò involti nella loro ignoranza: Peribit enim sapientia a sapientibus eius, et intellectus prudentium eius abscondetur9. Ed ecco come poi piange Isaia questo acciecamento in loro nome. Expectavimus lucem et ecce tenebrae... Expectavimus iudicium, et non est: salutem et elongata est a nobis10. La stessa luce fu tenebra per li miseri ebrei: la stessa salute fu per essi rovina per causa della loro malignità, e per aver chiusi gli occhi alla luce. Sicché il rifiuto che fecero essi del Messia, è una prova della verità della nostra religione: la loro miscredenza rischiara la nostra. Ed all'incontro la credenza de' gentili dimostra la verità del Messia, giusta l'altro vaticinio del profeta: In iudicium ego in hunc mundum veni, ut qui non vident, videant; et qui vident, caeci fiant1.
14. L'altra profezia che conferma la venuta di Gesù Cristo, fu la predizione che tra la moltitudine degli ebrei dovea esservi un piccol numero di fedeli, e che questi doveano essere inondati di giustizia, cioè colmi di virtù: Si enim fuerit populus tuus Israel quasi arena maris, reliquiae convertentur ex eo: consummatio inundabit iustitiam2. E ciò fu confermato dall'altro vaticinio: Haec erunt in medio terrae, in medio populorum, quomodo si paucae olivae, quae remanserunt, excutiantur ex olea, et racemi, cum fuerit finita vindemia. Propter hoc in doctrinis glorificate Dominum: in insulis maris nomen Domini Dei Israel. A finibus terrae laudes audivimus, gloriam iusti3. Sicché i buoni israeliti (che furono gli apostoli) furon somigliati a quelle poche olive, o pochi grappoli d'uva che sfuggono dalla vista de' vendemmiatori; e questi doveano predicare la gloria del giusto (quale fu Gesù Cristo) facendo conoscere da per tutto, non solo nella Giudea, ma anche ne' luoghi lontani il vero Dio.
15. Tutto poi maggiormente si conferma dagli atti degli apostoli4 ove si narra che il numero di coloro che tennero il partito di Gesù Cristo nella di lui vita, fu molto piccolo, ma la loro santità fu grande, poiché non avevan niente di proprio, ed erano per la carità un'anima sola, e così tirarono gli altri alla fede. Indarno con minaccie e maltrattamenti gli ebrei cercaron di farli tacere; essi con fortezza seguirono a predicare le glorie del Redentore prima nella Giudea e nella Samaria, e poi fra gl'idolatri, sì che tra pochi anni si fecero sentire per tutte le parti del mondo; e gli ebrei restarono ostinati e sepolti nel loro acciecamento.
16. Dice l'autore dell'Esame della Religione che se Dio fosse stato l'autore delle profezie, avrebbe parlato più chiaro; e se avesse parlato più chiaro, gli ebrei non avrebbero ripugnato di credere Gesù Cristo. Ma rispondiamo che considerate le circostanze e gli avvenimenti succeduti ed avverati secondo stava predetto, troppo chiare appariscono le profezie. Già dal principio fu in quelle predetto, che il seme della donna avrebbe schiacciata la testa del serpente: che in Abramo sarebberostate benedette tutte le genti: che dalla famiglia di Giuda sarebbe venuto l'aspettato dalle genti: si è veduto avverato il tempo della venuta del Messia, della distruzione del tempio, della dispersione degli ebrei; il che tutto stava da Daniele predetto. Qual maggior chiarezza poteva attendersi? L'acciecamento poi degli ebrei non ha avuta causa dall'oscurità delle profezie, ma dalla loro ostinazione e dalla loro falsa idea del Messia, aspettando da lui più che i beni eterni, i beni temporali di opulenza e di dominio, e perciò sono rimasti acciecati ed ostinati.
§. 4. Della conservazione degli Ebrei.
17. Non solo la dispersione degli ebrei e 'l disprezzo che trovano da per tutto, ma anche la loro conservazione dopo tanti secoli molto conferma la nostra fede e la verità delle scritture. Come mai questo popolo ribelle, essendo stato così disperso per tutta la terra, non è restato egli confuso colle altre nazioni, con perdersi la di lui memoria, mentre per tanti anni non ha avuto né principi, né patria, né magistrati, né sacerdoti, né sacrificj, né feste; giacché ogni sacrificio o festa è a lui vietato di esercitarla fuori di Gerusalemme, ove al presente non gli è permesso neppure di metter piede? Oggidì è difficilissimo il discernere le vere famiglie romane antiche dalle straniere venute in Italia; e lo stesso può dirsi d'ogni nazione. Ma degli ebrei non può dubitarsi ch'essi siano tutti veri discendenti di Abramo. È vero che dopo la loro dispersione non possono distinguersi le loro famiglie e specialmente quelle della tribù d'Aronne, alla quale stava destinato il sacerdozio, perché dopo la loro dispersione non hanno più archivj pubblici per registrare i loro rami (e questo è un altro argomento dell'abolizione della loro legge): ma è certo che tutti essi sono figli di Abramo. Or come mai non han procurato di mischiarsi con altri popoli (cosa lor molto facile) per evitare almeno l'odio e la derisione comune?
18. Né può dirsi che ciò era lor impedito dallo zelo della religione, perché a tempo di Geremia, per evitare le calamità temporali e meno gravose di quelle che al presente patiscono, non fecero ripugnanza di avvilirsi sino ad adorar la luna1. E lo stesso avvenne anche a tempo de' Macabei: Iuncti sunt nationibus2. Ma no, essi ostinati sieguono tuttavia a resistere anche a' lumi dello Spirito santo. Vedono che la venuta dell'altro loro aspettato Messia non viene a fine: che sempre più si avverano le predizioni della nostra chiesa: vedono all'incontro che falliscono sempre le computazioni de' tempi fatte dai lor rabbini, tanto che da più secoli i loro sovrastanti han proibito ad ognuno di più numerare gli anni del Messia scorgendo che tutti i calcoli portano a Gesù Cristo già venuto. Ma ciò non ostante stan fermi, e sieguono a vivere attaccati al loro giudaismo. Chi non vede esser tutta disposizione della divina provvidenza per la conferma del vangelo, secondo la predizione di Geremia: Ego consumam cunctas gentes, ad quas eieci te (serve meus Iacob); te vero non consumam, sed castigabo te in iudicio3. Io lascerò, dice Dio, consumare tutte le genti, fra le quali ti caccierò in bando; non consumerò te, popolo di Giacobbe, ma ti castigherò secondo il giudizio della mia giustizia. Se gli ebrei fossero stati distrutti, darebbero prova solamente della giustizia di Dio sopra di essi esercitata; ma coll'esser conservati, oltre la giustizia, provano la verità della fede e della venuta del Messia promesso.
19. Vi sta nondimeno la promessa per Geremia che un giorno gli ebrei si convertiranno, e riceveranno la misericordia di Dio: Reducam enim conversionem eorum, et miserebor eis4. Ed in altro luogo: Si mensurari potuerint coeli sursum, et investigari fundamenta terrae deorsum, et ego abiiciam universum semen Israel, propter omnia quae fecerunt, dicit Dominus5. Siccome non può misurarsi l'altezza de' cieli, né la profondità della terra, così io, dice Dio, non mai rigetterò tutta la stirpe d'Israele, per quanti mali abbiano fatti.
20. Predisse ancora il Signore la conversione degli ebrei per Isaia6. Haec dicit Dominus creans te Iacob, et formans te Israel... Noli timere, quia ego tecum sum. Ab oriente adducam semen tuum, et ab occidente congregabo te.
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1 Rom. 11. 11.
2 Psal. 108. 10.
3 Psal. 58. 12.
4 Matth. 27. 25.
5 29. 18.
6 Os. 2. 24.
7 Isa. 42. 19.
1 Isa. 6. 9.
2 Isa. 6. 11.
3 8. 14.
4 Luc. 2. 34.
5 Isa. 29. 9.
6 Matth. 9. 34.
7 Ioan. 9. 40. et 41.
8 Isaiae 29. 13.
9 Ibid. 14.
10 59. 9. et 11.
1 Isa. 29. 18.
2 Isa. 10. 22.
3 Isa. 24. 13.
4 Actor. c. 4.
1 Ier. 44. 16. ad 18.
2 1. Mach. 1. 16.
3 Ier. 46. 28.
4 Ier. 33. 26.
5 Ier. 31. 37.
6 43. 1. et 5.
martedì 24 maggio 2011
La Città di Dio - XIX parte
Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il pensiero agostiniano è fermo a denunciare il modello perverso della società romana, denunciato dai suoi stessi autori e poeti. Oggi, dopo aver letto il pensiero di Sallustio, Sant'Agostino richiama persino la descrizione effettuata dal celebre Cicerone che già da tempo apprima aveva segnalato la decadenza morale di Roma:
20. Ma simili adoratori e amatori di questi dèi, che si vantano anche di imitare nei delitti e azioni infami, non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d'altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio. La massa sia libera di non far parlare, di esiliare, di ammazzare l'individuo che tenti di riformare o abolire questo benessere. Siano considerati veri dèi coloro che hanno concesso ai cittadini di raggiungerlo e una volta raggiunto di conservarlo. Siano adorati come vorranno, chiedano gli spettacoli che vorranno e che possano avere assieme o mediante i loro adoratori; concedano soltanto che per tale benessere non si debba temer nulla dal nemico, dalla peste, dalla sventura. Chi, se è sano di mente, potrà paragonare questa società civile non dirò all'impero romano ma alla casa di Sardanapalo? Costui, re nei tempi andati, fu così dedito ai piaceri da far scrivere nel suo sarcofago che da morto aveva soltanto le cose che la sua libidine aveva delibato mentre era vivo 40. E se i Romani di oggi lo avessero per re che consente loro i piaceri e non frastorna con la severità alcuno dall'averli, a lui più volentieri dedicherebbero il tempio e il flamine che i Romani di una volta dedicarono a Romolo. Politeismo e giustizia sociale (21-29)
21. 1. Ma forse si disprezza chi ha giudicato la società romana eticamente molto depravata e costoro non si preoccupano che sia coperta dalla piaga nauseante di costumi moralmente pervertiti, ma soltanto che si conservi e rimanga. Sappiano allora che non solo è divenuta moralmente molto depravata come narra Sallustio, ma che era già finita fin d'allora e che non esisteva più una società civile come sostiene Cicerone. Egli sulla società fa parlare Scipione, quello che aveva distrutto Cartagine, quando si prevedeva che stesse per finire con quella scostumatezza che descrive Sallustio. Il dialogo si teneva in quel periodo in cui era già stato ucciso uno dei Gracchi; e proprio da quel tempo, come scrive Sallustio, cominciarono le gravi sedizioni 41. In quell'opera si fa menzione appunto della morte del Gracco. Dice dunque Scipione alla fine del secondo libro dell'opera citata: Negli strumenti a corda o a fiato ed anche nel canto vocale si deve produrre dai vari suoni un determinato accordo. Se esso non varia o discorda, l'udito di un intenditore non può sopportarlo. L'accordo in parola inoltre risulta armonico e proporzionato dalla regolata intensità di suoni di diversa altezza. Allo stesso modo lo Stato si armonizza mediante ceti alti, bassi e mediani, a guisa di suoni, in moderata proporzione dall'accordo di elementi molto differenti; e quella che dai musici nel canto si chiama armonia è nello Stato la concordia che è eticamente il più profondo vincolo di sopravvivenza in ogni società civile e non si può avere assolutamente senza la giustizia 42. E avendo dimostrato con un po' di ampiezza e di ricchezza di osservazioni quanto è utile allo Stato la giustizia e quanto nociva la sua mancanza, prese a parlare Filo, uno di quelli che era presente al dialogo. Egli chiese che il problema fosse approfondito e che si parlasse più diffusamente della giustizia a causa del già diffuso pregiudizio popolare che la società non si può governare senza l'ingiustizia. Scipione fu d'accordo che il problema fosse da discutere e da svolgere e precisò che, a suo modo di vedere, sulla società civile non erano ancora stati esposti dei concetti da cui sviluppare ulteriormente. Era stato però accertato che non solo è falso che la società non si può amministrare senza ingiustizia ma è assolutamente vero che non lo si può senza una grande giustizia 43. Ed essendo stata differita la trattazione al giorno seguente, nel terzo libro l'argomento fu svolto in un acceso dibattito. Filo si incaricò di sostenere il parere di coloro i quali ritenevano che la società non si può reggere senza l'ingiustizia, affermando con insistenza che non si ritenesse come sua opinione e si batté con vigore per l'ingiustizia contro la giustizia nel simulato tentativo di dimostrare con argomentazioni verosimili ed esempi che la ingiustizia è utile, la giustizia è disutile. Allora Lelio, poiché tutti lo pregavano di difendere la giustizia, cominciò con l'affermare, quanto gli riuscì, che niente è tanto avverso allo Stato come l'ingiustizia e che la società civile può essere amministrata e conservata soltanto con una grande giustizia 44.
21. 2. Trattato il problema per il tempo che si ritenne opportuno, Scipione tornò ai concetti accennati, richiamò e difese la propria breve definizione della società civile. Aveva detto che è lo stato del popolo 45. Stabilì che popolo non è un qualsiasi gruppo d'individui ma un gruppo associato dalla universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi. Mostrò poi quanto sia grande nel discutere l'utilità della definizione e dalle sue definizioni dedusse che allora soltanto si ha la società civile, cioè lo stato del popolo, quando si amministra con onestà e giustizia, sia da un monarca o da pochi ottimati o da tutto il popolo. Se invece il re è ingiusto, e secondo la terminologia greca lo chiamò tiranno, o ingiusti gli ottimati, e considerò fazione il loro accordo, o ingiusto il popolo, e non trovò la denominazione abituale, a meno di considerarlo, anche esso, tiranno, allora la società civile non solo sarebbe guasta, come il giorno avanti era stato sostenuto, ma come avrebbe dimostrato la logica conseguenza da quelle definizioni, è inesistente perché non sarebbe lo stato del popolo. Al contrario la occuperebbero il tiranno o la fazione; il popolo stesso, se fosse ingiusto, non sarebbe più un popolo perché non sarebbe una moltitudine associata dall'universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi, come il popolo era stato definito 46.
21. 3. Quando dunque la società romana era nelle condizioni in cui la descrive Sallustio, non era ancora eticamente molto depravata, come la descrive lui, ma del tutto inesistente secondo il criterio dichiarato nel dialogo sulla società tenuto dai suoi cittadini più eminenti. Così pensa anche Cicerone non fingendo di esprimersi con le parole di Scipione o di altri, ma a nome proprio, al principio del quinto libro. Cita prima di tutto un verso del poeta Ennio che diceva: Lo Stato romano è saldo in virtù dei costumi e uomini antichi 47. Mi sembra, continua Cicerone, che per la brevità e la verità egli abbia derivato quel verso come da un oracolo. Infatti né gli uomini, se la cittadinanza non fosse stata di buoni costumi, né i costumi, se non fossero stati a capo quegli uomini, avrebbero potuto fondare o conservare tanto a lungo una società civile tanto grande e che domina su regioni tanto estese. Quindi nel periodo anteriore al nostro ricordo lo stesso costume patrio adoperava uomini eccellenti e questi conservavano l'antico costume e gli istituti degli antenati. La nostra età avendo avuto in consegna una società come una pittura perfetta, ma un po' stinta dall'antichità, non solo ha trascurato di restaurarla con i colori originali, ma non si è preoccupata neanche di conservare almeno il modellato e il disegno. Che cosa rimane dei costumi antichi con cui, come Ennio ha detto, stava saldo lo Stato romano se li vediamo talmente in disuso per dimenticanza che non solo non sono conservati ma perfino ignorati? E che dire degli uomini? I costumi sono scomparsi per carenza di uomini. E di un così grande male non solo dovremmo render conto ma in certo senso essere accusati di delitto capitale. E a causa dei nostri vizi e non per una eventualità qualsiasi conserviamo il nome di società civile ma in realtà l'abbiamo perduta da tempo 48.
21. 4. Cicerone confessava questo stato di cose molto tempo dopo la morte dell'Africano che nei suoi libri ha fatto disputare sulla società, ma prima ancora della venuta di Cristo. Se questi mali fossero noti al pubblico e dichiarati esplicitamente quando la religione cristiana era conosciuta e vigorosa, chi non avrebbe ritenuto di doverli imputare ai cristiani? Perché i loro dèi non si preoccuparono che non andasse del tutto in rovina la società civile che Cicerone, molto tempo prima che Cristo venisse, lamenta con tanta tristezza ormai perduta? Si informino i panegiristi della società romana in quale condizione era anche con quegli antichi uomini e costumi, se cioè in essa era in vigore la vera giustizia ovvero se neanche allora era viva nei costumi ma dipinta con colori. L'ha detto inconsapevolmente lo stesso Cicerone nel lodarla. Ma altrove, se Dio vorrà, esamineremo questo argomento 49. Cicerone ha presentato brevemente con le parole di Scipione che cos'è la società civile e che cos'è il popolo aggiungendo molte opinioni sue e di coloro che ha fatto parlare in quel dialogo. Ed io mi sforzerò a suo tempo di dimostrare in base alla definizione dello stesso Cicerone che quella non fu mai una società civile perché non si ebbe mai in essa la vera giustizia. In base a definizioni abbastanza probabili fu per certi suoi aspetti una società civile e fu meglio amministrata dagli antichi che da quelli che seguirono. Ma la vera giustizia si ebbe soltanto nella società, di cui Cristo è fondatore e sovrano, se è ammesso di considerare anche essa uno Stato pubblico, perché non si può negare che è uno Stato del popolo. Se poi questo nome, che si usa diversamente nei vari luoghi, è forse meno adatto al nostro modo di parlare, v'è certamente giustizia in quella città, di cui la sacra Scrittura dice: Azioni gloriose sono state narrate di te, o città di Dio 50.
20. Ma simili adoratori e amatori di questi dèi, che si vantano anche di imitare nei delitti e azioni infami, non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d'altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio. La massa sia libera di non far parlare, di esiliare, di ammazzare l'individuo che tenti di riformare o abolire questo benessere. Siano considerati veri dèi coloro che hanno concesso ai cittadini di raggiungerlo e una volta raggiunto di conservarlo. Siano adorati come vorranno, chiedano gli spettacoli che vorranno e che possano avere assieme o mediante i loro adoratori; concedano soltanto che per tale benessere non si debba temer nulla dal nemico, dalla peste, dalla sventura. Chi, se è sano di mente, potrà paragonare questa società civile non dirò all'impero romano ma alla casa di Sardanapalo? Costui, re nei tempi andati, fu così dedito ai piaceri da far scrivere nel suo sarcofago che da morto aveva soltanto le cose che la sua libidine aveva delibato mentre era vivo 40. E se i Romani di oggi lo avessero per re che consente loro i piaceri e non frastorna con la severità alcuno dall'averli, a lui più volentieri dedicherebbero il tempio e il flamine che i Romani di una volta dedicarono a Romolo. Politeismo e giustizia sociale (21-29)
21. 1. Ma forse si disprezza chi ha giudicato la società romana eticamente molto depravata e costoro non si preoccupano che sia coperta dalla piaga nauseante di costumi moralmente pervertiti, ma soltanto che si conservi e rimanga. Sappiano allora che non solo è divenuta moralmente molto depravata come narra Sallustio, ma che era già finita fin d'allora e che non esisteva più una società civile come sostiene Cicerone. Egli sulla società fa parlare Scipione, quello che aveva distrutto Cartagine, quando si prevedeva che stesse per finire con quella scostumatezza che descrive Sallustio. Il dialogo si teneva in quel periodo in cui era già stato ucciso uno dei Gracchi; e proprio da quel tempo, come scrive Sallustio, cominciarono le gravi sedizioni 41. In quell'opera si fa menzione appunto della morte del Gracco. Dice dunque Scipione alla fine del secondo libro dell'opera citata: Negli strumenti a corda o a fiato ed anche nel canto vocale si deve produrre dai vari suoni un determinato accordo. Se esso non varia o discorda, l'udito di un intenditore non può sopportarlo. L'accordo in parola inoltre risulta armonico e proporzionato dalla regolata intensità di suoni di diversa altezza. Allo stesso modo lo Stato si armonizza mediante ceti alti, bassi e mediani, a guisa di suoni, in moderata proporzione dall'accordo di elementi molto differenti; e quella che dai musici nel canto si chiama armonia è nello Stato la concordia che è eticamente il più profondo vincolo di sopravvivenza in ogni società civile e non si può avere assolutamente senza la giustizia 42. E avendo dimostrato con un po' di ampiezza e di ricchezza di osservazioni quanto è utile allo Stato la giustizia e quanto nociva la sua mancanza, prese a parlare Filo, uno di quelli che era presente al dialogo. Egli chiese che il problema fosse approfondito e che si parlasse più diffusamente della giustizia a causa del già diffuso pregiudizio popolare che la società non si può governare senza l'ingiustizia. Scipione fu d'accordo che il problema fosse da discutere e da svolgere e precisò che, a suo modo di vedere, sulla società civile non erano ancora stati esposti dei concetti da cui sviluppare ulteriormente. Era stato però accertato che non solo è falso che la società non si può amministrare senza ingiustizia ma è assolutamente vero che non lo si può senza una grande giustizia 43. Ed essendo stata differita la trattazione al giorno seguente, nel terzo libro l'argomento fu svolto in un acceso dibattito. Filo si incaricò di sostenere il parere di coloro i quali ritenevano che la società non si può reggere senza l'ingiustizia, affermando con insistenza che non si ritenesse come sua opinione e si batté con vigore per l'ingiustizia contro la giustizia nel simulato tentativo di dimostrare con argomentazioni verosimili ed esempi che la ingiustizia è utile, la giustizia è disutile. Allora Lelio, poiché tutti lo pregavano di difendere la giustizia, cominciò con l'affermare, quanto gli riuscì, che niente è tanto avverso allo Stato come l'ingiustizia e che la società civile può essere amministrata e conservata soltanto con una grande giustizia 44.
21. 2. Trattato il problema per il tempo che si ritenne opportuno, Scipione tornò ai concetti accennati, richiamò e difese la propria breve definizione della società civile. Aveva detto che è lo stato del popolo 45. Stabilì che popolo non è un qualsiasi gruppo d'individui ma un gruppo associato dalla universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi. Mostrò poi quanto sia grande nel discutere l'utilità della definizione e dalle sue definizioni dedusse che allora soltanto si ha la società civile, cioè lo stato del popolo, quando si amministra con onestà e giustizia, sia da un monarca o da pochi ottimati o da tutto il popolo. Se invece il re è ingiusto, e secondo la terminologia greca lo chiamò tiranno, o ingiusti gli ottimati, e considerò fazione il loro accordo, o ingiusto il popolo, e non trovò la denominazione abituale, a meno di considerarlo, anche esso, tiranno, allora la società civile non solo sarebbe guasta, come il giorno avanti era stato sostenuto, ma come avrebbe dimostrato la logica conseguenza da quelle definizioni, è inesistente perché non sarebbe lo stato del popolo. Al contrario la occuperebbero il tiranno o la fazione; il popolo stesso, se fosse ingiusto, non sarebbe più un popolo perché non sarebbe una moltitudine associata dall'universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi, come il popolo era stato definito 46.
21. 3. Quando dunque la società romana era nelle condizioni in cui la descrive Sallustio, non era ancora eticamente molto depravata, come la descrive lui, ma del tutto inesistente secondo il criterio dichiarato nel dialogo sulla società tenuto dai suoi cittadini più eminenti. Così pensa anche Cicerone non fingendo di esprimersi con le parole di Scipione o di altri, ma a nome proprio, al principio del quinto libro. Cita prima di tutto un verso del poeta Ennio che diceva: Lo Stato romano è saldo in virtù dei costumi e uomini antichi 47. Mi sembra, continua Cicerone, che per la brevità e la verità egli abbia derivato quel verso come da un oracolo. Infatti né gli uomini, se la cittadinanza non fosse stata di buoni costumi, né i costumi, se non fossero stati a capo quegli uomini, avrebbero potuto fondare o conservare tanto a lungo una società civile tanto grande e che domina su regioni tanto estese. Quindi nel periodo anteriore al nostro ricordo lo stesso costume patrio adoperava uomini eccellenti e questi conservavano l'antico costume e gli istituti degli antenati. La nostra età avendo avuto in consegna una società come una pittura perfetta, ma un po' stinta dall'antichità, non solo ha trascurato di restaurarla con i colori originali, ma non si è preoccupata neanche di conservare almeno il modellato e il disegno. Che cosa rimane dei costumi antichi con cui, come Ennio ha detto, stava saldo lo Stato romano se li vediamo talmente in disuso per dimenticanza che non solo non sono conservati ma perfino ignorati? E che dire degli uomini? I costumi sono scomparsi per carenza di uomini. E di un così grande male non solo dovremmo render conto ma in certo senso essere accusati di delitto capitale. E a causa dei nostri vizi e non per una eventualità qualsiasi conserviamo il nome di società civile ma in realtà l'abbiamo perduta da tempo 48.
21. 4. Cicerone confessava questo stato di cose molto tempo dopo la morte dell'Africano che nei suoi libri ha fatto disputare sulla società, ma prima ancora della venuta di Cristo. Se questi mali fossero noti al pubblico e dichiarati esplicitamente quando la religione cristiana era conosciuta e vigorosa, chi non avrebbe ritenuto di doverli imputare ai cristiani? Perché i loro dèi non si preoccuparono che non andasse del tutto in rovina la società civile che Cicerone, molto tempo prima che Cristo venisse, lamenta con tanta tristezza ormai perduta? Si informino i panegiristi della società romana in quale condizione era anche con quegli antichi uomini e costumi, se cioè in essa era in vigore la vera giustizia ovvero se neanche allora era viva nei costumi ma dipinta con colori. L'ha detto inconsapevolmente lo stesso Cicerone nel lodarla. Ma altrove, se Dio vorrà, esamineremo questo argomento 49. Cicerone ha presentato brevemente con le parole di Scipione che cos'è la società civile e che cos'è il popolo aggiungendo molte opinioni sue e di coloro che ha fatto parlare in quel dialogo. Ed io mi sforzerò a suo tempo di dimostrare in base alla definizione dello stesso Cicerone che quella non fu mai una società civile perché non si ebbe mai in essa la vera giustizia. In base a definizioni abbastanza probabili fu per certi suoi aspetti una società civile e fu meglio amministrata dagli antichi che da quelli che seguirono. Ma la vera giustizia si ebbe soltanto nella società, di cui Cristo è fondatore e sovrano, se è ammesso di considerare anche essa uno Stato pubblico, perché non si può negare che è uno Stato del popolo. Se poi questo nome, che si usa diversamente nei vari luoghi, è forse meno adatto al nostro modo di parlare, v'è certamente giustizia in quella città, di cui la sacra Scrittura dice: Azioni gloriose sono state narrate di te, o città di Dio 50.
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