martedì 8 marzo 2011

La Città di Dio - XIII parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Sant'Agostino, ancora oggi, si sofferma sul suicidio perchè ci tiene ad evidenziare come non ci siano giustificazioni tali da poter rendere lecito e onorevole il suicidio che invece rimane un peccato gravissimo che si traduce nell'omicidio di sé stessi!
Vengono portati alla luce due esempi diversi tra loro che servono a confutare l'opinione del suicidio onorevole: sono l'esempio di Catone l'Uticense, il quale si suicidò a seguito della sconfitta patita contro Cesare, e quello di Regolo, il quale preferì affrontare le torture dei nemici piuttosto che cedere al disonore del suicidio. 
Inoltre, Sant'Agostino conferma il suo iniziale pensiero sul fatto che il timore del peccato non deve e non può né indurre al suicidio né tantomeno lo può giustificare perchè un peccato non si giustifica certo commettendo un altro peccato, ancor più grave perchè impedisce ogni forma di pentimento o di espiazione:




23. Ma anche essi, dopo Lucrezia sulla quale ho sufficientemente espresso la mia opinione, non trovano tanto facilmente qualcuno, sulla cui autorevolezza appoggiarsi, se non il famoso Catone che si uccise a Utica 76. Certamente non è il solo ad averlo fatto, ma siccome era stimato uomo dotto e onesto, a ragione si potrebbe ritenere che onestamente si sia potuto o si possa fare ciò che ha fatto. Ma che dovrei dire del suo gesto? Dico principalmente che i suoi amici, anche essi dotti, che più saggiamente lo sconsigliavano dal farlo, giudicarono il gesto più d'un uomo debole che forte perché in esso si rilevò non l'onestà che evita il disonore ma la debolezza che non regge all'avversità. Lo indicò Catone stesso nei confronti del suo figlio carissimo. Se era disonorevole vivere dopo la vittoria di Cesare, per qual motivo consigliò al figlio tale disonore giacché gli ordinò di affidarsi in tutto alla clemenza di Cesare 77? Perché non lo indusse a morire con sé? Se Torquato, meritandosi lode, uccise il figlio, pur vincitore, che contro l'ordine aveva combattuto i nemici 78, perché Catone vinto risparmiò il figlio vinto se non risparmiò se stesso?. Oppure era più disonorevole esser vincitore contro il comando che tollerare contro l'onore un vincitore? Dunque non ha affatto giudicato che fosse disonorevole vivere dopo la vittoria di Cesare. Altrimenti con la propria spada avrebbe liberato il figlio da questo disonore. Che dire allora? Ma che egli, quanto amò il figlio che desiderò e volle fosse risparmiato da Cesare, tanto invidiò la gloria dello stesso Cesare, o per parlare con maggiore indulgenza, si vergognò di essere perdonato da lui, come si racconta che Cesare stesso ebbe a dire 79.

24. Questi nostri oppositori non vogliono che reputiamo migliori di Catone il santo uomo Giobbe, che preferì sopportare nel suo corpo mali tanto atroci anziché, dandosi la morte, liberarsi da tutte le sofferenze, o altri santi che, secondo la nostra letteratura, la più illustre per sicura autorevolezza e la più degna di fede, preferirono la schiavitù sotto il dominio dei nemici anziché darsi la morte. Comunque stando alla loro letteratura preferirei a Marco Catone il già ricordato Marco Regolo. Catone infatti non aveva mai vinto Cesare e vinto sdegnò di sottomettersi a lui e scelse di uccidersi per non sottomettersi. Regolo invece aveva già vinto i Cartaginesi e da condottiero romano e con il comando di Roma non aveva riportato una biasimevole vittoria contro i concittadini ma una encomiabile vittoria sui nemici. Ma in seguito vinto da loro preferì tollerarli nella schiavitù anziché sottrarsi ad essi con la morte. Conservò quindi la sopportazione in balia dei Cartaginesi e la costanza nell'amore ai Romani perché non sottrasse dai nemici il corpo vinto e dai concittadini lo spirito invitto. E che non volle uccidersi non lo fece per amore di questa vita. Lo provò quando, a causa della promessa con giuramento, senza alcuna indecisione se ne tornò dagli stessi nemici che aveva danneggiato più con le parole in senato che con le armi in guerra. Pertanto un così eroico sprezzatore della vita, per il fatto che preferì farla stroncare attraverso varie pene da crudeli nemici anziché uccidersi, senza dubbio ha insegnato che il suicidio è un grande delitto. Tra tutti i loro uomini degni di lode e illustri per pregi di dignità umana i Romani non ne presentano uno più grande perché la fortuna non l'ha traviato, in quanto dopo una vittoria così splendida rimase molto povero 80, e la sfortuna non l'ha spezzato, in quanto seppe tornare intrepido verso torture così gravi. Dunque uomini molto coraggiosi e difensori eccellenti della patria terrena, cultori non bugiardi di dèi bugiardi ai quali anzi prestavano un veritiero giuramento, potevano uccidere secondo l'usanza della guerra i nemici vinti, ma vinti dai nemici non vollero uccidersi e non temendo affatto la morte preferirono che gliela infliggessero i nemici anziché procurarsela da sé. A più forte ragione quindi i cristiani, che adorano il vero Dio e sperano ardentemente la patria del cielo, si dovranno astenere da questo delitto se una disposizione divina, o per provarli o per correggerli, li rendesse schiavi per qualche tempo dei nemici. Ma colui che, tanto alto, è venuto per loro a tanta bassezza non li abbandona a questa bassezza, soprattutto perché i diritti dell'autorità militare e dello stesso esercito non li obbligano a uccidere il nemico vinto. Perché dunque dovrebbe insinuarsi un pregiudizio così malvagio che un individuo si debba uccidere o perché un nemico ha peccato o affinché non pecchi contro di lui, se egli non ardisce uccidere lo stesso nemico che ha peccato o peccherà?

25. Ma si deve temere ed evitare che il corpo sottoposto all'atto lussurioso adeschi la coscienza, con un piacere molto eccitante, ad acconsentire al peccato. Dunque, affermano, ci si deve uccidere non a causa dell'altrui peccato ma del proprio prima di commetterlo. Ma la coscienza, la quale fosse più sottomessa a Dio e alla sua sapienza che al corpo e alla sua concupiscenza, non giungerà al punto da acconsentire alla passione della propria carne accesa dalla passione altrui. Tuttavia se è azione detestabile e delitto abominevole anche uccidersi, come dichiara l'evidente verità, non si può essere tanto insensati da dire: "Pecchiamo adesso per non peccare eventualmente dopo; adesso commettiamo un omicidio per non cadere dopo eventualmente in adulterio". E se la disonestà è determinante al punto che non si scelga l'integrità ma il peccato, non è preferibile un adulterio incerto del futuro che un omicidio certo del presente? Non è preferibile commettere una colpa che si espia col pentimento, anziché un delitto così grande, dopo il quale non si lascia il tempo a un salutare pentimento? Ho detto queste cose per quelli o quelle che per evitare non l'altrui ma un proprio peccato e non consentire eventualmente alla propria passione provocata dall'altrui passione reputano di doversi infliggere una violenza tale da morirne. Del resto non avvenga nella coscienza del cristiano che confida nel suo Dio e, posta la fiducia in lui, è sicuro nel suo aiuto, non avvenga, dico, che tale coscienza per qualsiasi diletto carnale ceda all'accettazione dell'atto disonesto. La passione ribelle che sussiste ancora in un corpo moribondo ha il suo movimento quasi per una propria legge indipendentemente dalla legge del nostro volere. A più forte ragione dunque è senza colpa nel corpo di chi non consente, se senza colpa può essere nel corpo di chi dorme.


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