giovedì 29 settembre 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - XLV

Proseguiamo l'appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Concludiamo la lettura dell'Articolo 12 sul Credo nella vita eterna, in vista della Parte Seconda che inizieremo a leggere la prossima settimana e che avrà come tema la celebrazione del mistero cristiano, l'economia sacramentale e il mistero pasquale nel tempo della Chiesa:


CAPITOLO TERZO 
CREDO NELLO SPIRITO SANTO

ARTICOLO 12 
«CREDO LA VITA ETERNA»

V. Il giudizio finale


1038 La risurrezione di tutti i morti, « dei giusti e degli ingiusti » (At 24,15), precederà il giudizio finale. Sarà « l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce [del Figlio dell'uomo] e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna » (Gv 5,28-29). Allora Cristo « verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli [...]. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. [...] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna » (Mt 25,31-33.46).


1039 Davanti a Cristo che è la verità sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio. 635 Il giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena:


« Tutto il male che fanno i cattivi viene registrato a loro insaputa. Il giorno in cui Dio non tacerà (Sal 50,3) [...] egli si volgerà verso i malvagi e dirà loro: Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me ». 636


1040 Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l'ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l'opera della creazione e di tutta l'Economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Il giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte. 637


1041 Il messaggio del giudizio finale chiama alla conversione fin tanto che Dio dona agli uomini « il momento favorevole, il giorno della salvezza » (2 Cor 6,2). Ispira il santo timor di Dio. Impegna per la giustizia del regno di Dio. Annunzia la « beata speranza » (Tt 2,13) del ritorno del Signore il quale « verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto » (2 Ts 1,10).


VI. La speranza dei cieli nuovi e della terra nuova


1042 Alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Dopo il giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo sarà rinnovato:


Allora la Chiesa « avrà il suo compimento [...] nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose e quando col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo ». 638


1043 Questo misterioso rinnovamento, che trasformerà l'umanità e il mondo, dalla Sacra Scrittura è definito con l'espressione: « i nuovi cieli e una terra nuova » (2 Pt 3,13). 639 Sarà la realizzazione definitiva del disegno di Dio di « ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra » (Ef 1,10).


1044 In questo nuovo universo, 640 la Gerusalemme celeste, Dio avrà la sua dimora in mezzo agli uomini. Egli « tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate » (Ap 21,4). 641


1045 Per l'uomo questo compimento sarà la realizzazione definitiva dell'unità del genere umano, voluta da Dio fin dalla creazione e di cui la Chiesa nella storia è « come sacramento ». 642 Coloro che saranno uniti a Cristo formeranno la comunità dei redenti, la « Città santa » di Dio (Ap 21,2), « la Sposa dell'Agnello » (Ap 21,9). Essa non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, 643 dall'amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione.


1046 Quanto al cosmo, la Rivelazione afferma la profonda comunione di destino fra il mondo materiale e l'uomo:


« La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione [...]. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo » (Rm 8,19-23).


1047 Anche l'universo visibile, dunque, è destinato ad essere trasformato, « affinché il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al servizio dei giusti », 644 partecipando alla loro glorificazione in Gesù Cristo risorto.


1048 « Ignoriamo il tempo in cui saranno portate a compimento la terra e l'umanità, e non sappiamo il modo in cui sarà trasformato l'universo. Passa certamente l'aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo, però, dalla Rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini ». 645


1049 « Tuttavia l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza ». 646


1050 « Infatti i beni della dignità dell'uomo, della comunione fraterna e della libertà, cioè tutti questi buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale ». 647 Dio allora sarà « tutto in tutti » (1 Cor 15,28), nella vita eterna:


« La vita, nella sua stessa realtà e verità, è il Padre, che attraverso il Figlio nello Spirito Santo riversa come fonte su tutti noi i suoi doni celesti. E per la sua bontà promette veramente anche a noi uomini i beni divini della vita eterna ». 648


In sintesi


1051 Ogni uomo riceve nella sua anima immortale la propria retribuzione eterna fin dalla sua morte, in un giudizio particolare ad opera di Cristo, giudice dei vivi e dei morti.


1052 « Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo [...] costituiscono il popolo di Dio nell'al di là della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi ». 649


1053 « Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite attorno a Gesù e a Maria in paradiso, forma la Chiesa del cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi e aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine ». 650


1054 Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio, ma imperfettamente purificati, benché sicuri della loro salvezza eterna, vengono sottoposti, dopo la morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia di Dio.


1055 In virtù della « comunione dei santi », la Chiesa raccomanda i defunti alla misericordia di Dio e per loro offre suffragi, in particolare il santo sacrificio eucaristico.


1056 Seguendo l'esempio di Cristo, la Chiesa avverte i fedeli della triste e penosa realtà della morte eterna, 651 chiamata anche « inferno ».


1057 La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio; in Dio soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.


1058 La Chiesa prega perché nessuno si perda: « Signore, [...] non permettere che sia mai separato da te ». 652 Se è vero che nessuno può salvarsi da se stesso, è anche vero che Dio « vuole che tutti gli uomini siano salvati » (1 Tm 2,4) e che per lui « tutto è possibile » (Mt 19,26).


1059 « La santissima Chiesa romana crede e confessa fermamente che nel [...] giorno del giudizio tutti gli uomini compariranno col loro corpo davanti al tribunale di Cristo per rendere conto delle loro azioni ». 653


1060 Alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Allora i giusti regneranno con Cristo per sempre, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo materiale sarà trasformato. Dio allora sarà « tutto in tutti » (1 Cor 15,28), nella vita eterna.


«AMEN»


1061 Il Credo, come pure l'ultimo libro della Sacra Scrittura, 654 termina con la parola ebraica Amen. La si trova frequentemente alla fine delle preghiere del Nuovo Testamento. Anche la Chiesa termina le sue preghiere con Amen.


1062 In ebraico, Amen si ricongiunge alla stessa radice della parola « credere ». Tale radice esprime la solidità, l'affidabilità, la fedeltà. Si capisce allora perché l'« Amen » può esprimere tanto la fedeltà di Dio verso di noi quanto la nostra fiducia in lui.


1063 Nel profeta Isaia si trova l'espressione « Dio di verità », letteralmente « Dio dell'Amen », cioè il Dio fedele alle sue promesse: « Chi vorrà essere benedetto nel paese, vorrà esserlo per il Dio fedele » (Is 65,16). Nostro Signore usa spesso il termine « Amen », 655 a volte in forma doppia, 656 per sottolineare l'affidabilità del suo insegnamento, la sua autorità fondata sulla verità di Dio.


1064 L'« Amen » finale del Simbolo riprende quindi e conferma le due parole con cui inizia: « Io credo ». Credere significa dire « Amen » alle parole, alle promesse, ai comandamenti di Dio, significa fidarsi totalmente di colui che è l'« Amen » d'infinito amore e di perfetta fedeltà. La vita cristiana di ogni giorno sarà allora l'« Amen » all'« Io credo » della professione di fede del nostro Battesimo:


« Il Simbolo sia per te come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi tutto quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno per la tua fede ». 657


1065 Gesù Cristo stesso è l'« Amen » (Ap 3,14). Egli è l'« Amen » definitivo dell'amore del Padre per noi; assume e porta alla sua pienezza il nostro « Amen » al Padre: « Tutte le promesse di Dio in lui sono divenute "sì". Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro "Amen" per la sua gloria » (2 Cor 1,20):


« Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te, Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.


AMEN! ». 658


mercoledì 28 settembre 2011

Verità della Fede - XXXV parte

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Concludiamo oggi la lettura del cap. I della terza parte dell'opera con il paragrafo 2 nel quale il Santo Vescovo, Fondatore dei Redentoristi e Dottore della Chiesa comprova la verità della Chiesa Cattolica dalla costanza dei santi martiri:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. I.

§. 2. Si comprova di più la verità della chiesa cattolica dalla costanza de' martiri.

28. La costanza de' martiri è un contrassegno più ammirabile di quello de' miracoli. Poiché i miracoli sono opere tutte di Dio, esercitate per Dio stesso nelle creature; ma la fortezza e la vittoria de' martiri è un'opera di Dio fatta per mezzo di uomini deboli, anche di tenere verginelle e di fanciulli, come di una s. Agnese di 13 anni, di s. Prisca della stessa età, di s. Venanzio, e s. Agapito di 15 anni l'uno, e di s. Vito e s. Celso anche fanciulli e di tanti altri che lacerati con unghie di ferro, arrostiti sulle graticole, tormentati con faci ardenti ne' fianchi, con elmi roventi sulle teste e con altri simili crucj han superata tutta la crudeltà degli uomini e la rabbia de' demonj. Quindici imperatori Romani si affaticarono per più anni ad estirpare dal mondo la fede di Gesù Cristo; sì che il numero de' santi martiri fu così grande, che nella persecuzione di Diocleziano (la quale fu la nona) furono in un solo mese uccisi 17 mila cristiani, e nel solo Egitto ne furon fatti morire 144 mila, ed altri 700 mila furono mandati in esilio. Basta dire che fu promulgato un editto in tutto l'imperio, per cui fu data licenza ad ognuno di toglier la vita a' cristiani in quel modo che più gli piacesse. La strage in somma in queste dieci persecuzioni fu così orrenda, che, come riferisce Genebrardo1, giunse ad undici milioni di martiri; sicché fatta la distribuzione vengono a numerarsi da trentamila per ciascun giorno. Ma con tutto ciò il numero degli uccisi, fino a diecimila per volta, in vece di spaventare i vivi, accresceva loro il desiderio di morir per la fede. Scrisse Tiberiano governatore della Palestina a Traiano imperatore che non si potea dar morte a tanti cristiani, quanti eran quelli che volontariamente si offerivano a morire per Gesù Cristo. Onde Traiano si mosse a fare un editto, col quale ordinò che i cristiani d'indi in poi si lasciassero in pace. Ora, diciamo, se la fede di questi santi martiri, che fu la stessa quale ora è la nostra, non fosse stata la vera, e se Iddio non avesse dato a questi tanti suoi servi l'aiuto suo divino, come avrebbero potuto resistere sino a perder la vita fra tanti tormenti?

29. Vantansi alcuni di avere avuti anche nelle proprie sette i loro martiri; ma vediamo qual è stato il loro martirio. Il martirio, come insegna l'angelico2, consiste in dar la vita in testimonianza della verità o della giustizia.Martyres veros, scrisse s. Agostino, non poena facit, sed causa3. Tutti i tormenti del mondo non posson fare un martire: la sola causa di morire per la verità della fede, o per la giustizia, è quella che fa i veri martiri. I maomettani vantano per martiri i loro soldati che sono morti in battaglia per usurpare i beni altrui; bell'atto di giustizia! I novatori anche vantano per martiri coloro che sono stati giustiziati colla morte come eretici; ma questa non è stata fortezza, ma ostinazione. Oltreché costoro sono stati pochi e per lo più gente vile ed ignorante, ingannata da' loro seduttori. All'incontro la chiesa cattolica vanta per martiri un gran numero di nobili, di consoli, di patrizj, di capitani di eserciti, di vescovi, di pontefici, di senatori e di monarchi. Inoltre la maggior parte de' nostri martiri prima di morire menavano vita santa, sì che non poteva opporsi loro da' tiranni altro delitto, che l'esser cristiani. Ma i falsi martiri degli eretici, e specialmente gli anabattisti e gli adamiti, i quali vantansi di morire con maggior intrepidezza, erano pieni di vizj e di laidezze. Essi ammettevano la comunicazione delle mogli, ed altre simili scelleraggini; onde la loro costanza non fu costanza, ma furore e pertinacia infusa loro dal demonio, che li possedea, come scrisse s. Agostino de' Donatisti, eretici de' suoi tempi1che, diabolo possidente, non persequente, in seipsis crudeliores et sceleratiores homicidae, si bruciavano vivi, si annegavano, si precipitavano dalle rupi, e costringevano gli altri colle percosse e colle minaccie affinché gli avessero uccisi, percussuros eos se, nisi ab eis perimerentur, terribiliter comminantes; e tutto ciò faceano questi matti per esser poi chiamati martiri: martiri, ma martiri del demonio. E perciò gli eretici pertinaci che sono morti per mano della giustizia, si son veduti morire non già con allegrezza e pace, come i nostri santi martiri che morivano giubilando e cantando lodi a Dio, ma con rabbia e smania insoffribile: segno evidente che l'accettazione delle loro morti non veniva loro ispirata da Dio, ma insinuata dal demonio, che può dare bensì la temerità d'incontrare la morte, ma non può dare la virtù di soffrirla con pace. L'infelice Michele Serveto rinnovatore dell'arianismo, quando in Ginevra fu gettato nel fuoco, al quale era stato condannato, s'infuriò in tal modo, che muggiva come un toro stizzato, e cercò per pietà a' giudici un coltello per uccidersi da se stesso, ma non l'ottenne.

30. Dove mai tutte queste sette separate dalla chiesa cattolica hanno avuto un s. Lorenzo, che mentre stava bruciando sulla graticola, giubilava per la gioia interna sino ad insultare il tiranno, invitandolo a cibarsi delle sue carni già cotte? Dove un s. Vincenzo, che ne' tormenti che gli davano, parea (come scrive s. Agostino) che un Vincenzo parlasse, ed un altro patisse, tanto era il gaudio con cui moriva per Gesù Cristo? Dove un s. Marco e s. Marcelliano, che avendo i piedi trafitti da' chiodi, ed essendo tentati dal tiranno a liberarsi da quel tormento, risposero: Che tormento? che tormento? Noi non abbiamo trovata mai delizia maggiore che in quest'ora in cui stiamo patendo per amore di Gesù Cristo. E così dicendo, si posero a cantare le divine lodi, finché trapassati dalle lance finirono gloriosamente la vita. Dove un s. Processo e s. Martiniano, che mentre nell'eculeo sbranavansi loro le membra co' ferri e bruciavansi loro le carni con piastre infocate, non facevano altro che benedire il Signore, desiderando con ansia la morte, che già ottennero? Era in somma tanta l'allegrezza con cui morivano i martiri, che gli stessi loro nemici, e gli stessi carnefici, al vedere tant'allegrezza, si convertivano alla fede; onde scrisse poi Tertulliano che il sangue de' cristiani sparso per la fede era come una semenza feconda, che moltiplicava i seguaci a Gesù Cristo: Semen est sanguis christianorum2.

31. A' martiri antichi ben poi han fatta gloriosa compagnia e gara in questi ultimi secoli tanti uomini e tante donne, che han data la vita per Gesù Cristo ne' tormenti più fieri che potea pensare la crudeltà umana. Specialmente nel Giappone quanti cristiani nel secolo XVI. sono morti per la fede: chi bruciato a fuoco lento, a chi strappata la pelle con tenaglie, a chi tagliate le carni a pezzi a pezzi, a chi segato il collo a poco a poco da una canna per lo spazio d'una settimana sino alla morte, chi sospeso e poi calato da volta in volta in acque bollenti, chi posto ignudo nel rigore del verno alla campagna a finir la vita per il freddo? Leggasi il p. Bartoli, che tutto narra distinguendo i luoghi e le persone del Giappone nella sua storia. Narra specialmente che una donna cristiana chiamata Tecla, mentre bruciava nel fuoco, teneasi in braccio una bambina di tre anni, e la confortava a morire colla speranza del paradiso. Un'altra donna, perché povera, si vendette una cintola che avea, per comperarsi un palo, dove legata potesse morire arsa per Gesù Cristo. Un'altra scoprì a' persecutori una bambina sua figlia, acciocché quella morisse per la fede insieme con lei. Narra di più che un fanciullo di nove anni corse da se stesso per esser decollato, e da sé scoprì il collo per offerirlo al taglio. Un'altra fanciulla di otto anni, essendo cieca, si strinse colla madre per morire con lei bruciata, come infatti morì. Un altro fanciullo di tredici anni finse di averne quindici, per essere annoverato nel numero de' condannati. Un altro di cinque anni, svegliato mentre dormiva, acciocché venisse al supplicio, senza smarrirsi si vestì co' panni di festa, e dal carnefice stesso fu portato in braccio al luogo destinato, dove il fanciullo, offrendo il collo per esser decollato, intenerì in modo tale il manigoldo, che a colui mancò l'animo di ucciderlo, e venne un altro, il quale essendo poco esperto, lo ferì due volte colla scimitarra, e non l'uccise, ma col terzo colpo lo finì. Di questi fatti gli stessi eretici olandesi, nemici della nostra chiesa ne furono testimonj. Ma no, scrive un eretico; questi nuovi martiri non furono uccisi per la fede, ma per esser ribelli e congiuranti che tramavano di privare i sovrani de' loro regni. La stessa taccia che si oppone a' martiri del Giappone, vien data ancora dagli eretici a coloro che per la fede diedero la vita in Inghilterra a tempo della regina Elisabetta. Ma dimando: se i vostri cattolici erano ribelli e congiuranti, eran dunque congiuranti anche le povere donne, le vergini ed i fanciulli; giacché questi furono egualmente giustiziati? E se questi erano veramente ribelli, perché poi subito che rinnegavano la fede per timore de' tormenti, erano affatto liberati da ogni pena? A' nostri cattolici in Inghilterra era fatta da' ministri di Elisabetta questa promessa: Basta che voi entriate una volta ad assistere nelle nostre chiese, e sarete liberati. Segno dunque evidente che non la ribellione o congiura, ma la sola fede era la causa della loro morte. Replica l'eretico Dodwello, che i martiri non tanto han data la vita per la fede, quanto per aver la gloria di martiri appresso il mondo. Ma rispondiamo: o questi ci credeano, e la religione proibisce di operare per la propria gloria, per la quale operando, niente si guadagna nell'altro mondo: o non ci credeano, e come mai può supporsi ch'essi per aver dopo la morte il vano onore d'una plebe ingannata volessero soffrire pene, ignominie e morte?

32. Ma finora si è provato che la chiesa cattolica romana è vera chiesa di Dio. Resta a provare, come ella sia l'unica vera chiesa. Fuori della nostra religione non vi sono altre che quella de' gentili, de' giudei, de' maomettani e degli eretici. Se di queste proveremo che niuna può essere vera, resterà già provato che la nostra è l'unica vera.

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1 In psal. 78.

2 2. 2. q. 124. a. 1.

3 Epist. 167.

1 Tract. 5. in Io. et ep. 185.

2 Apolog. in fin.

martedì 27 settembre 2011

La Città di Dio - XXXV parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continua la lettura del libro quarto dell'opera che si sofferma oggi sull'imperalismo romano; oggi cominciamo a vedere il Santo d'Ippona "esaminare" a fondo la religione politeista romana, di cui vengono smascherate le vistose incongruenze:
 
Libro quarto
IMPERIALISMO ROMANO E POLITEISMO 

8. Cerchiamo adesso, se si è d'accordo, qual dio principalmente o quali dèi della grande folla di dèi che i Romani adoravano ritengano che abbiano allargato o difeso il loro dominio. Nei confronti di un'opera tanto illustre e piena di tanto valore non osano certamente attribuire responsabilità alla dea Cloacina alias Volupia che ha derivato il nome da voluttà o a Libentina che lo ha da libidine o a Vaticano che sorveglia i vagiti dei bimbi o a Cunina che protegge le loro cune. Come è possibile in un passo di questo libro ricordare tutti i nomi degli dèi e delle dee che essi non hanno potuto raccogliere in grandi volumi nell'affidare le varie cose a particolari compiti delle varie divinità? E hanno pensato di affidare le competenze dell'agricoltura non a un solo dio, ma i fondi rustici alla dea Rusina, i gioghi dei monti al dio Giogantino e hanno preposto ai colli la dea Collatina e alle valli la dea Vallonia. Non sono riusciti neanche a trovare una Segezia alla quale affidare tutto in una volta i seminati ma stabilirono che i grani seminati, finché rimanevano sotto terra, avessero come custode la dea Seia e quando venivano fuori e producevano le messi la dea Segezia e preposero al frumento raccolto nei granai, affinché venisse tutelato, la dea Tutilina. Ognuno avrebbe pensato che doveva bastare la Segezia fino a tanto che il seminato dagli inizi erbosi arrivasse alle spighe mature. Ma per individui i quali amavano la ressa di dèi non bastò che l'anima sventurata, sdegnando il casto abbraccio del Dio vero, si prostituisse con una folla di demoni. Misero dunque Proserpina a sorvegliare i frumenti in germoglio, il dio Noduto le giunture e nodi degli steli, la dea Volutina l'involucro dei gusci, la dea Patelana i gusci che si aprono per far uscire la spiga, la dea Ostilina le messi quando si adeguano alle spighe nuove, giacché invece di "adeguare" gli antichi hanno usato la parola "ostire", la dea Flora i frumenti quando sono in fiore, il dio Latturno quando sono lattescenti, la dea Matuta quando maturano, la dea Roncina quando sono tagliati con la ronca cioè sono mietuti 10. Non continuo perché m'infastidisce che non si vergognino. Ho ricordato questi pochi nomi perché si capisca il motivo per cui non possono assolutamente sostenere che simili divinità hanno costruito, fatto crescere e difeso l'impero romano, dato che ciascuno è così occupato nella propria incombenza da non potere affidare a uno solo il tutto. Quando poteva Segezia prendersi cura dell'impero se non riusciva a provvedere contemporaneamente ai seminati e alle piante? Quando Cunina poteva darsi pensiero delle armi se la sorveglianza dei bimbi non le permetteva di allontanarsi dalle culle? Quando Noduto poteva accorrere in aiuto durante la guerra se non era di spettanza neanche al guscio della spiga ma soltanto al nodo del gambo? Si pone un solo portinaio nella propria casa e perché è un uomo, basta; invece i Romani posero tre dèi, Forcolo alla porta di fuori, Cardea al cardine e Limentino al limitare 11. Si vede proprio che Forcolo non riusciva a sorvegliare contemporaneamente il cardine e il limitare.

9. Lasciata dunque da parte o momentaneamente in disparte questa folla di dèi minori, devo esaminare l'incarico affidato agli dèi maggiori perché con esso Roma divenne tanto grande da dominare così a lungo tanti popoli. Naturalmente è opera di Giove. Dicono appunto che è il re di tutti gli dèi e dee. Lo indicano anche lo scettro e il Campidoglio sull'alto del colle. Affermano che, sebbene da un poeta, è stato detto di lui molto a proposito: Il tutto è pieno di Giove 12. Varrone ritiene che è adorato anche da coloro che adorano un solo Dio senza idolo ma che lo chiamano con un altro nome 13. E se è così, perché è stato trattato tanto male a Roma, come presso altri popoli, che gli è stato dato un idolo? Il fatto dispiace anche allo stesso Varrone al punto che, pur essendo controllato secondo la malvagia usanza della grande città, non esitò a dire e a scrivere che coloro i quali introdussero nei vari popoli l'uso degli idoli eliminarono il timore e aumentarono l'errore 14.

10. Perché gli si aggiunge anche la moglie Giunone con la mansione di sorella e di moglie? Perché, dicono essi 15, Giove lo consideriamo esistente nell'etere e Giunone nell'aria e questi elementi, uno in alto e l'altro in basso, si accoppiano. Non di lui allora è stato detto: Il tutto è pieno di Giove, se anche Giunone riempie una parte. Oppure l'uno e l'altro riempiono etere ed aria ed entrambi i coniugi sono contemporaneamente in questi due e in tutti gli altri elementi? Perché dunque l'etere è affidato a Giove, l'aria a Giunone? Alla fin fine se loro due bastavano, perché il mare è affidato a Nettuno e la terra a Plutone? E perché anche essi non rimanessero scapoli, si aggiunge Salacia a Nettuno e Proserpina a Plutone. Ma come Giunone, rispondono 16, occupa la zona inferiore del cielo, così Salacia la zona inferiore del mare e Proserpina la zona inferiore della terra. Si affannano a racconciare i loro miti ma non ci riescono. Se le cose stessero così, i loro antichi scrittori insegnerebbero che gli elementi del mondo sono tre e non quattro 17, in modo che le singole coppie degli dèi si distribuissero nei singoli elementi. Inoltre gli antichi hanno decisamente affermato che etere ed aria sono diversi. Invece l'acqua tanto di sopra che di sotto è sempre acqua; metti pure che sia differente ma non al punto che acqua non sia. E la terra di sotto, anche se differente per qualità, non può essere altro che terra. E se il mondo intero ha la sua compiutezza nei quattro o tre elementi, Minerva dove è, che parte occupa, che cosa riempie? Anche essa ha avuto un posto in Campidoglio, sebbene non sia figlia di tutti e due. E se affermano che occupa la parte più alta dell'etere e che per questo motivo i poeti immaginano che sia venuta fuori dalla testa di Giove 18, perché non è lei ad essere considerata regina degli dèi, dal momento che è più in alto di Giove? Forse perché è sconveniente mettere la figlia sopra al padre? E perché allora per quanto riguarda Giove nei confronti di Saturno non è stata rispettata questa giustizia? Forse perché è stato sconfitto? Dunque hanno combattuto? No, dicono 19, queste sono le ciarle delle favole. Dunque se non si deve credere alle favole e si deve avere un migliore concetto degli dèi, perché al padre di Giove non è stato accordato un posto di onore, se non più in alto per lo meno al medesimo livello? Perché Saturno, rispondono 20, rappresenta la lunghezza del tempo. Dunque coloro che adorano Saturno adorano il tempo, ma così ci si fa pensare che Giove, re degli dèi, ha avuto origine nel tempo. E che cosa di sconveniente si ha nell'affermazione che Giove e Giunone sono nati nel tempo se l'uno è il cielo e l'altra la terra, poiché cielo e terra sono stati certamente creati? Infatti i loro filosofi nei loro libri danno anche questa interpretazione 21. E non dalle finzioni poetiche ma dagli scritti dei filosofi è stato derivato da Virgilio questo concetto: Allora il padre che tutto produce come etere discende con le piogge feconde nel grembo della coniuge per renderla fertile 22, cioè nel grembo della tellus o della terra. Anche in proposito pongono delle differenze e sostengono che sono diversi Terra, Tellus e Tellumo, che sono tutti e tre dèi, definiti nei propri concetti, distinti nelle mansioni e venerati con are e riti 23. Identificano anche la terra con la madre degli dèi 24. Ne consegue che le finzioni dei poeti sono più sopportabili, perché secondo i loro libri liturgici e non poetici Giunone non sarebbe soltanto sorella e moglie ma perfino madre di Giove. Identificano inoltre la terra con Cerere e con Vesta 25. Ma più frequentemente presentano Vesta come il fuoco che appartiene ai focolari domestici. Senza di essi infatti non si può avere il consorzio civile, e per questo di solito sono a suo servizio alcune vergini, perché come da una vergine così dal fuoco non viene generato nulla. Ed era proprio opportuno che tutta questa impostura fosse abolita e spenta da colui che è veramente nato da una vergine. Ma è insopportabile che pur avendo accordato al fuoco tanto onore e quasi una sua castità, non si vergognano poi di considerare Vesta come Venere, così che è svuotata di significato la onorata verginità nelle vestali. Se infatti Vesta è Venere, in che modo le vestali le hanno prestato servizio astenendosi dalle opere di Venere? Oppure ci sono due Veneri, una vergine e l'altra sposata? O piuttosto tre, una delle vergini che è Vesta, una delle sposate e una terza delle sgualdrine? Ad essa anche i Fenici offrivano in dono la prostituzione delle figlie prima di consegnarle ai mariti. Quale delle tre è la consorte di Vulcano? Certo non la vergine perché ha marito. Certo non la sgualdrina, perché sembrerebbe che vogliamo insultare il figlio di Giunone e collaboratore di Minerva. Dunque rimane che appartenga alle sposate; rna non vogliamo che la imitino in quel che ha fatto con Marte. E torni alle favole, dicono essi. Ma che giustizia è questa che si arrabbino con noi perché ricordiamo certi episodi dei loro dèi e non si arrabbiano con se stessi che nei teatri assistono con molto gusto a questi delitti dei propri dèi? E questi spettacoli dei delitti dei loro dèi sono istituiti in onore degli stessi dèi. Sarebbe incredibile se non fosse confermato da molte testimonianze.

 

lunedì 26 settembre 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - XX

Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Oggi continuiamo a penetrare nel mistero della vocazione cristiana:

Il medesimo Concilio ha usato un'attenzione del tutto particolare, per dimostrare in quale modo questa comunità «ontologica» dei discepoli e dei confessori debba diventare sempre più, anche «umanamente», una comunità cosciente della propria vita ed attività. Le iniziative del Concilio in questo campo hanno trovato la loro continuità nelle numerose e ulteriori iniziative di carattere sinodale, apostolico e organizzativo. Dobbiamo, però, tener sempre presente la verità che ogni iniziativa in tanto serve al vero rinnovamento della Chiesa, e in tanto contribuisce ad apportare l'autentica luce che è Cristo184, in quanto si basa sull'adeguata consapevolezza della vocazione e della responsabilità per questa grazia singolare, unica e irripetibile, mediante la quale ogni cristiano nella comunità del Popolo di Dio costruisce il Corpo di Cristo. Questo principio, che è la regola-chiave di tutta la prassi cristiana - prassi apostolica e pastorale, prassi della vita interiore e di quella sociale - deve essere applicato, in giusta proporzione, a tutti gli uomini e a ciascuno di essi. Anche il Papa, come pure ogni Vescovo, deve applicarlo a sé. A questo principio debbono essere fedeli i sacerdoti, i religiosi e le religiose. In base ad esso debbono costruire la loro vita gli sposi, i genitori, le donne e gli uomini di condizione e di professione diverse, iniziando da coloro che occupano nella società le più alte cariche e finendo con coloro che svolgono i lavori più semplici. Questo è appunto il principio di quel «servizio regale», che impone a ciascuno di noi, seguendo l'esempio di Cristo, il dovere di esigere da se stessi esattamente quello a cui siamo chiamati, a cui - per rispondere alla vocazione - ci siamo personalmente obbligati, con la grazia di Dio. Tale fedeltà alla vocazione ottenuta da Dio, mediante Cristo, porta con sé quella solidale responsabilità per la Chiesa, alla quale il Concilio Vaticano II vuole educare tutti i cristiani. Nella Chiesa, infatti, come nella comunità del Popolo di Dio, guidata dall'opera dello Spirito Santo, ciascuno ha «il proprio dono», come insegna San Paolo185. Questo «dono», pur essendo una personale vocazione ed una forma di partecipazione all'opera salvifica della Chiesa, serve parimenti agli altri, costruisce la Chiesa e le comunità fraterne nelle varie sfere dell'esistenza umana sulla terra.

La fedeltà alla vocazione, cioè la perseverante disponibilità al «servizio regale», ha un particolare significato per questa molteplice costruzione, soprattutto per ciò che riguarda i còmpiti più im pegnativi, che hanno maggiore influenza sulla vita del nostro prossimo e di tutta la società. Per la fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi gli sposi, come esige la natura indissolubile dell'istituzione sacramentale del matrimonio. Per una simile fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi i sacerdoti, atteso il carattere indelebile che il sacramento dell'Ordine imprime nelle loro anime. Ricevendo questo sacramento, noi nella Chiesa Latina c'impegniamo consapevolmente e liberamente a vivere nel celibato, e perciò ognuno di noi deve far tutto il possibile, con la grazia di Dio, per essere riconoscente per questo dono e fedele al vincolo accettato per sempre. Ciò non diversamente dagli sposi, che debbono con tutte le loro forze tendere a perseverare nell'unione matrimoniale, costruendo con questa testimonianza d'amore la comunità familiare ed educando nuove generazioni di uomini, capaci di consacrare anch'essi tutta la loro vita alla propria vocazione, cioè a quel «servizio regale» di cui l'esempio e il più bel modello ci sono offerti da Gesù Cristo. La sua Chiesa, che noi tutti formiamo, è «per gli uomini» nel senso che, basandoci sull'esempio di Cristo186 e collaborando con la grazia che Egli ci ha guadagnato, possiamo raggiungere quel «regnare», e cioè realizzare una matura umanità in ciascuno di noi. Umanità matura significa pieno uso del dono della libertà, che abbiamo ottenuto dal Creatore, nel momento in cui egli ha chiamato all'esistenza l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza. Questo dono trova la sua piena realizzazione nella donazione, senza riserve, di tutta la propria persona umana, in spirito di amore sponsale al Cristo e, con Cristo, a tutti coloro, ai quali Egli invia uomini o donne, che a Lui sono totalmente consacrati secondo i consigli evangelici. Ecco l'ideale della vita religiosa, assunto dagli Ordini e Congregazioni, sia antichi che recenti, e dagli Istituti secolari.

Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c'insegna che il migliore uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio. Per tale «libertà Cristo ci ha liberati»187 e ci libera sempre. La Chiesa attinge qui l'incessante ispirazione, l'invito e l'impulso alla sua missione ed al suo servizio fra tutti gli uomini. La piena verità sulla libertà umana è profondamente incisa nel mistero della Redenzione. La Chiesa serve veramente l'umanità, quando tutela questa verità con instancabile attenzione, con amore fervente, con impegno maturo, e quando, in tutta la propria comunità, mediante la fedeltà alla vocazione di ciascun cristiano, la trasmette e la concretizza nella vita umana. In questo modo viene confermato ciò a cui abbiam fatto riferimento già in precedenza, e cioè che l'uomo è e diventa sempre la «via» della vita quotidiana della Chiesa.

domenica 25 settembre 2011

Filotea: Introduzione alla vita devota - XIII

Proseguiamo l'appuntamento con "Filotea: Introduzione alla vita devota" di San Francesco di Sales con il capitolo quarto contenente la quinta meditazione. Oggi mediteremo sulla morte:




FILOTEA
Introduzione alla vita devota
(San Francesco di Sales)

PRIMA PARTE

Contiene consigli ed esercizi necessari per condurre l'anima dal primo desiderio della vita devota fino alla ferma risoluzione di abbracciarla

CAPITOLO XIII

Quinta Meditazione: LA MORTE

Preparazione
  1. Mettiti alla presenza di Dio.
  1. Chiedigli l’aiuto della grazia.

  2. Immagina di essere gravemente ammalata, sul letto di morte, senza speranza di cavartela.
Considerazioni
  1. Pensa a quanto sia incerto il giorno della tua morte. Anima mia, un giorno tu uscirai da questo corpo. Quando? In inverno o in estate? In città o in campagna? Di giorno o di notte? All’improvviso o con preavviso? Sarà per malattia o per incidente? Avrai il tempo di confessarti, oppure no? Avrai vicino il tuo confessore e il tuo padre spirituale? Di tutto ciò non ne sai proprio nulla. L’unica cosa certa è che moriremo tutti, e prima di quando pensiamo.
  1. Pensa che in quel momento, per quello che riguarda te, il mondo finirà; per te sarà proprio finita! Ai tuoi occhi tutto si capovolgerà. Sì, perché i piaceri, le vanità, le gioie del mondo, gli affetti inutili ti sembreranno fantasmi e nebbia. Ti accorgerai allora che sei stata sciocca ad offendere Dio per quelle insulsaggini e quelle chimere! Vedrai che quando abbiamo lasciato Dio, lo abbiamo fatto per un nulla. Per contro, tanto dolci e desiderabili ti sembreranno la devozione e le opere buone: ma perché non ho percorso quella via bella e piacevole? In quel momento i tuoi peccati, che ti sembravano peccatucci, li vedrai ingigantiti come montagne e la tua devozione ti sembrerà piccola piccola.

  2. Pensa agli addii senza fine e pieni di languore che la tua anima darà alle cose di questo basso mondo: addio alle ricchezze, alle vanità, alle compagnie melense, ai piaceri, ai passatempi, agli amici e ai vicini, ai genitori, ai figli, al marito, alla moglie; per farla breve, a tutti; e, per chiudere, al tuo corpo che dovrai abbandonare esangue, smunto, emaciato, schifoso, e male odorante.

  3. Pensa alla fretta che avranno di prendere il tuo corpo e nasconderlo sotto terra; ciò fatto, la gente non penserà più, o quasi, a te; non se ne ricorderanno più, come del resto tu hai fatto per gli altri: Dio lo abbia in pace, si dirà, e amen! Tu, morte, fai seriamente pensare, sei impietosa!

  4. Pensa che una volta uscita dal corpo, l’anima prende il suo posto: o a destra, o a sinistra. Tu, dove andrai? Che strada prenderai? Non dimenticare che sarà la stessa nella quale ti sei incamminata in questo mondo.
Affetti e risoluzioni
  1. Prega Dio e gettati tra le sue braccia. Signore, in quel giorno terribile, accoglimi sotto la tua protezione, rendimi quel momento felice e favorevole, a costo di rendere tutti gli altri della mia vita tristi e segnati dalla sofferenza.
  1. Disprezza il mondo. Giacché, o mondo, non mi è dato di conoscere l’ora in cui dovrò lasciarti, ho deciso di non legarmi a te. Amici miei, cari colleghi, permettetemi di volervi bene soltanto con un’amicizia santa che possa durare eternamente; infatti perché dovrei contrarre con voi un legame che poi dovrà essere troncato?

  2. Voglio prepararmi a quell’ora e prendere le opportune precauzioni per compiere felicemente quel passo; con tutte le mie facoltà voglio mettere ordine nella mia coscienza, e porre fine a certe manchevolezze.
Conclusione

Ringrazia Dio dei propositi che ti ha dato la forza di concepire; offrili alla sua Maestà; pregalo spesso che ti conceda una morte beata per i meriti di quella del Figlio. Chiedi l’aiuto della Vergine e dei Santi.

Pater, Ave Maria.

Componi un mazzetto di mirra.

sabato 24 settembre 2011

Il Sabato dei Salmi - Salmo 71 - Preghiera di un vecchio

Salmo 71   

Preghiera di un vecchio 
[1]In te mi rifugio, Signore,
ch'io non resti confuso in eterno.
[2]Liberami, difendimi per la tua giustizia,
porgimi ascolto e salvami. 

[3]Sii per me rupe di difesa,
baluardo inaccessibile,
poiché tu sei mio rifugio e mia fortezza.
[4]Mio Dio, salvami dalle mani dell'empio,
dalle mani dell'iniquo e dell'oppressore. 

[5]Sei tu, Signore, la mia speranza,
la mia fiducia fin dalla mia giovinezza.
[6]Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno;
a te la mia lode senza fine.
[7]Sono parso a molti quasi un prodigio:
eri tu il mio rifugio sicuro. 

[8]Della tua lode è piena la mia bocca,
della tua gloria, tutto il giorno.
[9]Non mi respingere nel tempo della vecchiaia,
non abbandonarmi quando declinano le mie forze. 

[10]Contro di me parlano i miei nemici,
coloro che mi spiano congiurano insieme:
[11]«Dio lo ha abbandonato,
inseguitelo, prendetelo,
perché non ha chi lo liberi». 

[12]O Dio, non stare lontano:
Dio mio, vieni presto ad aiutarmi.
[13]Siano confusi e annientati quanti mi accusano,
siano coperti d'infamia e di vergogna
quanti cercano la mia sventura. 

[14]Io, invece, non cesso di sperare,
moltiplicherò le tue lodi.
[15]La mia bocca annunzierà la tua giustizia,
proclamerà sempre la tua salvezza,
che non so misurare.
[16]Dirò le meraviglie del Signore,
ricorderò che tu solo sei giusto.
[17]Tu mi hai istruito, o Dio, fin dalla giovinezza
e ancora oggi proclamo i tuoi prodigi.
[18]E ora, nella vecchiaia e nella canizie,
Dio, non abbandonarmi,
finché io annunzi la tua potenza,
a tutte le generazioni le tue meraviglie. 

[19]La tua giustizia, Dio, è alta come il cielo,
tu hai fatto cose grandi:
chi è come te, o Dio?
[20]Mi hai fatto provare molte angosce e sventure:
mi darai ancora vita,
mi farai risalire dagli abissi della terra,
[21]accrescerai la mia grandezza
e tornerai a consolarmi. 

[22]Allora ti renderò grazie sull'arpa,
per la tua fedeltà, o mio Dio;
ti canterò sulla cetra, o santo d'Israele.
[23]Cantando le tue lodi, esulteranno le mie labbra
e la mia vita, che tu hai riscattato.
[24]Anche la mia lingua tutto il giorno
proclamerà la tua giustizia,
quando saranno confusi e umiliati
quelli che cercano la mia rovina. 


Commento del compianto Padre Lino Pedron dal sito http://www.padrelinopedron.it

L’intero salmo è centrato sul tema della vecchiaia. S. Agostino scrive: «Il Signore ti dice che la tua forza si indebolisce perché la mia forza sia in te e così tu possa dire con l’apostolo: "Quando io sono debole, è allora che sono forte". Non temere di essere abbandonato nella tua vecchiaia... La debolezza che valse a Cristo di essere abbandonato gli preparò la manifestazione della sua forza».
Il salmista getta uno sguardo nostalgico all’intera sua esistenza. Un’esistenza totalmente vissuta nella fede in Dio. Il Signore è stato la sua speranza e la sua fiducia in ogni momento. Fin dal grembo materno il fluire dei suoi giorni è stato posto all’ombra della protezione di Dio e ha avuto come sostegno la forza di Dio. E ora, pur vedendo incombere il male della morte, non perde la serena compostezza della speranza. Questo salmo è un’educazione al vivere e al morire perché "la morte, come la nascita, fa parte della vita. Camminare consiste sia nell’alzare il piede sia nel posarlo" (Tagore).
Commento dei padri della Chiesa
v. 1 "È il Cristo che parla. Nel vangelo dice: Io sono nel Padre (Gv 17,21) e qui dice: Dal seno di mia madre, tu sei il mio sostegno. Lo ha protetto, ad esempio, durante la strage degli innocenti... Risorto dai morti, ha annunciato il braccio di Dio a tutta la generazione ventura e ha detto al Padre: Dagli abissi della terra di nuovo mi hai fatto risalire (v. 20)" (Origene).
«È una chiara profezia sul mistero del Cristo... Perché la morte è stata cacciata fuori nello stesso modo in cui era entrata nel mondo: entrata per opera di un uomo e cacciata da un uomo. L’uomo nuovo distrugge la morte: è disceso nell’abisso per mezzo della sua passione, per far risalire con lui l’uomo che era caduto nell’abisso. "Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti saranno vivificati" (1Cor 15,22)» (Gregorio di Nissa).
vv 2-3 "Dio è il rifugio dell’uomo. Adamo è fuggito davanti a Dio, ma il pastore è andato a cercare la pecora smarrita" (Agostino).
v. 4 "Fino alla fine dei tempi gli uomini grideranno per essere liberati" (Agostino).
"È l’uomo in generale che grida. Era prigioniero del peccato, ma confida di essere assolto per la grazia di Dio" (Cassiodoro).
v. 5 "È per causa tua che sono molto tribolato, è per te che soffro con animo imperturbabile. Tu sei non solo la mia pazienza, ma anche la mia speranza e la mia certezza" (Rufino).
"La giovinezza è la vita nuova ricevuta nel battesimo" (Teodoreto).
v. 6 "Dal seno di mia madre: dal battesimo" (Atanasio).
"È il seno della chiesa che ci genera con l’acqua e con lo Spirito" (Cassiodoro).
v. 7 "La mia storia è apparsa come un segno e un esempio" (Teodoreto).
v. 8 "Possa non fare altro che lodarti fino alla morte, anche se dovessi giungere alla vecchiaia e le mie forze venissero meno" (Eusebio).
v. 9 "Non parla solo della debolezza della vecchiaia, ma anche della debolezza causata da tribolazioni e sofferenze. Quando cede la costanza della mia pazienza, non abbandonarmi, perché posso sopportare tutto con te" (Cassiodoro).
«Ti risponde qui Dio: possa venir meno davvero la tua forza, affinché in te rimanga la mia forza e tu dica con l’apostolo: "Quando sono debole, allora sono forte" (2Cor 12,10)» (Agostino).
v. 11 «I suoi nemici l’hanno visto debole, quindi dicono: "Dio l’ha abbandonato"» (Cassiodoro).
v. 12 "Non dice che è la natura di Dio ad allontanarsi da lui, ma la sua provvidenza e l’efficacia del suo soccorso" (Teodoreto).
v. 13 "La mia pazienza trionfi sui miei nemici" (Teodoreto).
"Siano confusi quando sarò risorto" (Girolamo).
v. 15 "Annuncerò e insegnerò a tutti in che modo mi hai liberato dalla schiavitù" (Teodoreto).
v. 16 "Non hai dunque visto il Figlio dell’uomo risalire là dov’era prima? Ha scambiato la tomba con il cielo, è risorto, non è più qui... È entrato nel dominio del Signore, si è rivestito di bellezza e di forza: ed ecco che regna sui cherubini colui che giaceva sotto terra" (Bernardo).
v. 17 "Mi hai istruito: è il Padre che ha istruito il Salvatore. Questi, dopo aver preso la forma di schiavo, ha trascorso l’infanzia e gli anni della giovinezza senza istruzione umana, ma progredendo per la potenza di Dio. Signore, assistimi fino alla fine e opera le tue meraviglie finché io annunci il tuo braccio a tutta la generazione futura, cioè alla generazione cristiana. Fino alla vecchiaia, cioè fino al compimento della chiesa. La chiesa non si abbatta mai nel suo lungo pellegrinaggio terrestre, finché non venga l’apostasìa e sia rivelato l’uomo del peccato (cfr. 2Ts 2,3). Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora fede sulla terra? (Lc 18,8). Infatti si raffredderà la carità di molti (Mt 24,12). È questa la vecchiaia della chiesa" (Eusebio).
v. 18 «La giovinezza della chiesa è l’epoca dei martiri. "Fino alla vecchiaia" corrisponde a "Io sono con voi fino alla fine del mondo" (Mt 28,20)» (Agostino).
"Il tempo degli apostoli e dei martiri era la giovinezza della chiesa, ma la carità si è raffreddata; e quando verrà il tempo dell’anticristo, la chiesa entrerà nella sua vecchiaia, le sue forze saranno ridotte al punto che anche gli eletti rischieranno d’essere sedotti (cfr. Mt 24,4). La chiesa supplica il Cristo che è il braccio del Signore" (Rufino).
v. 19 "Chi è come te, Signore? È la confessione dell’uomo caduto, vinto e che si arrende: Io, Adamo, ho voluto empiamente essere simile a te; ora grido a te dalla schiavitù in cui sono caduto" (Agostino).
v. 20 "Il primo uomo ha fatto entrare la sofferenza e la morte nel mondo. L’uomo nuovo vi ha riportato la vita, essendo disceso nell’abisso della passione (cfr. 1Cor 15)" (Gregorio di Nissa).
"Adamo, allontanandosi da Dio che è la sua beatitudine, cosa trova? La miseria... Ma tu non mi abbandoni, ti volgi verso di me, mi rendi la vita. Mi hai riscattato dalla perdizione del peccato. La risurrezione del Cristo ci ha fatto risalire dagli abissi e, per mezzo della fede, è avvenuta in noi come una prima risurrezione" (Agostino).
v. 22 "Arpa e cetra: i popoli riscattati che rendono grazie. Di tutti, il Verbo fa un’unica sinfonia" (Eusebio).
"Per mezzo della mia confessione di lode io divento una cetra" (Agostino).
v. 24 "Tutto il giorno, cioè per tutta l’eternità. La chiesa rimane fino alla fine dei secoli per annunciare la giustizia del Signore a ogni generazione che viene. Ultimo fra tutti verrà il Signore nella sua gloria: quelli che l’hanno schernito arrossiranno mentre la mia lingua, dopo la risurrezione, proclamerà la tua giustizia" (Agostino).

giovedì 22 settembre 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - XLIV

Proseguiamo l'appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Leggiamo oggi la prosecuzione dell'Articolo 12 sul credo nella vita eterna:


CAPITOLO TERZO 
CREDO NELLO SPIRITO SANTO

ARTICOLO 12 
«CREDO LA VITA ETERNA»

III. La purificazione finale o purgatorio

1030 Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.

1031 La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt'altra cosa dal castigo dei dannati. La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze 621 e di Trento. 622 La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, 623 parla di un fuoco purificatore:

« Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c'è, prima del giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt 12,32). Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro ». 624

1032 Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: « Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato » (2 Mac 12,45). Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, 625 affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti:

« Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli. Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, 626 perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? [...] Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere ». 627

IV. L'inferno

1033 Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: « Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » (1 Gv 3,14-15). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli. 628 Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l'amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola « inferno ».

1034 Gesù parla ripetutamente della « geenna », del « fuoco inestinguibile », 629 che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo. 630 Gesù annunzia con parole severe: « Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno [...] tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente » (Mt 13,41-42), ed egli pronunzierà la condanna: « Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno! » (Mt 25,41).

1035 La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, « il fuoco eterno ». 631 La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.

1036 Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l'inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l'uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano! » (Mt 7,13-14).

« Siccome non conosciamo né il giorno né l'ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove ci sarà pianto e stridore di denti ». 632

1037 Dio non predestina nessuno ad andare all'inferno; 633 questo è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia eucaristica e nelle preghiere quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la misericordia di Dio, il quale non vuole « che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi » (2 Pt 3,9):

« Accetta con benevolenza, o Signore, l'offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: disponi nella tua pace i nostri giorni, salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti ». 634

mercoledì 21 settembre 2011

Verità della Fede - XXXIV parte

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Proseguiamo la lettura del cap. I della terza parte con il primo paragrafo che proverà la verità della Chiesa Cattolica dai miracoli operati in essa:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. I.

§. 1. Si prova inoltre la verità della chiesa cattolica da' miracoli in essa operati.

16. Dice Spinoza che i veri miracoli sono impossibili, perché l'ordine della natura non può essere interrotto o cangiato, senza che si muti Iddio, il quale è immutabile ne' suoi decreti. Ma risponde s. Tommaso1 che bisogna distinguere due ordini di cose: l'ordine universale e l'ordine particolare. L'ordine universale delle cose che sono state ab aeterno ordinate da Dio come prima cagione, non può cangiarsi; perché cangiandosi vi sarebbe mutazione di volontà in Dio, ch'è immutabile: ma l'ordine particolare della natura, il quale anche dipende da Dio, ma dipende insieme dalle cause seconde, Iddio ben può cangiarlo senza mutare i suoi decreti eterni. Poiché le cose che avvengono fuor dell'ordine naturale, anche avvengono secondo i divini decreti, i quali nei miracoli non già si mutano, ma si eseguiscono. Ben riflette però il Bayle che quel che diceva Spinoza corre secondo il sistema del suo Dio materiale, o sia della sua materia ch'egli innalza ad essere Dio, la quale opera senza libertà, ma solo per necessità, onde Bayle così parla agli spinozisti: Parlate schiettamente e senza equivoci; dite che le leggi della natura, non essendo state fatte da un legislatore libero, il quale conoscesse ciò che facea, ma essendo l'azione da una causa cieca e necessaria, nulla può avvenire che sia contrario a questa legge. Sicché essendo Dio agente libero, ben sono possibili ad avvenire i miracoli da lui ab aeterno ordinati, senza ch'egli si muti di volontà.

17. Già si disse nella seconda parte, al capo XIV., che i veri miracoli, perché superano le forze della natura, non possono operarsi che da quel supremo autore ch'è sopra la natura. Quindi è certo che quella religione che produce veri miracoli in conferma della sua dottrina non può non esser vera; poiché Dio non può approvare colla testimonianza dei suoi miracoli una dottrina ch'è falsa. Al capo XIV. e XVI. della seconda parte parlammo già dei miracoli operati da Gesù Cristo e per di lui mezzo dagli apostoli. Qui parleremo solamente de' miracoli operati da Dio per mezzo degli altri suoi servi vivuti nella chiesa cattolica.

18. Vengan tutte le sette, e dimostrino un solo miracolo per loro mezzo operato. Scrivono gli autori gentili che Vespasiano guarì miracolosamente due infermi, e che Adriano diede la vista a due ciechi; ma nel citato capo femmo vedere che ciò avvenne per opera dei rimedj naturali in quanto a Vespasiano, ed in quanto ad Adriano fu una mera finzione de' suoi cortigiani per adularlo. Portano di più che una vergine vestale prese l'acqua in un crivello senza versarla. Ma anche dato ciò per vero, non ripugna il credere che Dio per attestare l'onestà di quella vergine, la quale veniva incolpata a torto d'impudicizia, volesse l'avvenimento di quel prodigio. Vengano i giudei. Ebbero essi senza dubbio nel tempo dell'antica legge molti e veri miracoli, perché erano allora nella vera chiesa; ma ripudiata ch'ella fu colla venuta del Salvatore, tutti i loro miracoli affatto sono cessati. Vengano i maomettani. Ma il loro maestro e duce Maometto si protesta di cedere a Cristo i miracoli, bastandogli come diceva, la spada, per far conoscere la verità della sua religione. È vero ch'egli nel capo 64. dell'Alcorano si vanta e narra un prodigio da lui fatto nella luna, cioè ch'essendo quella caduta e rotta in due parti, fu da lui ricongiunta e riposta in cielo (lo riferisce il cardinal Bellarmino2;) che perciò i turchi (come nota ancora Cornelio a Lapide3) presero per loro insegna la luna. Ma non è credibile esservi uomo nel mondo di mente sana, che possa credere per miracolo una favola così ridicola. Vengano tutte le altre sette insieme a produrre qualche miracolo. Ma no; che se mai le infelici l'han voluto fingere per ingannare la gente, le loro finzioni presto si son manifestate, come specialmente avvenne a Lutero e Calvino, secondo riferiremo al cap. 6. num. 6.

19. Gli eretici pertanto, poiché non trovano alcun miracolo operato da Dio in conferma delle loro sette, dicono (siccome parla il Picenino) che i miracoli non sono già contrassegni della vera religione: perché anche i maghi di Faraone fecero miracoli, ed anche l'Anticristo, secondo scrive s. Giovanni, a' tempi suoi farà prodigi. Ma si risponde primieramente essere chiaro nelle divine scritture che il Signore ha operati i miracoli in prova della vera dottrina. Questo fu il contrassegno che diede Iddio al popolo ebreo, acciocché credessero a quel che da sua parte Mosè loro diceva, cioè la potestà che donò a Mosè di far miracoli, come si legge nell'esodo: Ut credant, inquit, quod apparuerit tibi Dominus... Si non crediderint, inquit, tibi, neque audierint sermonem signi prioris, credent verbo signi sequentis1. Onde lo stesso Calvino, maestro di Picenino, parlando dei miracoli operati da Mosè, confessa che quelli furon tante prove della dottrina da Mosè insegnata: Tot insignia quae refert miracula, totidem sunt proditae doctrinae sanctiones2. Questo anche (cioè i miracoli operati) fu il contrassegno che diede Gesù Cristo a' discepoli del Battista, affinché il Battista credesse ch'egli era il vero Messia: Euntes renuntiate Ioanni quae audistis et vidistis3. Di più con questa prova de' miracoli rimproverava agli ebrei la loro incredulità: Si mihi non vultis credere operibus credite4. E perciò indi li dichiarò indegni di scusa, per non avere voluto credere a' suoi miracoli da loro stessi veduti: Si opera non fecissem in eis quae nemo alius fecit, peccatum non haberent: nunc autem et viderunt, et oderunt me, et patrem meum5. Se i miracoli non fossero stati contrassegni della vera fede, non avrebbe detto Gesù Cristo che coloro sarebbero stati i veri fedeli, che tali prodigj avessero operati: Signa autem eos, qui crediderint, haec sequentur: in nomine meo daemonia eiicient, linguis loquentur novis, serpentes tollent etc.6; ed a torto s. Paolo avrebbe assegnati i miracoli per segni del suo apostolato, quando disse: Signa apostolatus mei facta sunt super vos in omni patientia, in signis et prodigiis7. Ora come dice il Picenino che i miracoli non sono contrassegni della vera religione?

20. In quanto poi a' prodigj operati da' maghi di Faraone, quelli non furon miracoli, ma illusioni ed apparenze possibili ad avvenire per opera de' demonj. E lo stesso sarà de' prodigj che opererà l'Anticristo; ed acciocché per tali prodigj gli uomini non dessero fede a quell'empio, il Signore ci ha fatto sapere anticipatamente che quelli saranno tutti inganni ed illusioni diaboliche: Cuius est adventus secundum operationem satanae, in omni virtute et signis, et prodigiis mendacibus8. Del resto può il Signore concedere anche ad un peccatore ed anche ad un infedele la facoltà di far miracoli, come già diede lo spirito di profezia a Balaam ed a Caifasso. Poiché queste sono grazie gratis date, che Dio comunica a chi vuole secondo i suoi divini giudizj. Ma come ben insegna s. Tommaso9 quando un empio predica la vera fede, ed invoca il nome di Cristo, anch'egli può far veri miracoli; ma non quando poi volesse operarli in conferma d'una fede falsa. Poiché il principale autore dei miracoli è Dio, il quale non può permettere i miracoli per testimonianza d'una falsità. Perciò scrisse Tertulliano10, che i miracoli, o per meglio dire le illusioni de' gentili, perché erano ordinate ad accreditare una fede falsa, al comparire della vera fede predicata da Gesù Cristo, alla quale erano chiamati i gentili, cessarono e si scoprirono per inganni. All'incontro scrisse che un solo miracolo vero, fatto in conferma della verità della nostra religione, bastava a provarla vera.

21. Innumerabili poi sono stati i miracoli continuamente operati da Dio sino a' tempi nostri per mezzo de' suoi servi nella chiesa cattolica, secondo la promessa già fatta da Gesù Cristo: Qui credit in me, opera quae ego facio, et ipse faciet, et maiora horum faciet1. È vero che nella primitiva chiesa questi miracoli furono abbondanti, perché allora eran più necessarj a propagar la fede; e perciò tali miracoli appresso non sono stati così frequenti: ma non ha voluto il Signore che cessassero nella sua chiesa; perché ben anche son necessarj per la conversione delle nuove genti, siccome già è avvenuto in questi ultimi secoli nelle Indie, dove s. Francesco Saverio, s. Luigi Bertrando ed altri ministri del vangelo hanno operati innumerabili prodigj. Giovano anche i miracoli tra i cristiani per confermare i fedeli nella loro credenza e buona vita; e servono insieme a glorificare i santi, che Dio anche in questa terra vuol vedere onorati.

22. A chi poi volesse negare il credito a tanti fatti miracolosi scritti già negli annali della chiesa e nelle vite de' santi, io domando: e perché mai si ha da dar credito a' fatti che riferisce un Tacito, uno Svetonio, un Plinio, e poi non si ha da dar credito ad un s. Atanasio, ad un s. Basilio, ad un s. Girolamo, ad un s. Gregorio ed a tanti altri scrittori pii, che attestano i miracoli operati per mezzo de' santi? Se costoro avessero creduto che il mentire in questa materia non fosse colpa o poca colpa, neppure dovrebbe dubitarsi de' loro detti; ma essi e tutti noi cattolici teniamo, com'è certo, che 'l mentire in tal materia è un fallo degno di morte eterna; onde è temerità il supporre che tanti santi e scrittori pii abbian voluto così fallire, non per altra ragione che per adulare taluni, oppure per tenere ingannata la gente. Tanto più che essi hanno scritte cose, circa le quali poteano facilmente esser convinti di menzogna da' medesimi testimonj de' fatti narrati, che si son trovati vivi a tempo che sono stati mandati alla luce i loro libri.

23. Oltreché ha disposto Iddio che nella santa chiesa alcuni prodigj miracolosi fossero continui per confondere l'audacia de' miscredenti che vogliono negare alla nostra chiesa cattolica il pregio de' miracoli. Solamente nel nostro regno di Napoli quanti di tali prodigj si vedono in ogni anno! Vi è la manna di s. Nicola, che continuamente scaturisce in Bari dalle sue sacre ossa. Ne' monasteri di s. Liguoro e di d. Romita nella città di Napoli in ogni anno si vede liquefarsi il sangue di s. Giovanni Battista nel giorno in cui si celebra la sua Decollazione e propriamente quando si dice il vangelo nella messa. Così parimente vedesi prima indurito, e poi liquefatto il sangue di s. Stefano nel monastero di s. Gaudioso nel giorno della sua festa. Così ancora nella città di Ravello si liquefa il sangue di s. Pantaleone nel giorno della sua festa.

24. È celebre poi in tutto il mondo cristiano il sangue di s. Gennaro, che ogni anno si liquefa più volte, cioè per due intiere ottave alla presenza della sua sacra testa, ed alla vista di molta gente. Ma è bene fermarsi un poco più posatamente a parlare del miracolo di questo santo della mia patria, mentre un tal miracolo così portentoso con maggior furore è contrastato dagli eretici. E dico primieramente che prima degli eretici riformati non vi è stato tra gli scrittori, chi mai ha dubitato della verità d'un tal miracolo sin dal secolo decimo, in cui si suppone esser il miracolo cominciato; benché altri pensano aver egli avuto principio fin dalla morte del santo, che fu nel secolo terzo. I soli pretesi maestri della chiesa riformata si sono affaticati, come ho accennato, con tutte le forze a discreditarlo. Ecco le loro opposizioni. Si oppone dal calvinista Pietro Molineo che da' nostri fraudolentemente si gitti calce nel sangue, e perciò si vede quello bollire. Ma un certo eretico luterano (cosa che fa maraviglia) in una sua dissertazione non ha ripugnato di confutare il nominato calvinista, e l'ha trattato da sciocco e temerario, scrivendo queste parole che ben vagliono a rigettare tutte le altre opposizioni degli avversarj, che qui appresso riferiremo: Come mai, dice questo autore, per tanti anni si è potuta tener nascosta una tal frode in mezzo ad una città così folta? Oltreché Benedetto XIV. nella sua opera De canoniz. lib. 4. par. 1. attesta che per esperienza fatta la calce non ha questa virtù di far bollire il sangue e tanto meno di liquefarlo, quando è indurito.

25. Riferisce ancora lo stesso pontefice nel luogo citato, che un certo medico eretico chiamato Gaspare Neumanna un giorno stando in sua casa cogli amici, pose su d'una tavola tre boccie di liquore in color di sangue, ch'era condensato, e poi a vista di tutti quello si liquefece; e così questo eretico cercò di mettere in derisione il miracolo del nostro s. Gennaro. Ma le risposte son chiare. Primieramente quello non era sangue, ma verisimilmente qualche liquore misturato con roba, che fermentando fra qualche tempo si scioglieva. Inoltre quella tal composizione allora si vide liquefarsi per una sola volta; ma chi poi l'ha veduta, essendo sempre la stessa, più volte indurita e più volte indi liquefatta, come avviene al sangue del nostro santo? Inoltre quella mistura, come dee supporsi, era stata composta da quel ciarlatano poco tempo avanti di esporla a vista degli amici; ma il sangue di s. Gennaro si conserva da tanti secoli, e sempre è lo stesso.

26. Si oppone da altri che ciò succede per virtù naturale di simpatia. Siccome, dicono, per antipatia il sangue d'un uomo ucciso suol bollire a vista dell'uccisore; siccome ancora la calamita per istinto si volge al polo, e l'ambra tira a sé la paglia: così per simpatia il sangue di s. Gennaro si liquefa a vista della propria testa. Ma si risponde che tutte le calamite si volgono al polo, e tutte l'ambre tirano a sé la paglia; ma perché poi il solo sangue di s. Gennaro si liquefa a vista della sua testa, ed i sangui degli altri defunti restano induriti? Inoltre la calamita sempre si rivolge al polo, l'ambra sempre tira a sé la paglia; ma il sangue di s. Gennaro alle volte anche alla presenza del capo resta indurito, alle volte si trova liquefatto lontano dal capo, alle volte si scioglie tra pochi minuti, alle volte dopo molto tempo: talvolta si liquefa in modo che riempie la caraffina, talvolta no; talvolta si scioglie tutto, talvolta mezzo. In quanto poi a bollire il sangue dell'ucciso a vista dell'uccisore, ciò molti dicono esser favola; ma ancorché fosse vero, questo caso rarissime volte sarà avvenuto. Ma il caso di liquefarsi il sangue di s. Gennaro a vista della testa succede più volte l'anno. Inoltre il sangue dell'ucciso si sarà veduto bollire quando ancora erano recenti le ferite ed ancora liquido il sangue; ma chi mai ha veduto bollire il sangue dell'ucciso congelato e dopo molti anni dalla sua morte? Ma il sangue di s. Gennaro si scioglie e bolle dopo essersi indurito, e dopo ch'è stato separato dalla sacra testa per quattordici secoli. Gran cosa! Dicono questi eretici che lo scioglimento così del sangue di s. Gennaro, come di tutti gli altri sangui de' nostri santi da noi riferiti di sopra, avviene per simpatia; ma si domanda: perché di tali simpatie non se ne trova alcuna tra di essi, e solamente si trovano tra' cattolici?

27. Di più oppone il calvinista Picenino, che il sangue di s. Gennaro si liquefa per il calore delle candele che vi ardono e delle genti che v'assistono. Ma si risponde per 1. che con tutto ciò l'esperienza fa vedere che le boccie del sangue appena diventano tepide, ma non calde. Per 2. se ciò avvenisse per le candele e per le genti, avverrebbe più in tempo di state, che di verno; ma più volte è succeduto il contrario, come specialmente nell'anno 1662 nel cuore del verno si liquefece, e nell'anno 1702 in tempo di state non si sciolse prima della seconda messa. Per 3. dove s'è veduto mai sciogliersi alcun sangue col calore del fuoco? Altri oppongono quello non esser sangue, ma un liquore congelato, che a poco a poco si liquefa tra le mani di chi lo tiene. Ma si risponde: chi mai ha veduto il gelo liquefatto di verno tornare poi a congelarsi in tempo di state? Altri dicono che si liquefa, perché le boccie con arte si toccano da chi le tiene in mano. Ma quante volte si liquefa anche nell'armario? Altri che ciò succede per le esalazioni del Vesuvio. Ma queste esalazioni sono per molte miglia lontane; e tante volte che non vi sono, pure il sangue si scioglie. In somma quanto più gli eretici si affaticano a toglier la credenza al miracolo, tanto più la confermano.

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1 1. p. q. 105. a. 5.

2 de Notis eccl. c. 14.

3 in Apoc. 13. 11.

1 Exod. 4. 5. et 8.

2 Instit. c. 8. §. 5.

3 Matth. 11. 4.

4 Ioan. 10. 38.

5 Ioan. 15. 24.

6 Marc. 16. 17.

7 2. Cor. 12. 12.

8 2. Thess. 2. 9.

9 2. 2. q. 178. a. 2. ad 3.

10 Apolog. c. 23.

1 Ioan. 14. 12.