lunedì 26 settembre 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - XX

Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Oggi continuiamo a penetrare nel mistero della vocazione cristiana:

Il medesimo Concilio ha usato un'attenzione del tutto particolare, per dimostrare in quale modo questa comunità «ontologica» dei discepoli e dei confessori debba diventare sempre più, anche «umanamente», una comunità cosciente della propria vita ed attività. Le iniziative del Concilio in questo campo hanno trovato la loro continuità nelle numerose e ulteriori iniziative di carattere sinodale, apostolico e organizzativo. Dobbiamo, però, tener sempre presente la verità che ogni iniziativa in tanto serve al vero rinnovamento della Chiesa, e in tanto contribuisce ad apportare l'autentica luce che è Cristo184, in quanto si basa sull'adeguata consapevolezza della vocazione e della responsabilità per questa grazia singolare, unica e irripetibile, mediante la quale ogni cristiano nella comunità del Popolo di Dio costruisce il Corpo di Cristo. Questo principio, che è la regola-chiave di tutta la prassi cristiana - prassi apostolica e pastorale, prassi della vita interiore e di quella sociale - deve essere applicato, in giusta proporzione, a tutti gli uomini e a ciascuno di essi. Anche il Papa, come pure ogni Vescovo, deve applicarlo a sé. A questo principio debbono essere fedeli i sacerdoti, i religiosi e le religiose. In base ad esso debbono costruire la loro vita gli sposi, i genitori, le donne e gli uomini di condizione e di professione diverse, iniziando da coloro che occupano nella società le più alte cariche e finendo con coloro che svolgono i lavori più semplici. Questo è appunto il principio di quel «servizio regale», che impone a ciascuno di noi, seguendo l'esempio di Cristo, il dovere di esigere da se stessi esattamente quello a cui siamo chiamati, a cui - per rispondere alla vocazione - ci siamo personalmente obbligati, con la grazia di Dio. Tale fedeltà alla vocazione ottenuta da Dio, mediante Cristo, porta con sé quella solidale responsabilità per la Chiesa, alla quale il Concilio Vaticano II vuole educare tutti i cristiani. Nella Chiesa, infatti, come nella comunità del Popolo di Dio, guidata dall'opera dello Spirito Santo, ciascuno ha «il proprio dono», come insegna San Paolo185. Questo «dono», pur essendo una personale vocazione ed una forma di partecipazione all'opera salvifica della Chiesa, serve parimenti agli altri, costruisce la Chiesa e le comunità fraterne nelle varie sfere dell'esistenza umana sulla terra.

La fedeltà alla vocazione, cioè la perseverante disponibilità al «servizio regale», ha un particolare significato per questa molteplice costruzione, soprattutto per ciò che riguarda i còmpiti più im pegnativi, che hanno maggiore influenza sulla vita del nostro prossimo e di tutta la società. Per la fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi gli sposi, come esige la natura indissolubile dell'istituzione sacramentale del matrimonio. Per una simile fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi i sacerdoti, atteso il carattere indelebile che il sacramento dell'Ordine imprime nelle loro anime. Ricevendo questo sacramento, noi nella Chiesa Latina c'impegniamo consapevolmente e liberamente a vivere nel celibato, e perciò ognuno di noi deve far tutto il possibile, con la grazia di Dio, per essere riconoscente per questo dono e fedele al vincolo accettato per sempre. Ciò non diversamente dagli sposi, che debbono con tutte le loro forze tendere a perseverare nell'unione matrimoniale, costruendo con questa testimonianza d'amore la comunità familiare ed educando nuove generazioni di uomini, capaci di consacrare anch'essi tutta la loro vita alla propria vocazione, cioè a quel «servizio regale» di cui l'esempio e il più bel modello ci sono offerti da Gesù Cristo. La sua Chiesa, che noi tutti formiamo, è «per gli uomini» nel senso che, basandoci sull'esempio di Cristo186 e collaborando con la grazia che Egli ci ha guadagnato, possiamo raggiungere quel «regnare», e cioè realizzare una matura umanità in ciascuno di noi. Umanità matura significa pieno uso del dono della libertà, che abbiamo ottenuto dal Creatore, nel momento in cui egli ha chiamato all'esistenza l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza. Questo dono trova la sua piena realizzazione nella donazione, senza riserve, di tutta la propria persona umana, in spirito di amore sponsale al Cristo e, con Cristo, a tutti coloro, ai quali Egli invia uomini o donne, che a Lui sono totalmente consacrati secondo i consigli evangelici. Ecco l'ideale della vita religiosa, assunto dagli Ordini e Congregazioni, sia antichi che recenti, e dagli Istituti secolari.

Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c'insegna che il migliore uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio. Per tale «libertà Cristo ci ha liberati»187 e ci libera sempre. La Chiesa attinge qui l'incessante ispirazione, l'invito e l'impulso alla sua missione ed al suo servizio fra tutti gli uomini. La piena verità sulla libertà umana è profondamente incisa nel mistero della Redenzione. La Chiesa serve veramente l'umanità, quando tutela questa verità con instancabile attenzione, con amore fervente, con impegno maturo, e quando, in tutta la propria comunità, mediante la fedeltà alla vocazione di ciascun cristiano, la trasmette e la concretizza nella vita umana. In questo modo viene confermato ciò a cui abbiam fatto riferimento già in precedenza, e cioè che l'uomo è e diventa sempre la «via» della vita quotidiana della Chiesa.

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