lunedì 25 luglio 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - XIII

 Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Nella porzione odierna vediamo il Beato Wojtyla  soffermarsi su di un importante argomento: i diritti dell'uomo. Chi conosce la storia di Karol Wojtyla, sa a quante violazioni costui abbia assistito lungo la sua vita: prima il calpestamento dei diritti degli ebrei trattati come animali dai nazisti, poi l'oppressione violenta del regime comunista che voleva cancellare la religione negli stati sovietici, in particolare nella sua cara Polonia. Ecco perché queste parole che ci apprestiamo a leggere sono così cariche di significato e avallate da considerazioni empiriche frutto della testimonianza di chi ha conosciuto le violazioni dei diritti umani più basilari. In particolare, vediamo come egli non sia nemmeno convinto che sia sufficiente l'esistenza di una Dichiarazione che attesti questi diritti umani: infatti, si chiede spesso se alla lettera corrisponda lo spirito e quindi se tali dichiarazioni siano solo formali od anche sostanziali. Ovviamente, l'attenzione si concentra anche sulla libertà di religione, la cui violazione è stata molto forte proprio in terra polacca:

 III - L'uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo  

17. Diritti dell'uomo: «lettera» o «spirito»

Il nostro secolo è stato finora un secolo di grandi calamità per l'uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali. Certamente, non è facile paragonare sotto questo aspetto epoche e secoli, poiché ciò dipende anche dai criteri storici che cambiano. Nondimeno, senza stabilire questi paragoni, bisogna pur constatare che finora questo secolo è stato un secolo in cui gli uomini hanno preparato a se stessi molte ingiustizie e sofferenze. Questo processo è stato decisamente frenato? In ogni caso, non si può qui non ricordare, con stima e con profonda speranza per il futuro, il magnifico sforzo compiuto per dare vita all'Organizzazione delle Nazioni Unite, uno sforzo che tende a definire e stabilire gli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo, obbligandosi reciprocamente gli Stati-membri ad una rigorosa osservanza di essi. Questo impegno è stato accettato e ratificato da quasi tutti gli Stati del nostro tempo, e ciò dovrebbe costituire una garanzia perché i diritti dell'uomo diventino, in tutto il mondo, principio fondamentale dell'azione per il bene dell'uomo.

La Chiesa non ha bisogno di confermare quanto questo problema sia strettamente collegato con la sua missione nel mondo contemporaneo. Esso, infatti, sta alle basi stesse della pace sociale e internazionale, come hanno dichiarato al riguardo Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e poi Paolo VI in particolareggiati documenti. In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo - opera di giustizia è la pace -, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancor più gravi violazioni di essi. Se i diritti dell'uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l'uomo, che non può in nessun modo accordarsi con un qualsiasi programma che si autodefinisca «umanistico». E quale programma sociale, economico, politico, culturale potrebbe rinunciare a questa definizione? Nutriamo la profonda convinzione che non c'è nel mondo di oggi alcun programma in cui, perfino sulla piattaforma di opposte ideologie circa la concezione del mondo, non venga messo sempre in primo piano l'uomo.

Ora, se malgrado tali premesse, i diritti dell'uomo vengono in vario modo violati, se in pratica siamo testimoni dei campi di concentramento, della violenza, della tortura, del terrorismo e di molteplici discriminazioni, ciò deve essere una conseguenza delle altre premesse che minano, o spesso annientano quasi l'efficacia delle premesse umanistiche di quei programmi e sistemi moderni. S'impone allora necessariamente il dovere di sottoporre gli stessi programmi ad una continua revisione dal punto di vista degli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo.

La Dichiarazione di questi diritti, unitamente all'istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, non aveva certamente soltanto il fine di distaccarsi dalle orribili esperienze dell'ultima guerra mondiale, ma anche quello di creare una base per una continua revisione dei programmi, dei sistemi, dei regimi, proprio da quest'unico fondamentale punto di vista, che è il bene dell'uomo - diciamo della persona nella comunità - e che, come fattore fondamentale del bene comune, deve costituire l'essenziale criterio di tutti i programmi, sistemi, regimi. In caso contrario, la vita umana, anche in tempo di pace, è condannata a varie sofferenze e, nello stesso tempo, insieme con esse si sviluppano varie forme di dominio, di totalitarismo, di neocolonialismo, di imperialismo, che minacciano anche la convivenza tra le nazioni. Invero, è un fatto significativo e confermato a più riprese dalle esperienze della storia, come la violazione dei diritti dell'uomo vada di pari passo con la violazione dei diritti della nazione, con la quale l'uomo è unito da legami organici, come con una più grande famiglia.

Già fin dalla prima metà di questo secolo, nel periodo in cui si stavano sviluppando vari totalitarismi di Stato, i quali - come è noto - portarono all'orribile catastrofe bellica, la Chiesa aveva chiaramente delineato la sua posizione di fronte a questi regimi, che apparentemente agivano per un bene superiore, qual è il bene dello Stato, mentre la storia avrebbe invece dimostrato che quello era solo il bene di un determinato partito, identificatosi con lo Stato111. In realtà, quei regimi avevano coartato i diritti dei cittadini, negando loro il riconoscimento proprio di quegli inviolabili diritti dell'uomo che, verso la metà del nostro secolo, hanno ottenuto la loro formulazione in sede internazionale. Nel condividere la gioia di questa conquista con tutti gli uomini di buona volontà, con tutti gli uomini che amano veramente la giustizia e la pace, la Chiesa, consapevole che la sola «lettera» può uccidere, mentre soltanto «lo spirito dà vita»112, deve insieme con questi uomini di buona volontà domandare continuamente se la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e l'accettazione della loro «lettera» significhino dappertutto anche la realizzazione del loro «spirito». Sorgono, infatti, timori fondati che molto spesso siamo ancora lontani da questa realizzazione, e che talvolta lo spirito della vita sociale e pubblica si trova in una dolorosa opposizione con la dichiarata «lettera» dei diritti dell'uomo. Questo stato di cose, gravoso per le rispettive società, renderebbe particolarmente responsabili, di fronte a queste società ed alla storia dell'uomo, coloro che contribuiscono a determinarlo.

Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell'esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all'imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questa società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca, in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo e del necessario vigore dell'autorità pubblica113. Questi sono, quindi, problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell'uomo stesso e dello sviluppo globale della sua umanità.

La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa, inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è la sollecitudine per il bene comune della società; da qui derivano i suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste premesse attinenti all'ordine etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell'uomo. Quel bene comune, che l'autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si arriva allo sfacelo della società, all'opposizione dei cittadini all'autorità, oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo, di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismi del nostro secolo. È così che il principio dei diritti dell'uomo tocca profondamente il settore della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella vita degli Organismi politici.

Fra questi diritti si annovera, e giustamente, il diritto alla libertà religiosa accanto al diritto alla libertà di coscienza. Il Concilio Vaticano II ha ritenuto particolarmente necessaria l'elaborazione di una più ampia Dichiarazione su questo tema. E il documento che s'intitola Dignitatis Humanae114, nel quale è stata espressa non soltanto la concezione teologica del problema, ma anche la concezione dal punto di vista del diritto naturale, cioè dalla posizione «puramente umana», in base a quelle premesse dettate dall'esperienza stessa dell'uomo, dalla sua ragione e dal senso della sua dignità. Certamente, la limitazione della libertà religiosa delle persone e delle comunità non è soltanto una loro dolorosa esperienza, ma colpisce innanzitutto la dignità stessa dell'uomo, indipendentemente dalla religione professata o dalla concezione che esse hanno del mondo. La limitazione della libertà religiosa e la sua violazione contrastano con la dignità dell'uomo e con i suoi diritti oggettivi. Il sunnominato documento conciliare dice con bastante chiarezza che cosa sia una tale limitazione e violazione della libertà religiosa. Indubbiamente, ci troviamo in questo caso di fronte a una ingiustizia radicale riguardo a ciò che è particolarmente profondo nell'uomo, riguardo a ciò che è autenticamente umano. Difatti, perfino lo stesso fenomeno dell'incredulità, areligiosità e ateismo, come fenomeno umano, si comprende soltanto in relazione al fenomeno della religione e della fede. È pertanto difficile, anche da un punto di vista «puramente umano», accettare una posizione, secondo la quale solo l'ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale, mentre gli uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati, oppure trattati come cittadini di categoria inferiore, e perfino - il che è già accaduto - sono del tutto privati dei diritti di cittadinanza.

Occorre, pur se brevemente, trattare anche questo tema, perché anch'esso rientra nel complesso delle situazioni dell'uomo nel mondo attuale, perché anch'esso testimonia quanto questa situazione sia gravata da pregiudizi e da ingiustizie di vario genere. Se ci asteniamo dall'entrare nei particolari proprio in questo campo, in cui avremmo uno speciale diritto e dovere di farlo, ciò è soprattutto perché, insieme con tutti coloro che soffrono i tormenti della discriminazione e della persecuzione per il nome di Dio, siamo guidati dalla fede nella forza redentrice della croce di Cristo. Tuttavia, in virtù del mio ufficio, desidero a nome di tutti i credenti del mondo intero, rivolgermi a coloro da cui, in qualche modo, dipende l'organizzazione della vita sociale e pubblica, domandando ad essi ardentemente di rispettare i diritti della religione e dell'attività della Chiesa. Non si chiede alcun privilegio, ma il rispetto di un elementare diritto. L'attuazione di questo diritto è una delle fondamentali verifiche dell'autentico progresso dell'uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente.

 

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