lunedì 18 luglio 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - XII

  Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Oggi, il Beato Giovanni Paolo II si sofferma proprio sul contenuto della paura che abbiamo analizzato nello scorso appuntamento: lo sviluppo rappresenta davvero progresso oppure rappresenta una minaccia? Rispondere alla domanda è molto importante e un'anticipazione che possiamo dare è che bisogna sempre ricordarsi che l'etica deve sempre prevalere sulla tecnica, altrimenti si rischiano di compiere aberrazioni come la genitoplastica che consiste nel cambiare il sesso alle neonate femmine (pratica orribile e disgustosa che va diffondendosi in alcuni paesi asiatici):

III - L'uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo   

16. Progresso o minaccia?

Se, dunque, il nostro tempo, il tempo della nostra generazione, il tempo che si sta avvicinando alla fine del secondo Millennio della nostra èra cristiana, si rivela a noi come tempo di grande progresso, esso appare, altresì, come tempo di multiforme minaccia per l'uomo, della quale la Chiesa deve parlare a tutti gli uomini di buona volontà, ed intorno alla quale deve sempre dialogare con loro. La situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo, infatti, sembra lontana dalle esigenze oggettive dell'ordine morale, come dalle esigenze della giustizia e, ancora più, dell'amore sociale. Non si tratta qui che di ciò che ha trovato la sua espressione nel primo messaggio del Creatore, rivolto all'uomo nel momento in cui gli dava la terra, perché la «soggiogasse»100. Questo primo messaggio è stato riconfermato, nel mistero della Redenzione, da Cristo Signore. Ciò è espresso dal Concilio Vaticano II in quei bellissimi capitoli del suo insegnamento che riguardano la «regalità» dell'uomo, cioè la sua vocazione a partecipare all'ufficio regale - il munus regale - di Cristo stesso101. Il senso essenziale di questa «regalità» e di questo «dominio» dell'uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come còmpito dallo stesso Creatore, consiste nella priorità dell'etica sulla tecnica, nel primato della persona sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia.

È per questo che bisogna seguire attentamente tutte le fasi del progresso odierno: bisogna, per cosl dire, fare la radiografia delle sue singole tappe proprio da questo punto di vista. Si tratta dello sviluppo delle persone e non soltanto della moltiplicazione delle cose, delle quali le persone possono servirsi. Si tratta - come ha detto un filosofo contemporaneo e come ha affermato il Concilio - non tanto di «avere di più», quanto di «essere di più»102. Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell'uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l'organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. L'uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l'uomo a tale schiavitù, pur se talvolta, indubbiamente, ciò avvenga contro le intenzioni e le premesse stesse dei suoi pionieri. Alle radici dell'attuale sollecitudine per l'uomo sta senz'altro questo problema. Non si tratta qui soltanto di dare una risposta astratta alla domanda: chi è l'uomo; ma si tratta di tutto il dinamismo della vita e della civiltà. Si tratta del senso delle varie iniziative della vita quotidiana e, nello stesso tempo, delle premesse per numerosi programmi di civilizzazione, programmi politici, economici, sociali, statali e molti altri.

Se osiamo definire la situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo come lontana dalle esigenze oggettive dell'ordine morale, lontana dalle esigenze della giustizia e, ancor più, dall'amore sociale, è perché ciò viene confermato dai ben noti fatti e dai raffronti, che più volte hanno già avuto diretta risonanza sulle pagine delle enunciazioni pontificie, conciliari, sinodali103. La situazione dell'uomo nella nostra epoca non è certamente uniforme, ma differenziata in modo molteplice. Queste differenze hanno le loro cause storiche, ma hanno anche una loro forte risonanza etica. E, infatti, ben noto il quadro della civiltà consumistica, che consiste in un certo eccesso dei beni necessari all'uomo, alle società intere - e qui si tratta proprio delle società ricche e molto sviluppate -, mentre le rimanenti società, almeno larghi strati di esse, soffrono la fame, e molte persone muoiono ogni giorno di denutrizione e di inedia. Di pari passo va per gli uni un certo abuso della libertà, che è legato proprio ad un atteggiamento consumistico non controllato dall'etica, ed esso limita contemporaneamente la libertà degli altri, cioè di coloro che soffrono rilevanti deficienze e vengono spinti verso condizioni di ulteriore miseria ed indigenza.

Questo raffronto, universalmente noto, e il contrasto al quale si sono richiamati, nei documenti del loro magistero, i Pontefici del nostro secolo, più recentemente Giovanni XXIII come anche Paolo VI104, rappresentano come il gigantesco sviluppo della parabola biblica del ricco epulone e del povero Lazzaro105. L'ampiezza del fenomeno chiama in causa le strutture e i meccanismi finanziari, monetari, produttivi e commerciali, che, poggiando su diverse pressioni politiche, reggono l'economia mondiale: essi si rivelano quasi incapaci sia di riassorbire le ingiuste situazioni sociali, ereditate dal passato, sia di far fronte alle urgenti sfide ed alle esigenze etiche del presente. Sottoponendo l'uomo alle tensioni da lui stesso create, dilapidando ad un ritmo accelerato le risorse materiali ed energetiche, compromettendo l'ambiente geofisico, queste strutture fanno estendere incessantemente le zone di miseria e, con questa, l'angoscia, la frustrazione e l'amarezza106.

Ci troviamo qui dinanzi ad un grande dramma, che non può lasciare nessuno indifferente. Il soggetto che, da una parte, cerca di trarre il massimo profitto e quello che, dall'altra parte, paga il tributo dei danni e delle ingiurie, è sempre l'uomo. Il dramma viene ancor più esasperato dalla vicinanza con gli strati sociali privilegiati e con i paesi dell'opulenza, che accumulano i beni in grado eccessivo, e la cui ricchezza diventa, molto spesso per abuso, causa di diversi malesseri. Si aggiungano la febbre dell'inflazione e la piaga della disoccupazione: ecco altri sintomi di questo disordine morale, che si fa notare nella situazione mondiale e che richiede, pertanto, risoluzioni audaci e creative, conformi all'autentica dignità dell'uomo107.

Un tal còmpito non è impossibile da realizzare. Il principio di solidarietà, in senso largo, deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi appropriati: si tratti del settore degli scambi, dove bisogna lasciarsi guidare dalle leggi di una sana competizione, e si tratti anche del piano di una più ampia e più immediata ridistribuzione delle ricchezze e dei controlli su di esse, affinché i popoli che sono in via di sviluppo economico possano non soltanto appagare le loro esigenze essenziali, ma anche progredire gradualmente ed efficacemente.

Su questa difficile strada, sulla strada dell'indispensabile trasformazione delle strutture della vita economica non sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore. Il còmpito richiede l'impegno risoluto di uomini e di popoli liberi e solidali. Troppo spesso si confonde la libertà con l'istinto dell'interesse individuale o collettivo o, ancora, con l'istinto di lotta e di dominio, qualunque siano i colori ideologici con cui essi son dipinti. È ovvio che tali istinti esistono ed operano, ma non sarà possibile alcuna economia veramente umana, se essi non vengono assunti, orientati e dominati dalle forze più profonde, che si trovano nell'uomo e che decidono della vera cultura dei popoli. Proprio da queste sorgenti deve nascere lo sforzo, in cui si esprimerà la vera libertà dell'uomo, e che sarà capace di assicurarla anche in campo economico. Lo sviluppo economico, con tutto ciò che fa parte del suo adeguato modo di funzionare, deve essere costantemente programmato e realizzato all'interno di una prospettiva di sviluppo universale e solidale dei singoli uomini e dei popoli, come ricordava in modo convincente il mio Predecessore Paolo VI nella Populorum Progressio. Senza di ciò, la sola categoria del «progresso economico» diventa una categoria superiore che subordina l'insieme dell'esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l'uomo, disgrega le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli stessi suoi eccessi.

È possibile assumere questo dovere: lo testimoniano i fatti certi ed i risultati, che è difficile qui enumerare analiticamente. Una cosa, però, è certa: alla base di questo gigantesco campo bisogna stabilire, accettare ed approfondire il senso della responsabilità morale, che l'uomo deve far suo. Ancora e sempre: l'uomo. Per noi cristiani una tale responsabilità diventa particolarmente evidente, quando ricordiamo - e dobbiamo sempre ricordare - la scena del giudizio finale, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo108.

Questa scena escatologica dev'esser sempre «applicata» alla storia dell'uomo, dev'esser sempre fatta «metro» degli atti umani, come uno schema essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: «Ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare...; ero nudo, e non mi avete vestito...; ero in carcere, e non mi avete visitato»109. Queste parole acquistano una maggiore carica ammonitrice, se pensiamo che, invece del pane e dell'aiuto culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita indipendente, vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione, posti a servizio di conflitti armati e di guerre, che non sono tanto un'esigenza della difesa dei loro giusti diritti e della loro sovranità, quanto piuttosto una forma di sciovinismo, di imperialismo, di neocolonialismo di vario genere. Tutti sappiamo bene che le zone di miseria o di fame, che esistono sul nostro globo, avrebbero potuto essere «fertilizzate» in breve tempo, se i giganteschi investimenti per gli armamenti, che servono alla guerra e alla distruzione, fossero stati invece cambiati in investimenti per il nutrimento, che servono alla vita.

Forse questa considerazione rimarrà parzialmente «astratta»; forse offrirà l'occasione all'una e all'altra «parte» per accusarsi reciprocamente, dimenticando ognuna le proprie colpe. Forse provocherà anche nuove accuse contro la Chiesa. Questa, però, non disponendo di altre armi che di quelle dello spirito, della parola e dell'amore, non può rinunciare ad annunziare «la parola ... in ogni occasione opportuna e non opportuna»110. Per questo, non cessa di pregare ciascuna delle due parti, e di chiedere a tutti nel nome di Dio e nel nome dell'uomo: Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!

 

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