domenica 27 marzo 2011

Il Libro di Giobbe - Ventottesimo appuntamento

Come ogni domenica torna Il Libro di Giobbe; oggi proseguono le "sentenze" di Giobbe cominciate la scorsa settimana:

30

1Ora invece si ridono di me
i più giovani di me in età,
i cui padri non avrei degnato
di mettere tra i cani del mio gregge.
2Anche la forza delle loro mani a che mi giova?
Hanno perduto ogni vigore;
3disfatti dalla indigenza e dalla fame,
brucano per l'arido deserto,
4da lungo tempo regione desolata,
raccogliendo l'erba salsa accanto ai cespugli
e radici di ginestra per loro cibo.
5Cacciati via dal consorzio umano,
a loro si grida dietro come al ladro;
6sì che dimorano in valli orrende,
nelle caverne della terra e nelle rupi.
7In mezzo alle macchie urlano
e sotto i roveti si adunano;
8razza ignobile, anzi razza senza nome,
sono calpestati più della terra.
9Ora io sono la loro canzone,
sono diventato la loro favola!
10Hanno orrore di me e mi schivano
e non si astengono dallo sputarmi in faccia!
11Poiché egli ha allentato il mio arco e mi ha abbattuto,
essi han rigettato davanti a me ogni freno.
12A destra insorge la ragazzaglia;
smuovono i miei passi
e appianano la strada contro di me per perdermi.
13Hanno demolito il mio sentiero,
cospirando per la mia disfatta
e nessuno si oppone a loro.
14Avanzano come attraverso una larga breccia,
sbucano in mezzo alle macerie.
15I terrori si sono volti contro di me;
si è dileguata, come vento, la mia grandezza
e come nube è passata la mia felicità.
16Ora mi consumo
e mi colgono giorni d'afflizione.
17Di notte mi sento trafiggere le ossa
e i dolori che mi rodono non mi danno riposo.
18A gran forza egli mi afferra per la veste,
mi stringe per l'accollatura della mia tunica.
19Mi ha gettato nel fango:
son diventato polvere e cenere.
20Io grido a te, ma tu non mi rispondi,
insisto, ma tu non mi dai retta.
21Tu sei un duro avversario verso di me
e con la forza delle tue mani mi perseguiti;
22mi sollevi e mi poni a cavallo del vento
e mi fai sballottare dalla bufera.
23So bene che mi conduci alla morte,
alla casa dove si riunisce ogni vivente.
24Ma qui nessuno tende la mano alla preghiera,
né per la sua sventura invoca aiuto.
25Non ho pianto io forse con chi aveva i giorni duri
e non mi sono afflitto per l'indigente?
26Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male,
aspettavo la luce ed è venuto il buio.
27Le mie viscere ribollono senza posa
e giorni d'affanno mi assalgono.
28Avanzo con il volto scuro, senza conforto,
nell'assemblea mi alzo per invocare aiuto.
29Sono divenuto fratello degli sciacalli
e compagno degli struzzi.
30La mia pelle si è annerita, mi si stacca
e le mie ossa bruciano dall'arsura.
31La mia cetra serve per lamenti
e il mio flauto per la voce di chi piange.


COMMENTO

Queste parole di Giobbe che proseguono il lamento iniziato la scorsa settimana e precedono quello della prossima, fanno venire un certo senso di pietà verso questo nostro caro fratello dell'antichità. Che umiliazione per un uomo abituato ad avere tanti beni a disposizione, vedersi ora schernito da giovinastri. Come se un uomo dei giorni nostri, rispettato e ben voluto da tutti, ad un certo momento della sua vita si ritrova povero e allontanato da tutti e preso in giro persino dai bambini. Proviamo a collocare Giobbe nella vita nostra quotidiana, ponendolo al posto di un barbone oggi chiamato dalla società "clochard". Quanti Giobbe ci sono sulla faccia della Terra, quanti uomini magari buoni che avevano una vita serena, si sono ritrovati per diverse cause in una situazione di enorme difficoltà. Giobbe lamenta un grande sconforto. Non neghiamolo: questo uomo antico scioglie il nostro cuore e lo muove alla compassione nel sentire questi dolori immotivati perché Giobbe è un uomo dalla condotta integra, nonostante tutti i suoi averi era generoso e umile con tutti. Era un ricco buono, cosa assai rara non solo ai giorni nostri, ma da sempre da quando l'uomo ha conosciuto il peccato. Dunque Giobbe è stato messo durante alla prova a causa delle "zizzanie" del demonio. All'inizio di questo Libro infatti vediamo come satana accusa Giobbe davanti a Dio cercando di insinuare sospetto sul servo del Signore. Così Dio permette al demonio di ridurre a uno stato pietoso questo ricco buono quale è Giobbe per saggiare il suo cuore.

Siamo anche noi un po' come Giobbe, quando diciamo: ma che male ho fatto io per vivere tutte queste sofferenze? Soprattutto se siamo coscienti di aver fatto opere buone. Sono prove e noi dobbiamo superarle, dobbiamo "dimostrare", per così dire al Signore che siamo servi fedeli, che non facciamo il bene solo perché stiamo bene noi, ma perché lo facciamo con amore e senza interessi a prescindere dallo stato in cui viviamo. Se Giobbe fosse stato un uomo ipocrita, probabilmente, anzi sicuramente nel dolore si sarebbe ribellato e ne avrebbe dette di tutti i colori, invece lui è veramente un uomo umile perché i suoi lamenti sono giusti, ma mai offensivi. Sono lamenti puliti di un uomo che allevia le sue sofferenze, senza mai bestemmiare e senza mai prendersela con Dio. Noi dovremmo seguire il suo esempio nella sofferenza. Anche nel lamentarsi c'è il giusto e cattivo modo e Giobbe usa quello buono. Nella sofferenza, specie se sappiamo di aver agito bene, accettiamo tutto con rassegnazione e se proprio il dolore pesa, lamentiamoci con dolcezza, senza mai giungere all'arroganza.

La prossima domenica leggeremo l'ultima parte del lamento di Giobbe dopodiché ci sarà la comparsa di un nuovo personaggio che non esiterà a mettere in mostra il suo sapere.

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