Confutazione del libro francese intitolato dello Spirito (de l'Esprit) condannato nell'anno 1759 dal regnante pontefice Clemente XIII.
1. Nel principio di questo libro io ritrovo una ritrattazione di Elvezio, che n'è stato l'autore, ove dice ch'egli avea data fuori quest'opera con semplicità, non intendendo di attaccare alcuna verità cattolica, né avvertendo alle conseguenze orribili che ne risultavano; e perciò dichiara ch'egli condannava quello che ha scritto, e che anzi desiderava di vederne la soppressione. Io voglio sperare che Elvezio abbia fatto di cuore questa sua dichiarazione; del resto o egli abbia scritto in buona o mala fede, o abbia parlato da filosofo, come dice, o da cristiano, o abbia discorso per ipotesi o per tesi, il certo si è che fra gli altri libri velenosi, che sono usciti a' giorni nostri, il suo può dirsi il più pestifero, mentre esso quasi contiene gli errori di tutti gi altri. E perciò con ragione è stato condannato dal sommo pontefice, dall'arcivescovo di Parigi monsignor Beaumont e dalla Facoltà della Sorbona. Per tanto avendo io inteso che questo perniciosissimo libro girava per le mani di molti anche nella nostra città di Napoli, ho stimato bene di confutarne gli errori principali, e prima di tutto i suoi due falsissimi principj da cui nascono mille erronee conseguenze. Ho detto gli errori principali, perché, se volessi confutarli tutti, mi bisognerebbe confutare quasi ogni parola dell'opera.
2. Il primo principio di Elvezio2, da lui chiamato ipotesi, è quello della sensibilità fisica. Dice che noi abbiam la potenza passiva della sensibilità fisica, ch'è la facoltà di ricevere le differenti impressioni che gli oggetti esterni fanno sopra di noi. E questa facoltà
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passiva egli chiama causa produttrice de' nostri pensieri. Posto ciò, par che non siavi differenza tra l'anima degli uomini e l'anima de' bruti; e ciò egli non ripugna di confermarlo, dicendo che questa facoltà è a noi comune colle bestie. Dunque qual differenza vi è fra noi e le bestie? Egli risponde che la differenza sta in una certa organizzazione esteriore. E poi dice: Se la natura in vece di mani e di dita flessibili avesse terminato il collo con un piè di cavallo, chi ne dubita che gli uomini senza arti, senza tetto, senza difesa contro gli animali, occupati unicamente nella cura di procacciarsi il cibo, e difendersi dalle bestie feroci, non fossero erranti ancora nelle foreste, come una mandra fuggitiva1? Sicché un uomo, secondo Elvezio, non differisce da un cavallo, se non che nell'avere l'uomo le mani, e 'l cavallo le zampe?
3. Dunque se il cavallo avesse le mani, avrebbe l'intendimento come l'uomo? Elvezio sembra che neppur ripugni di affermarlo; mentre dice che il cavallo, perché ha le zampe e non le mani, resta privato dell'industria necessaria a maneggiare qualche strumento ed a fare alcune scoperte che suppongono le mani. Dunque se ad un uomo mancassero le mani, ed in vece di quelle avesse le zampe, egli sarebbe simile ad un cavallo? E quelle operazioni e scoperte che suppongono le mani, ben potrebbero farsi dalle bestie, se esse avessero le mani; in modo che, se qualche bestia avesse le mani, potrebbe comporre oruoli a sole, giuocare agli scacchi, e far cose simili? Ma impariamo da questo filosofo le altre ragioni perché le bestie non pensano e non discorrono, come pensa e discorre l'uomo; eccole: La vita degli animali, dice, generalmente è più breve che la nostra; perciò non permette loro far tante osservazioni, né per conseguenza aver tante idee, quante ne ha l'uomo. Dunque, se un cavallo vivesse cinquanta anni, potrebbe diventare un gran dottore, un gran filosofo, un gran ministro di stato? L'altra ragione che aggiunge è che l'uomo è l'animale più moltiplicato sopra la terra. Ora, dice, quanto più la specie di un animale capace di osservazioni è moltiplicata, tanto più questa specie di animale abbonda d'idee e di spirito. Dunque, se gli uomini fossero in minor numero de' cavalli, gli uomini sarebbero più bestie che non sono i cavalli? E se all'incontro i cavalli fossero in maggior numero degli uomini, sarebbero più dotti e più eruditi degli uomini? Tutte queste son conseguenze necessarie delle ragioni di Elvezio. Ha pensato bene quest'autore di assomigliare l'uomo col cavallo, perché il suo discorrere non è più che da cavallo. Ecco il bel filosofare de' filosofi moderni!
4. Ma rispondiamo di proposito, non da cavalli, ma da uomini a questo inettissimo principio di Elvezio della sensibilità fisica. Egli dice che la facoltà di pensare che ha l'uomo, non è altro che una facoltà passiva di ricevere le impressioni che ci fanno gli oggetti esterni. Dimandiamo di che intende parlare: del corpo o dello spirito dell'uomo? Concediamo che il corpo dell'uomo non è che una facoltà passiva di ricever le impressioni esterne (meglio però avrebbe detto qualità passiva e non facoltà, perché la facoltà spetta propriamente allo spirito che agisce); ma di queste impressioni esterne chi ne riceve la sensibilità fisica? Il corpo o l'anima dell'uomo? Il corpo no, perché la materia non è capace di sentire; le riceve l'anima che di senso è dotata. Ma andiamo avanti. Dopo che l'uomo ha ricevuta dagli oggetti esterni quella sensazione di piacere o di dolore che gli è avvenuta, egli, oltre il percepirla, vi riflette, la distingue dalle altre sensazioni, e poi giudica qual di loro sia più dilettevole o più dolorosa. Questo giudizio non è certamente sensibilità fisica, ma è operazione dello spirito. Non signore, risponde Elvezio; il giudicare non è altro che sentire. Ma erra; perché la sensazione viene dall'impressione; il giudizio poi non viene dalla sensazione
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ma si forma sopra la sensazione. Inoltre molti giudizi e riflessioni (siccome già notammo nella prima parte al capo VI. n. 6. ) si fan dall'uomo di cose pure spirituali e tutte diverse dalle sensazioni, come della verità, della bontà, della giustizia, del raziocinio, della contraddizione, della dimostrazione. Queste idee della verità, della bontà ecc., dimandiamo in qual organo del corpo si formano? Queste non son materia, onde non possono formarsi dalle impressioni materiali degli oggetti esterni. Elle dunque non sono sensibilità fisiche, ma pure intelligenze ed operazioni spirituali; e, se sono pure intelligenze, come possono formarsi dalle impressioni esterne, che sono materiali?
5. Elvezio, il quale ha studiato per diventar cavallo, ma non ha potuto giungere ad esserlo, comprende già la forza di questa ragione; ma con tutto ciò non si sgomenta, e prosiegue animosamente a dire che i giudizj che si fanno della giustizia, della bontà e simili, anche sono sensazioni. E come? Ecco come lo spiega: «Facciamo che vi siano tre tavole: sull'una sia dipinto un re giusto che fa morire un reo: nella seconda un re buono che fa trarre il reo da' ceppi, e lo ripone in libertà; nella terza questo stesso reo, che armato di un pugnale, uscendo dalla prigione, corre ad uccidere 50. cittadini; qual uomo alla veduta di queste tre tavole non sentirà che la giustizia, la quale colla morte di un solo previene la morte di 50. uomini, è in un re più pregevole che la bontà? E pure questo giudizio realmente non è altro che una sensazione.» Ma chi non vede la falsità evidente di questa conclusione? Quelle tre tavole altro non posson fare che dimostrar la loro grandezza, il lor colore; in modo che, se nell'uomo non vi fosse altro che sensibilità fisica, egli affatto non potrebbe giudicare quale sia l'atto di giustizia, quale l'atto di bontà e quale di crudeltà. Il giudicare che quelli siano atti di giustizia, di clemenza e di crudeltà si appartiene alla sola facoltà spirituale dell'anima; e per conseguenza è spirituale ancora il giudizio che fa l'uomo del doversi in tal caso preferire la giustizia alla bontà. Così discorre, dice il p. Valsecchi, ogni uomo, ch'è uomo, e non è cavallo.
6. Il principio dunque di Elvezio per concludere questo punto, è che in quanto al pensare, riflettere e discorrere non vi sia in noi altro che sensibilità fisica, cioè altra facoltà, che di ricevere le impressioni degli oggetti esterni; e questa facoltà dice esser comune anche ai bruti, dai quali solamente ci distinguiamo per la differente organizzazione dei membri. Tal principio distrugge la morale, la religione e la fede. Giacché, posto che il tutto nell'uomo si riduce al solo sentire, non vi può essere in esso più ragione: e se non v'è ragione, non vi è più libertà, non vi è più né merito, né demerito e per conseguenza né premio né castigo; poiché l'uomo, operando così, opera solo per istinto necessario, come operano le bestie. E posto che nell'uomo non vi è altro che sensazione, non vi può essere più né idea di Dio, né anima spirituale, né cognizione di legge, di virtù o di vizio, operandosi ogni cosa per impulso necessario, e terminando il tutto colla morte, nella quale l'anima, se fosse materiale, come la suppone Elvezio, certamente si scioglierebbe. Ma l'inezia e la falsità di questo perverso sistema apparisce chiaramente dal vedere che in noi certamente, come di sopra abbiamo considerato, vi è una facoltà superiore che riflette, distingue e giudica sopra le idee che in noi si formano dalle impressioni esterne; le quali idee anche sono superiori a' sensi ed alla materia; ond'è che questa facoltà non è sensazione, ma è pura intelligenza; dal che si prova che l'anima è spirituale, e perciò ella opera con cognizione del bene e del male e con vera libertà, che poi la rende capace di merito e di demerito.
7. L'altro principio di Elvezio è che il piacere e l'interesse personale formano
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la morale dell'uomo. Ecco come egli parla: «Convien guastare con mano ardita l'incanto, cui è attaccata la possanza di cotesti genj malefici (intende i ministri della religione), e scoprire alle nazioni i veri principj della morale. Insegnar loro si dee (stiamo attenti ad apprendere questi gran documenti) che noi siamo insensibilmente rapiti verso il bene, apparente o reale, che il dolore e il piacere sono i soli motori dell'universo morale; e che il sentimento dell'amor di se stesso è la sola base sovra cui piantar si possano i fondamenti d'una morale vantaggiosa. I principj della religione intorno alla morale non posson convenire che ad un picciol numero di cristiani. Un filosofo che nei suoi scritti parla all'universo, dee dare alla virtù dei fondamenti sopra di cui le nazioni tutte possano lavorare, ed in conseguenza dee innalzarla sopra la base dell'interesse personale. Ad un tal principio fa d'uopo di tanto più strettamente attenersi, quanto che i motivi dell'interesse personale... bastano a formare uomini virtuosi1. Siegue poi a dire: I nomi di bene e di male creati sono originalmente per esprimere le sensazioni del piacere e del dolore fisico: ora queste sensazioni hanno eccitato nell'uomo l'amor dell'intelletto personale, e questo l'ha spinto ad unirsi con altri in società: ma perché poi in tal società sussistesse, eran necessarj i patti, de' quali dovea l'interesse essere il fondamento. Allora sono nate le azioni giuste o ingiuste, le quali prima non ci erano. Dunque la sensibilità fisica e l'interesse personale sono stati gli autori di ogni giustizia.» Così scrive nel disc. 3. cap. 4. Dunque tutto ciò che fomenta il piacere è onesto; e tutto ciò che fomenta l'interesse personale è giusto. Bella filosofia! Ma andiamo esaminando ad una ad una le proposizioni del riferito discorso, e vediamo quanto sono false e perniciose.
8. Dice per primo: Il piacere e il dolore fisico sono i soli motori dell'universo morale. Falso; perché nell'uomo oltre la parte fisica sensitiva, alla quale spetta il sentire il piacere e il dolore sensibile, vi è la parte ragionevole, con cui l'uomo conosce la verità delle cose nelle quali consiste il suo bene. Non già dunque il piacere e il dolore fisico sono i motori della morale, ma è la cognizione della verità, o sia del vero bene e del vero male.
9. Dice per secondo: I principj della religione intorno alla morale non posson convenire che ad un picciol numero di cristiani. Un filosofo che parla all'universo, dee dare alla virtù de' fondamenti, sovra cui tutte le nazioni possano egualmente battete. Suppone dunque Elvezio che la sola religion cristiana può vietare i piaceri disordinati; ma ciò è falso, perché la sola retta ragione anche è sufficiente a moderare l'uso dei piaceri che oltrepassano l'ordine della natura.
10. Dice per terzo: La sensibilità fisica e l'interesse personale sono stati gli autori d'ogni giustizia. Falso. La sola legge eterna di Dio, da cui deriva la legge naturale, è la regola della giustizia. La giustizia poi è una virtù che riguarda così il prossimo, come anche Dio e noi stessi; ond'ella ci obbliga di rendere a Dio l'onore e l'amor che si merita, al prossimo il diritto che gli spetta, ed in quanto a noi stessi ella ci vieta quel che la ragione non ci permette. Or, posto ciò, come mai la sensibilità fisica e l'interesse personale possono essere gli autori di ogni giustizia? Dica meglio Elvezio, se egli parla degli uomini, dica che la sensibilità e l'interesse personale sono gli autori nel mondo di ogni ingiustizia: se poi parla delle bestie, le quali altro non cercano che il proprio diletto, senza badare né a giustizia, né a ragione, per queste dice bene che la sensibilità e l'interesse proprio formano tutta la loro giustizia e morale.
11. Dice per quarto: Queste sensazioni del piacere e del dolore fisico hanno eccitato nell'uomo l'amor dell'interesse personale, e questo l'ha spinto ad unirsi
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con altri in società; ma perché poi tal società sussistesse, erano necessarj i patti, il fondamento dei quali doveva essere l'interesse. Allora sono nate le azioni giuste e ingiuste, che prima non vi erano. Tutto falso; perché l'uomo non è stato già ordinato alla società dall'interesse, ma dalla natura, o per meglio dire da Dio, ch'è l'autor della natura; ed egli è stato, che, dovendo gli uomini moltiplicarsi e convivere in società, affinché tra loro si conservasse la pace, ha imposto a ciascuno di rendere al prossimo ciò ch'è suo, altrimenti la società non potrebbe sussistere. Dunque non è l'interesse personale l'autore della giustizia, ma la giustizia è quella che frena l'interesse personale, acciocché la società sussista.
12. In somma Elvezio col suo sistema abolisce ogni diritto di natura, volendo che tutto questo diritto consista nell'interesse o personale o della società. Per altro a questo falso e perniciosissimo principio, come ha ben dimostrato l'avvocato d. Damiano romano nella sua dotta dissertazione apostolica dell'esistenza del diritto della natura, hanno dato voga Ugone Grozio nel trattato del diritto della guerra e della pace e Samuele Pufendorfio nella sua opera del diritto della natura e delle genti, facendo consistere il principio della legge naturale nel bene della socialità. Ma ben dice il nominato avvocato che un tal principio invece di fondare il diritto della natura, più presto se non direttamente, almeno indirettamente lo distrugge; poiché Grozio tra le altre sue prove vi mette questa: fa egli un'ipotesi, e dice che se mai non vi fosse Dio, e non avesse egli proibito agli uomini per mezzo del lume della ragione il nuocersi ingiustamente fra di loro, ognuno potrebbe impunemente togliere al suo prossimo le robe, la fama e la vita; e così non potrebbe conservarsi più la società umana. Dal che sembra voler concludere che il diritto della natura dipende dal bene della società. Ma questa prova recata da Grozio del diritto di natura apre la via, almeno indirettamente, come dissi, all'ateismo; poiché i promotori di questo empio sistema, considerando l'orrore che l'ateismo apporta seco al comune degli uomini per la necessaria conseguenza che indurrebbe, cioè che tutti i delitti più enormi non sarebbero più malvagi, né meritevoli per sé di castigo, essendoché, tolto Dio di mezzo, non vi potrebbe essere niente più né di giusto, né d'ingiusto, la quale massima distruggerebbe ogni legge, e l'ordine di tutte le cose; ciò considerando, dice, han cercato di liberar l'ateismo da un tale orrore, con far credere che, quantunque non vi fosse Iddio, ben potrebbe esservi tra gli uomini giustizia ed ingiustizia, virtù e vizio: e così l'ipotesi di Grozio l'han fatta tesi. Ma tutto è falsissimo; perché se non vi fosse Dio, non vi sarebbe più obbligazione di abbracciare il bene e di fuggire il male; perché se non vi fosse Dio, non vi sarebbero né uomini, né lume di ragione, né virtù, né vizj. Si aggiunge che il diritto di natura non solo regola l'uomo nelle azioni verso del prossimo, ma ancora in quelle che riguardano Dio e se stesso; onde, se il diritto naturale dipendesse dal solo principio della socialità, non sarebbe già peccato il prendere il nome di Dio in vano, né la bestemmia, né l'idolatria, ed impunemente potrebbero uccidersi gli uomini che fossero inutili, e tanto più se fossero perniciosi alla repubblica.
13. Il Bayle vuol farci credere che molti atei, quantunque negassero Dio, han fatta vita onesta e virtuosa. Ma per prima è comune il sentimento de' dotti che, essendo così evidenti i contrassegni dell'esistenza di Dio, non può esservi nel mondo un vero ateo, il quale sia appieno persuaso che Iddio non vi sia. Ma, dato che vi fosse un tal ateo, il suo operare non potrebbe mai dirsi moralmente buono, perché tutta la bontà morale delle azioni umane dipende dall'uniformarsi alle leggi divine; onde per colui che credesse non esservi Dio, non vi sarebbero più leggi, né obbligazioni e per conseguenza neppure azioni
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moralmente oneste o viziose.
14. Il Pufendorfio poi si vale dello stesso principio di Grozio a provare il diritto di natura, ma sotto di un altro riflesso, e dice che il diritto naturale fu dato agli uomini da Dio per tenere a freno le diverse inclinazioni che hanno alcuni contrarie all'umana tranquillità. Ma ciò niente prova l'esistenza del diritto di natura, perché lo sconcerto delle diverse inclinazioni che posson disturbare la tranquillità della società umana, non fu già nell'uomo nel suo stato d'innocenza, giacché allora egli fu libero da ogni concupiscenza disordinata; all'incontro la legge naturale sin da quel primo stato fu manifestata all'uomo, e solamente per lo peccato di poi commesso egli si rendé proclive al male.
15. Del resto non v'ha dubbio che, volendo Iddio che il genere umano si moltiplicasse, e per conseguenza gli uomini vivessero in società fra di loro, ha costituite ben anche le leggi naturali, acciocché l'uomo potesse vivere in pace cogli altri. Ma il diritto di natura non solo tende a conservare il bene della società, ma anche a regolare l'uomo, come si è detto, in tutte le sue azioni così verso il prossimo, come verso Dio e verso se stesso.
16. Quale dunque è il vero principio, per cui si prova l'esistenza del diritto di natura? Egli si prova dal fine per cui da Dio è stato creato l'uomo. Iddio ha data all'uomo un'anima per sua natura immortale, mentre, essendo l'anima puro spirito, non ha parti soggette alla corruzione; essendo dunque l'anima immortale ed eterna, non potea darle Iddio per fine un bene temporale e caduco, quali sono i beni di questa terra, ma dovea darle un fine che parimente fosse eterno, qual'è l'eterna beatitudine. All'incontro, avendo Iddio dotato l'uomo di ragione e libertà, conveniva alla sua gloria che quest'uomo prima di conseguire un tal fine, l'onorasse con ubbidire alle sue leggi, che gli servissero di norma per regolare le sue azioni eleggendo il bene, e fuggendo il male; e queste leggi appunto sono quelle che vengono manifestate all'uomo per mezzo del lume della ragione, e nelle quali consiste il diritto della natura.
17. Ma ritorniamo al nostro Elvezio. Egli dice che la fisica sensibilità e l'interesse personale sono gli autori d'ogni giustizia. Ciò farebbe che fosse giusta ogni cosa che apporta all'uomo sensibil piacere, e che giova al suo proprio interesse. Una tale giustizia sarebbe contraria alla giustizia e contraria alla natura, ed invece di conservare distruggerebbe la società. Il dir poi che il piacere e l'interesse personale hanno spinto l'uomo a vivere in società e così si sono introdotti i patti, coi quali la società sussiste, ciò va ben detto, sempreché si osservino i patti e la giustizia ne' patti; ma, posto ciò, dobbiam dire che non dall'interesse personale, ma dall'osservanza della giustizia e dei patti si conserva la società. All'incontro se l'interesse personale fosse l'autore della giustizia, non vi sarebbe più giustizia nel mondo, perché ognuno attenderebbe a spogliare gli altri per vantaggiare il proprio interesse, e così resterebbe distrutta la società. Quella società, scrisse Cicerone, quae propter utilitatem constituitur (cioè per l'utilità comune), utilitate alia (cioè per l'utilità particolare) convellitur1. Sicché questi moderni filosofi, che scrivono per giovare alla società e al bene comune, sono della società e del bene comune i maggiori nemici; poiché tolgono di mezzo il diritto di natura ed ogni giustizia, preferendo a tutto il piacere e il proprio interesse.
18. Ma udiamo un'altra bella lode che dà Elvezio all'interesse proprio: L'interesse, dice, è l'unico giudice della probità e del merito degli uomini. Se si perde l'interesse di veduta, non vi è più alcuna idea pura della probità; tutta la morale è sottomessa alla legge dell'interesse, come tutta la fisica è sottomessa alla legge del moto2. In questa maniera, dice l'arcivescovo di Parigi nel
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suo Mandamento, non vi sarà più distinzione fondata sulla legge di Dio tra il giusto e l'ingiusto: non vi sarà più obbligazion naturale di praticare i doveri, e di evitare le falsità. Dice Elvezio che tutte le leggi dipendono dall'unione fatta nella società e dalla volontà dei primi che l'hanno formata. Dunque ripiglia l'arcivescovo, se alcuno commette qualche ingiustizia, sarà solamente soggetto alle pene imposte dai legislatori, ma non potrà aver alcun rimorso o timore del giudizio divino? In tal modo, dice, i motivi dell'onestà e della carità, secondo l'autore dello Spirito, non vagliono più ad intraprendere gli atti di virtù; e l'uomo non dee attendere ad altro che a vedere se nelle sue azioni vi trova l'interesse proprio o del pubblico. Se mai fosse vero che l'interesse è l'unico giudice della probità e del merito, non vi sarebbe più distinzione tra il bene ed il male. Un tal sistema, esclama l'arcivescovo, apre la porta a tutti i mali, mentre sopprime la voce della coscienza, e distrugge tutte le leggi divine ed umane. Quandoché è certo quel che dice s. Gio. Grisostomo, che i primi legislatori non per altro hanno stabilite le leggi, che per il lume della coscienza lor comunicato da Dio.
19. Ma dopo aver esaminati i riferiti due principali detestabili principj di Elvezio, veniamo ora ad osservare alcuni altri errori molto notabili sparsi nell'opera contro la religione, la libertà e la morale. Contro la religione, parlando egli della materia e della formazione di questo mondo, scrive così: «Iddio nell'universo fisico non ha posto che un solo principio. Egli ha detto alla materia: Io ti doto di forza. Ed ecco che tosto gli elementi sottomessi alle leggi del moto, ma erranti e confusi ne' deserti dello spazio, hanno formate mille unioni mostruose, mille caos diversi, finché si sono posti finalmente in equilibrio ed in quell'ordine fisico, in cui si suppone disposto al presente l'universo.» Ecco in poche parole molti errori. Per 1. con ciò l'autore adombra il sistema di Epicuro del mondo formato dal casuale accozzamento degli atomi. Per 2. ciò che dice è contro la rivelazione, la quale insegna che Dio con un fiat formò l'universo; ma Elvezio vuole che gli elementi, dopo mille unioni mostruose han formato il mondo. Per 3. , dicendo che Iddio ha detto alla materia: Io ti doto di forza, egli suppone, o almeno mette in dubbio che la materia non sia stata creata da Dio, ma sia eterna e da sé; mentre dice solo che Dio l'ha dotata di forza, ma non dice che l'ha creata. Per 4. dice che gli elementi sottomessi alle leggi del moto, dopo mille unioni mostruose, finalmente si son posti in equilibrio. Ma se gli elementi sono stati sottomessi alle leggi del moto, come poi han potuto formare mille unioni mostruose? Le mostruosità sono contro le leggi; poiché le leggi importano regola ed ordine. Per 5. come va che la materia mossa da Dio, da sé poi si è posta in equilibrio? Se ella non era da sé capace di muoversi, tanto meno potea da sé mettersi in equilibrio; mentre è più il mettersi in equilibrio, che il semplicemente muoversi. Dunque da Dio non è pervenuto che il semplice moto, e dalla materia il porsi in equilibrio?
20. Di più dice: Il caso regna in questo mondo più di quello che si pensa. Ciò è errore contro la provvidenza, della quale parlammo già nella seconda parte al capo XVII., ove dimostrammo che ogni cosa è disposta da Dio, perché in ogni cosa osservasi un grande ordine, che non può venire dal caso; e quelle stesse cose che a noi sembrano disordinate, quelle maggiormente conservano quest'ordine, secondo i retti giudizj divini che a noi sono occulti.
21. Dice di più: Non vi è evidenza naturale, ma tutto è probabilità. Dunque non è certo che vi sia Dio, che vi sieno le anime, che elle sieno spirituali, e che non sieno mortali, e che vi sia premio e castigo nella vita futura: ma tutte sono mere probabilità? Ma erra, perché tutte queste cose ben sono, anche
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precisa la fede, naturalmente evidenti, come abbiam dimostrato nella prima e seconda parte. Dice ancora: Come possiamo assicurarci che tutto l'universo non sia un puro fenomeno? Ecco un puro scetticismo, al quale con queste parole l'autore si riduce.
22. Di più dice: La speranza e il timore delle pene e de' piaceri temporali sono tanto proprie a formare gli uomini virtuosi, quanto le pene e i piaceri eterni. Ecco l'indifferenza che dimostra l'autore intorno alla religione. Si notino le parole: sono tanto proprie: dal che si vede che non solo parla della sperienza pratica di molti uomini perversi che temono più le pene temporali, che le eterne, ma parla della proprietà delle pene temporali, e le eguaglia alla proprietà delle pene eterne, come se le une e le altre fossero dello stesso peso. In ciò dimostra il poco conto che egli fa dell'eterno.
23. Di più, parlando singolarmente della religione, scrive così: Un istorico profondo (si noti profondo) dicea che se si mettesse in due coppe d'una bilancia il bene e il male che le religioni han fatto, il male prepondererebbe al bene. Ecco dunque secondo questa massima esser meglio che non vi sia religione, giacché fa più male che bene. Meglio avrebbe fatto questo profondo istorico ad esser veridico, e non esser tanto profondo; poiché il troppo profondarsi l'ha fatto cadere in un profondo d'empietà e falsità: mentre sappiamo dalle istorie che anche le false religioni han giovato a frenare i vizj de' popoli; ed i filosofi gentili, benché occultamente riprovassero le superstizioni e le favole idolatriche, pure diceano doversi quelle conservare, per tenere i popoli a freno.
24. Di più dice: Egli è utile di tutto pensare e tutto dire, ancorché si avanzino principj funesti alla religione, ai cittadini ed ai governanti. Ecco dunque con questa bella massima distrutta nel mondo la religione, la società e la pace pubblica. Egli poi vuol sanare la barbara proposizione fatta dall'istorico profondo con soggiungere: Cessano poi (i principj funesti alla religione ecc.) da che vien permesso di contraddirli. Ma non la sana, perché col solo permesso di contraddire quei principj funesti non si toglie il danno che cagiona il perverso principio che sia utile di tutto pensare e tutto dire. La massima per altro è uniforme al sistema di Elvezio, che il piacere e l'interesse proprio sono gli autori d'ogni giustizia e i giudici d'ogni probità e merito. Del resto l'autore secondo la ritrattazione da lui fatta non ha stimato utile di tutto pensare e tutto dire, ma l'ha riprovato e condannato, né si è quietato di animo colla sola contraddizione fatta al suo libro, ma, come dice, è rimasto rammaricato di averlo scritto, ed ha desiderato di vederlo soppresso per il danno che ha causato, o può seguire a causare.
25. Contro poi la libertà dell'uomo ha scritto così: «Sembra che Dio abbia detto all'uomo: io ti doto di sensibilità: per mezzo di essa, cieco strumento de' miei voleri, incapace di conoscere la profondità delle mie vedute, tu dei senza saperlo compiere i miei disegni. Io ti pongo sotto la guardia del piacere e del dolore; l'uno e l'altro veglieranno a' tuoi pensieri ed alle tue azioni; genereranno le tue passioni, ecciteranno le tue avversioni, le tue amicizie, le tue tenerezze, i tuoi furori; accenderanno i tuoi desiderj, i tuoi timori, le tue speranze; ti sveleranno delle verità, ti precipiteranno in errori; e dopo averti fatti partorire mille sconcerti e diversi sistemi di morale e di legislazione, ti scopriranno un giorno dei principj semplici, allo sviluppo de' quali è attaccato l'ordine ed il bene del mondo morale1».
26. Questi sentimenti di Elvezio son già conseguenze de' suoi due principj di sopra mentovati, cioè che in noi non v'è altro che sensibilità fisica, che ci rende simili ai bruti, operando per istinto necessario, come operano le bestie o i matti o i fanciulli non ancora giunti all'uso della ragione, contro de' quali (sono tutte sue parole) inetta cosa
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sarebbe l'adirarsi, essendo eglino più meritevoli di compassione, che di sdegno, come soggiunge appresso. E che il piacere e l'interesse personale (ch'è l'altro principio) formano la morale dell'uomo, secondo la quale egli dee operare. Ma riflettiamo specialmente alle prime parole del riferito passo, che sono: Sembra che Dio abbia detto all'uomo: Io ti doto della sensibilità; per mezzo di essa, cieco strumento de' miei voleri, incapace di conoscere la profondità delle mie vedute, tu dei, senza saperlo, compiere i miei disegni. Dunque Iddio non ha data all'uomo la ragione, ma la sola sensibilità, per mezzo di cui quanto opera l'uomo, lo fa, eseguendo i voleri di Dio, privo di libertà? Sicché per conseguenza quel che l'uomo fa contro la ragione, lo fa necessariamente, compiendo allora i disegni di Dio, il quale così vuole che faccia? Tra gli altri errori vi è qui l'eresia di Calvino, che Dio sia l'autore del peccato. Ma tutto è falso, perché l'uomo è dotato da Dio non solo di sensibilità come il bruto, ma anche di ragione, la quale, essendo superiore al senso, frena e modera il senso. Non è vero poi che l'uomo opera qual macchina, siccome lo descrive Elvezio, ma opera come agente libero con piena libertà di eleggere il bene o il male come vuole.
27. Inoltre dice in altro luogo, espressamente parlando contro la libertà: Se si desse libertà dell'anima, si darebbe effetto senza cagione e volontà senza motivo. Egli dunque vuol dire che la volontà siegue quel che le rappresenta l'intelletto; e da ciò ne ricava l'empia conseguenza, che l'uomo non ha libertà nel suo operare. Ma erra, perché l'uomo è stato dotato da Dio di ragione e di libertà: perché è dotato di ragione, la sua volontà seguita ciò che gli propone la ragione, o sia retta o sia erronea, di bene vero o apparente: ma perché poi la volontà è libera, ella seguita la ragione, non necessariamente, ma liberamente, e solo perché vuole seguirla: tanto è vero, che spesso la volontà lascia di seguire quel che le propone la retta ragione, e s'appiglia al peggio, come scrisse Ovidio: Video meliora, proboque, deteriora sequor etc. E così gli uomini peccano, e si fan rei dell'inferno, perché si abusano della loro libertà, volendo seguire quel che alla retta ragione si oppone.
28. Contro poi la morale, dice: Essendo l'uomo di sua natura solamente sensibile ai piaceri de' sensi, questi piaceri per conseguenza sono l'unico oggetto de' suoi desiderj. Dunque secondo Elvezio l'uomo solamente è sensibile a' piaceri de' sensi? Ed i piaceri sono l'unico oggetto de' suoi desiderj? Dunque l'uomo non è più che un bruto, mentre non ha altro che senso, né altro desiderio che de' piaceri sensuali, e per conseguenza non ha né spirito, né ragione? Ma riflette l'arcivescovo di Parigi che ciò non è giunto a dirlo neppure Epicuro, benché dicesse che l'uomo non è altro che materia. Poiché Epicuro medesimo disse che la felicità dell'uomo consiste nel vivere giusto ed onesto. Eccolo presso Cicerone, che scrive: Clamat Epicurus non posse iucunde vivi, nisi sapienter, honeste, iusteque vivatur1. Ma il nostro filosofo si oppone ad Epicuro, e vuole che la felicità dell'uomo consista nei piaceri de' sensi. Vera filosofia da bruto.
29. Di più dice in altro luogo: «La ragione ci dirige nelle azioni importanti della vita, io lo vedo: ma i dettagli di quella ci abbandonano a' proprj gusti e passioni. Chi consultasse tutto sopra la ragione, sarebbe continuamente occupato a calcolare ciò ch'egli dee fare, e non farebbe mai niente». Dunque i dettagli della ragione ci abbandonano a' proprj gusti e passioni? No; ciò corre secondo i principj di Elvezio, che il piacere e l'interesse proprio sono i motori della morale, gli autori d'ogni giustizia ed i giudici della probità e del merito. Ma secondo i principj della religione e della natura, la ragione non ci abbandona ai gusti ed alle passioni, ma ella ci detta di domarle quando conviene. Siegue a dire nello stesso
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luogo: Chi consultasse tutto sopra la ragione, sarebbe continuamente occupato a calcolare ciò che egli dee fare, e non farebbe mai niente. Ma la sperienza smentisce Elvezio: perché nel mondo vi son tanti uomini probi che non trovano questa impossibilità di ben operar supposta da Elvezio nel dover calcolare tutto ciò che fanno: eglino operano rettamente e liberamente, regolandosi sempre con quel che detta la ragione.
30. Trattando poi l'autore dell'educazione de' giovani e delle prime istruzioni che loro debbon darsi, egli trova gran vantaggi a non opporsi alle passioni di questa prima età. E chiama i pedanti e predicatori gente senza spirito, che raccomandano continuamente la moderazione de' desiderj. Dice inoltre che colui il quale avesse a vincere i suoi difetti per esser virtuoso, egli sarebbe necessariamente un uomo poco onesto. Ed in sequela di ciò loda i temerarj che nel mondo si sono segnalati in attentati enormi, come gente di spirito. In somma le massime di questo autore non sono che d'un incredulo, il quale vuol vedere sconvolte e distrutte tutte le regole dell'onestà e della religione, la quale non loda ma vitupera i viziosi, e, parlando specialmente de' giovani, gli esorta ad avvezzarsi ad osservar la divina legge sin di loro primi anni: Bonum est viro, cum portaverit iugum ab adolescentia sua1: ed all'incontro dice: Ossa eius implebuntur vitiis adolescentiae eius, et cum eo in pulvere dormient2, ammaestrandoci che quando un giovane si abbandona a' vizj, gli restano quelli intrinsecati quasi nell'ossa, talmente ch'egli se li porterà seco sino alla sepoltura.
31. Dice di più: Che importa al pubblico la probità d'un particolare? Questa probità non gli è di quasi niuna utilità. Dunque solamente i malvagi sono utili al pubblico? Ma qual comunità mai potrà esser buona ed utile, se i membri che la formano sono malvagi?
32. In conclusione l'autor dello Spirito può vantarsi di aver avuto lo spirito (come dissi da principio) di sollevarsi sopra tutti gli scrittori più empj, che sinora vi sono stati, antichi e moderni; mentr'egli ha cercato di riempire il suo libro delle massime più empie e perniciose che sconvolgono e distruggono la fede, la religione, l'onestà, la società, la ragione, e per così dire tutta l'umanità. È vero ch'egli parla spesso problematicamente, ma poi passa dal problema all'asserzione, spacciando i suoi errori, come massime da tenersi circa la credenza de' dogmi ed i costumi. Già questo libro, come avvisammo, è stato condannato in Francia ed in Roma. Si desidera dai buoni che sia specialmente condannato anche nel nostro regno dal nostro religiosissimo monarca regnante, affin di evitare il gran danno che può cagionare ne' giovani poco intesi di tali materie, o pure infermi di spirito che lo leggessero; giacché di questa infame opera più copie per nostra disgrazia in Napoli ne son capitate e sparse.
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2 Discorso I. al c. 1.
1 Disc. I. c. 1.
1 Disc. 2. c. 24.
1 L. 1. de Leg. n. 15.
2 Disc. 3. c. 4.
1 Disc. 3. c. 9.
1 De Finib. bon. et mal. l. 1. n. 18.
1 Thren. 3. 27.
2 Iob. 20. 11.