Libro quarto
IMPERIALISMO ROMANO E POLITEISMO
24. È opportuno esaminare le loro spiegazioni. Ma si deve proprio credere, domandano i pagani, che i nostri vecchi fossero stupidi al punto da non sapere che questi erano doni divini e non dèi? Sapevano che tali favori sono accordati soltanto dalla munificenza di un dio. Ma quando non avevano fra mano il nome degli dèi, denominavano gli dèi dal nome delle cose che, a loro giudizio, erano accordate dagli dèi stessi. Pertanto aggiungevano dei suffissi alle parole, come da bellum (guerra) Bellona e non Bello, dalle cune Cunina e non Cuna, da segetes (messi) Segezia e non Segete, dai pomi Pomona e non Pomo, dai bovi Bovona e non Bove. In certi casi sono stati denominati come le cose senza la flessione della parola, come Pecunia (ricchezza) è stata chiamata dea perché dà la ricchezza e non perché essa stessa sia stata considerata dea. E così Virtù perché dà la virtù, Onore perché dà l'onore, Concordia perché dà la concordia, Vittoria perché dà la vittoria. Allo stesso modo, dicono i pagani, nel concetto della dea Felicità non si volge l'attenzione a lei che viene data ma all'essere divino da cui è data la felicità.
25. Datami questa spiegazione, forse potrò convincere più facilmente del mio assunto quei pagani che non hanno il cuore troppo indurito. L'umana debolezza ha compreso fin d'allora che la felicità può essere data soltanto da un dio e lo hanno compreso anche gli uomini che adoravano molti dèi, fra cui il loro stesso re Giove. Ma poiché ignoravano il nome di colui che desse la felicità, lo vollero indicare col nome della cosa stessa che, come capivano, era data da lui. Dunque hanno indicato abbastanza chiaramente che la felicità non poteva esser data neanche da Giove che già adoravano ma certamente da colui che ritenevano di dover adorare col nome della stessa felicità. Dunque essi hanno creduto, e lo ribadisco, che la felicità è data da un Dio che non conoscevano. Lui si cerchi dunque, lui si adori e basta. Si rifiuti il chiasso di tanti demoni. Non basti questo Dio per colui al quale non basta il suo dono. Non basti, ripeto, all'adorazione il Dio datore della felicità, per colui al quale, quanto al conseguimento, non basta la felicità stessa. Ma colui a cui basta, dato che l'uomo non ha altro da desiderare, si ponga al servizio del Dio datore della felicità. Non è quello che chiamano Giove. Se lo riconoscessero come datore della felicità, non ne cercherebbero, in vista della felicità, un altro o un'altra da cui fosse data la felicità e si guarderebbero dall'adorare un Giove con tante magagne. Si dice di lui che fosse adultero con le mogli degli altri e inverecondo amatore e rapitore di un bel giovane.
26. Ma Omero, dice Cicerone, inventava questi fatti e attribuiva azioni umane agli dèi. Preferirei che avesse attribuito le divine a noi 51. Giustamente dispiacque a una persona dabbene un poeta inventore di delitti divini. Perché dunque gli spettacoli teatrali, in cui questi delitti si recitano, si cantano, si rappresentano e si esibiscono in onore degli dèi, sono assegnati dai più colti alla religione? A questo punto Cicerone protesti non contro le invenzioni dei poeti ma contro le istituzioni degli antenati. Ma anche essi protesterebbero: "Che abbiamo fatto? Gli dèi stessi hanno insistito che si rappresentassero gli spettacoli in loro onore, hanno dato comandi atroci, hanno preannunciato sventura se non si eseguivano, hanno severamente punito perché era stata trascurata qualche cosa e hanno mostrato di placarsi perché fu eseguito ciò che era stato trascurato". Fra i loro interventi e fatti meravigliosi si ricorda l'episodio che sto per narrare. Tito Latinio, campagnolo romano e padre di famiglia, era stato avvertito in sogno di riferire al senato che ricominciassero gli spettacoli romani. Era insomma dispiaciuto agli dèi, che volevano esilararsi con le rappresentazioni, il ferale comando contro un delinquente che proprio il primo giorno degli spettacoli era stato condotto al supplizio alla presenza del popolo. E poiché il tizio che era stato avvertito in sogno non ebbe il coraggio il giorno seguente di eseguire il comando, la notte appresso l'ordine si ripeté con maggiore severità. Non obbedì e perdette un figlio. La terza notte fu detto al meschino che gli sovrastava una pena maggiore se non obbediva. E poiché anche dopo questi fatti non ne ebbe il coraggio, fu colpito da un male atroce e orribile. Allora dietro consiglio degli amici fu portato al senato in lettiga, dopo aver riferito l'affare ai magistrati. Esposto il sogno, riacquistò immediatamente la salute e guarito tornò a casa con i propri piedi. Trasecolato da un prodigio così grande il senato, con sovvenzionamento quattro volte maggiore, stabilì di far ricominciare gli spettacoli 52. Chi è sano di mente può intendere che gli uomini soggetti a maligni demoni, dal cui dominio ci libera soltanto la grazia di Dio mediante il nostro Signore Gesù Cristo 53, sono costretti con la violenza ad offrire a simili dèi spettacoli che con un sano intendimento potevano essere giudicati immorali. In quegli spettacoli organizzati dal senato dietro istigazione degli dèi si rappresentavano i delitti delle divinità inventati dalla poesia. In quegli spettacoli attori dissoluti presentavano col canto e con l'azione Giove come corruttore del pudore ed erano acclamati. Se era un'invenzione, Giove si sarebbe dovuto sdegnare; se invece prendeva gusto dei propri delitti anche se inventati, perché adorarlo quando si serviva al diavolo? E proprio con questi mezzi egli, più abietto di qualsiasi romano che disapprovava quei drammi, avrebbe fondato, accresciuto, difeso il dominio di Roma? Doveva dare la felicità proprio egli che era adorato con tanta infelicità e se non era adorato in quel modo, si incolleriva per maggiore infelicità?
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