Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Siamo giunti all'ultimo capitolo della seconda parte. Dalla prossima settimana inizieremo la lettura della Terza Parte. Nel capitolo di oggi si parla del premio o della condanna eterna:
Verità della Fede
di Sant'Alfonso Maria de' Liguori
PARTE SECONDA
CONTRO I DEISTI CHE NEGANO LA RELIGIONE RIVELATA
CAP. XIX.
Dell'eternità del premio e della pena della vita futura.
1. Dicono gl'increduli: ma se vi è premio pei buoni e castigo per gli empj nell'altra vita, qual ragione vi è che questo premio o castigo debba essere eterno? Qual ragione vi è? Eccola in brevi parole: Iddio premia l'amore col paradiso: se in paradiso l'amor dei beati dura in eterno, è giusto che eterna anche sia la loro mercede. All'incontro Iddio punisce il peccato coll'inferno: se nell'inferno dura in eterno il peccato de' dannati, è giusto che eterna ancora sia la loro pena. Si aggiunge a questa l'altra ragione del natural desiderio che Dio stesso infonde in ogni uomo, della perfetta felicità; la qual ragione non solo prova l'immortalità dell'anima, come dicemmo al cap. antec. n. 13. , ma prova ancora l'eternità. Poiché se la felicità dell'anima non fosse eterna, non solamente sarebbe imperfetta, ma col pensiero di dovere o poter finire la stessa felicità si renderebbe amara e tormentosa. Del resto basta a noi per accertarci di tal verità la parola divina, la quale ci insegna a credere l'eterna felicità degli uni, e l'eterna infelicità degli altri. Onde nel giorno finale de' secoli agli eletti sarà detto dal divino giudice: Venite benedicti, possidete regnum etc. (s'intende già di quel regno cuius non erit finis), ed a' reprobi: Discedite a me maledicti in ignem aeternum1.
2. Né vale a dire (come dicon coloro che voglion liberare i reprobi dalla pena eterna) che il fuoco sarà eterno, ma non già la loro pena. Poiché si risponde per prima, che se questo fuoco è stato già creato da Dio non per altro che per castigo dei malfattori, come dicono le scritture: Ignis succensus est in furore meo2. Si quis in me non manserit... colligent eum, et in ignem mittent3; che serviva a crearlo eterno se non avesse avuto ad essere un eterno stromento di castigare i peccatori? Si risponde per secondo, che se dal citato testo non abbiamo espresso che la pena sia eterna, l'abbiamo non però da molti altri testi. Eccoli: Et ibunt hi in supplicium aeternum; iusti autem in vitam aeternam4. Sicché siccome ai giusti è data in premio la vita eterna, così a' reprobi in pena il supplicio eterno. Qui poenas dabunt in interitu aeternas a facie Domini5. Vermis eorum non morietur6. Dabit enim ignem et vermes in carnes eorum, ut urantur, et sentiant usque in sempiternum7. In stagnum ignis et sulphuris: ubi... cruciabuntur die ac nocte in secula seculorum8. Quaerent homines mortem, et non invenient eam: et desiderabunt mori, et fugiet mors ab eis9. Ciò fu anche dichiarato dal sinodo V. sotto Vigilio papa, come riferiscono Evagrio, Niceforo, Teofane, Fozio ed altri appresso Tournely10, dove fu condannato Origene, che disse: Omnium impiorum hominum et etiam daemonum tormenta finem habitura. Lo stesso dichiararono il sinodo VI. act. 18. e VII. act. 1. E il lateranese IV. disse:Reprobos in poenam aeternam ituros. E lo stesso il tridentino11.
3. Ma quale giustizia è questa, dice un moderno incredulo, dare una pena eterna ad un peccato momentaneo? Rispondiamo che la divina giustizia ben esige questo castigo eterno per l'offesa fatta a Dio, per più ragioni evidenti. La prima, perché, essendo ella un delitto di malizia in certo modo infinita (come dice s. Tommaso12) a riguardo del disprezzo che si fa ad una infinita maestà, se gli dovrebbe una pena infinita; ma perché la creatura non è capace d'una pena infinita nell'intensione, giustamente se le dà una pena infinita nell'estensione. E dove mai, dice s. Agostino13 rispondendo direttamente all'opposizione de' contrarj, dove sta questa legge che il tempo della pena abbia ad essere eguale al tempo del peccato? Anche le leggi umane danno castighi perpetui per tutta la vita a delitti momentanei.
4. La seconda ragione è che siccome l'anima è la vita del corpo, così la grazia è la vita dell'anima; e perciò il peccato grave si chiama mortale, perché priva l'anima della vita della grazia. Or siccome quando alcuno uccide l'uomo, la morte del corpo è irreparabile senza un miracolo della divina mano; così quando un peccatore uccide l'anima sua col peccato, è parimente irreparabile la morte dell'anima. È vero che in questa vita suole Iddio per sua misericordia col perdono restituir la vita della sua grazia a molte anime che l'hanno perduta; ma ciò lo fa solamente in questa vita, non già nell'altra. Mentr'è legge stabilita dalla sua provvidenza d'usar misericordia e perdonare solo nella vita presente temporale, non già nell'eterna.
5. La terza ragione è che Dio in questa vita perdona al peccatore, ma al peccatore che si pente della sua colpa; altrimenti neppure Dio potrebbe perdonargli. Ma il peccatore, morendo in peccato, è abbandonato dalla grazia; anzi la sua volontà resta talmente ostinata nel peccato e nell'odio di Dio, che, quantunque Dio volesse perdonargli, egli rifiuterebbe il perdono e la sua grazia. Il dannato rifiuta ogni rimedio al suo male, e perciò è disperata la sua cura. Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari1? Sicché, essendo eterna l'anima (come si è provato di sopra) ed essendo eterno il suo delitto, eterna dev'esser anche la sua pena, come dice s. Marco2: Non habebit remissionem in aeternum, sed reus erit aeterni delicti.
6. Di più, il peccatore da sé non può placare Dio, né il suo pentimento può dare degna soddisfazione alla divina giustizia offesa. In tanto gli è perdonato da Dio in questa vita, in quanto se gli applicano i meriti di Gesù Cristo, di cui in questa vita è capace, e per cui la divina giustizia vien soddisfatta. Ma nell'inferno, dove nulla est redemptio, non può il dannato placare più Dio, perché non è più capace dell'applicazione de' meriti del Redentore; onde resta incapace di perdono.
7. Dice l'autore della lettera sopra la religione essenziale dell'uomo, che Dio proibisce il peccato, non già per l'offesa che egli ne riceve, ma per il danno che ne avviene al peccatore nell'altra vita; benché, soggiunge, questo danno poco durerà: perché non avendo avuto il Signore altro fine nel creare l'uomo, che di renderlo felice, dovrà certamente liberar dalle pene tutti i dannati per dar esecuzione al fine per cui gli ha creati. Allo stesso sentimento si riduce un altro autore della stessa farina, l'autore de' principj della filosofia morale, dove dice che la pena dei peccatori nell'altra vita sarà il dolore d'aver violate le leggi; ma questo dolore d'esser uscito dalla via della felicità, lo forzerà a rientrarvi. Da ciò si vede quanto vanno errati coloro che si scostano dalle massime della fede. È vero che Iddio ha creato l'uomo per renderlo felice, ma colla condizione ch'egli cooperi a conseguire il suo fine. Ma se l'uomo disprezza il suo fine, disprezzando Dio, il Signore non può non chiamarsene offeso, e non condannar chi l'offende; ed allora, se non resta glorificato colla manifestazione della sua misericordia, resterà glorificato colla manifestazione della sua giustizia.
8. Oppongono i sociniani per 1. che la parola aeternum non sempre significa eternità nelle divine scritture, ma spesso significa una lunga durazione, e lo provano da diversi testi. Si risponde che la parola aeternum di sua natura significa certamente senza fine; ed è regola certa de' teologi, che le divine scritture debbono interpretarsi nel lor senso proprio e naturale, sempreché le circostanze del sermone non obbligano ad altra interpretazione; il che non è nel nostro caso, ma dee concludersi tutto l'opposto da ciò che di sopra si è detto. Ma dicono che dalla stessa scrittura si ha che l'inferno non è eterno, dicendo Davide: Misereator et misericors Dominus: longanimis et multum misericors. Non in perpetuum irascetur, neque in aeternum comminabitur3. Ma ciò s'intende per coloro che col pentimento si convertono a Dio; perché Dio non perdona, né può perdonare al peccatore, se quegli a lui non si converte: Convertimini ad me, ait Dominus exercituum, et convertar ad vos4. E s'intende nella presente vita, perché nell'altra vita l'uomo che muore in peccato non è più atto a pentirsi di quello, né vi è chi da quello più lo redima: Non est qui redimat, neque qui salvum faciat5. Sicché per l'empio che muore da empio non v'è più speranza di salute: Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes6.
9. Oppongono per 2. il passo di s. Paolo: Conclusit enim Deus omnia in incredulitate, ut omnium misereatur7. Onde vogliono ricavarne che la pena de' dannati non sarà eterna. Ma spiega s. Agostino intendersi il suddetto testo non già della misericordia da usarsi ai dannati, ma che Iddio siccome ha usata misericordia ai gentili, così l'userà agli ebrei in chiamarli alla fede.
10. Oppongono per 3. che conviene bensì a Dio salvare gli uomini in eterno, mentre a questo fine gli ha creati: ma per la stessa ragione non conviene alla divina bontà il dannarli in eterno. Si risponde con s. Tommaso1, che sebbene Dio ha creati gli uomini per l'eterna felicità, nondimeno ha voluto che eglino l'acquistassero, non solamente colla forza della sua grazia ma ancora colla loro cooperazione. Quindi è che se gli uomini non vogliono cooperare alla loro salute, e si dannano, tutto avviene per loro colpa. Iddio poi giustamente permette i peccati così per conservare il buon ordine dell'universo, come ancora affinché maggiormente risplenda la fedeltà de' giusti, come dice l'apostolo2: Oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis.
11. Oppongono per 4. che questa pena eterna de' dannati consisterà non già nel patire eternamente, ma nell'essere annichilati da Dio, dopo qualche proporzionata pena temporale; e fondano questa falsità sulle scritture, dove si dice che i reprobi saran perduti, e moriranno: Nullum est operimentum perditioni3. Vasa irae, apta in interitum4. Queste voci, dicono, perditio, interitus, significano consumazione e fine. Ma si risponde che lo stesso apostolo dichiara che intanto i reprobi si chiamano morti, in quanto son privati per sempre della vista di Dio, e condannati alle pene eterne: Poenas dabunt in interitu aeternas a facie Domini5.
12. Ma, dice l'empio Bayle, le pene si costituiscono per l'emenda de' rei, o pure per l'esempio degli altri. Onde a che serve il tormentare in eterno i dannati dopo che non vi sarà più speranza né della loro emenda, né dell'esempio per gli altri? Si risponde per 1. che alcune pene son medicinali, altre vendicative in castigo della colpa. Per 2. la suddetta regola corre ne' giudizj che fanno gli uomini, non già in quelli di Dio: il giudice umano nelle pene riguarda solo il bene della repubblica, e perciò nel castigare non altro intende che l'emenda de' rei, o l'esempio degli altri; ma Dio in punire i dannati, non solo riguarda l'emenda e l'esempio, ma principalmente intende la manifestazione de' suoi attributi. Onde le pene eterne de' reprobi, quantunque nella fine de' secoli non saranno utili né per essi, né per gli altri, saranno bensì utili per far risplendere l'ordine della divina giustizia.
13. Siccome poi eterno è l'inferno che Dio minaccia a' malvagi, così anche eterno è il paradiso che promette a' giusti. Basta ad accertarci di ciò il saper la sentenza che Gesù Cristo pronunzierà a lor favore nel giudizio finale:Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi6. Già sappiamo che il regno di Gesù Cristo non ha fine, come disse s. Gabriele alla B. V. Maria: Et regni eius non erit finis7. E questa è la promessa che fa il Signore a chi lo riceve nella santa eucaristia: Qui manducat meam carnem... habet vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die8; gli promette di farlo risorgere alla vita eterna.
14. Con tal promessa egli ci esorta a soffrire in pace le tribolazioni della vita presente, facendoci intendere che nell'altra vita, per coloro che si salvano, non v'è più morte: Et mors ultra non erit, neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra9. Se nel cielo non vi sarà più morte, dunque la vita sarà eterna. Così anche ci anima a disprezzare i beni di questa terra, ed a procurarci i tesori del cielo, che non mai mancheranno né ci potranno mai esser tolti: Thesaurizate autem vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo neque tinea demolitur; et ubi fures non effodiunt nec furantur10. Così finalmente ci assicura l'apostolo che i brevi e leggieri travagli di questa vita ci otterranno una gloria che non avrà più fine: Quod in praesenti est momentaneum et leve tribulationis nostrae, supra modum in sublimitate aeternum gloriae pondus operatur in nobis1. In somma il beato in cielo sarà fatto partecipe della stessa beatitudine di Dio: Euge, serve bone et fidelis... intra in gaudium Domini tui2. Onde come la felicità di Dio sarà eterna, così ancora eterna sarà la gloria de' beati, i quali loderanno il Signore ne' secoli de' secoli, come scrive Davide3.
15. Dunque se ci salviamo, la nostra felicità sarà eterna; e se ci danniamo, eterna sarà la nostra rovina. Posto ciò, io dico così: ancorché questi miscredenti, questi spiriti spregiudicati avessero qualche ragione, che sembrasse ad essi probabile per le loro false opinioni, cioè o che non v'è Dio, o che l'anima muore col corpo, o che ciascun può salvarsi in qualunque religione, o che l'inferno non sia eterno, queste opinioni non sarebbero loro più che dubbie. Mentre che se essi negano le verità della nostra fede perché, siccome dicono, non sono queste per essi evidenti come sono per noi, non potranno però certamente mai credere che la nostra fede sia evidentemente falsa. All'incontro non può negarsi che la nostra religion cristiana sì per l'autorità di tanti dotti che, spogliati dalle passioni del senso, l'hanno abbracciata, come per le ragioni che la assistono, almeno, diciamo così, almeno sia probabile e verisimile. Gli stessi miscredenti, per quanto cerchino di persuadersi il contrario, non possono liberarsi da' timori da cui son tormentati vivendo nella loro incredulità, specialmente in quel tempo, in cui le loro menti si trovano meno ottenebrate dalle passioni e dal fomite brutale de' sensi.
16. Or supposte anche per dubbie le verità della nostra fede, ogni ragione e prudenza vorrebbe che ci attenessimo alla loro credenza. Non sarebbe certamente matto quel mercante, che per guadagnare uno scudo volesse porsi a pericolo di perdere tutto il suo patrimonio? Non matto quel re, che per acquistare un villaggio volesse arrischiare tutto il suo regno? E non si stimerà poi una pazzia il volere abbracciare una credenza, com'è quella degli increduli, la quale se fosse vera, niente frutterebbe; ed all'incontro se ella è falsa, come certamente lo è, apporterà una rovina eterna? Vorrei pur dimandare a taluno di costoro, i quali per vivere a lor capriccio, mettono in dubbio ogni cosa, con dire che le verità della nostra religione non sono certe: ditemi, vorrei dirgli, arrischiereste voi la vita, facendo scommessa sulla verità delle vostre opinioni? No. E volete poi arrischiarvi la vita eterna? Non vedete che l'abbracciare alla cieca ciò che piace, senza far conto di legge e di ragione, non è viver da uomo ragionevole, ma da bruto? La religione non dee modellarsi secondo le passioni, ma secondo la ragione e la fede. I misteri della nostra fede se non sono a noi evidenti, sono nondimeno evidentemente credibili e certi. Le verità speculative circa la religione che debbon credersi dall'intelletto, non possono provarsi colle dimostrazioni fisiche e geometriche, ma colle ragioni che persuadono la mente.
17. Ma diranno: è regola che non si lasci il certo per l'incerto. Per prima, io rispondo, questa non può esser regola generale per ogni specie di cose; altrimenti niuno dovrebbe far più mercanzie, affin di far guadagno, niuno affaticarsi a studiare le scienze, niuno arrischiar la vita nelle guerre, affin di avanzarsi a far fortuna, perché il guadagno e la fortuna è incerta; tanto più se alcuno fosse nel caso che se non guadagna, abbia a perdere il tutto, com'è nel caso nostro, dove non solo si tratta di acquistare un regno eterno di contenti, vivendo bene, ma di cadere in un'eterna miseria, vivendo male. Per secondo i piaceri sono anche incerti. Chi ne accerta che avremo l'intento di conseguirli? Chi ci darà certamente la sanità necessaria per goderli? Specialmente se con disordine saranno presi tali diletti, poiché questi necessariamente guastano la sanità. Chi almeno ci assicura che avremo vita e tempo di goderli, quando la vita è così incerta? Or se il tutto è incerto, non sarebbe più che pazzo colui che per la speranza di ottenere uno scudo incerto volesse rinunziare alla speranza di un milione? E non sarà pazzo quegli che per la speranza di prendersi pochi e brevi piaceri avvelenati (poiché ogni piacere peccaminoso più affligge che contenta, per il veleno del rimorso e del timore che seco apporta il peccato) vorrà privarsi della speranza di un bene eterno, col pericolo di più d'incorrere un eterno male? Se vi fossero due anime, potrebbe arrischiarne una (e pure sarebbe una sciocchezza); ma essendo una sola, se questa perisce, la sua ruina sarà eterna ed irreparabile. E perciò, quantunque la nostra fede fosse incerta, pure vorrebbe ogni ragione che ciascuno lasciasse i pochi e brevi beni che può godere in questa terra, per guadagnarsi una felicità immensa ed eterna, e liberarsi dal pericolo d'incorrere un'eterna miseria.
18. Oltreché, anche a riguardo della vita presente, parlando in verità, i veri piaceri son quelli che son permessi: mentr'eglino son puri ed innocenti e liberi dal pentimento, dal rimorso e dal timore, da' quali non possono disbrigarsi i dissoluti. E facciano quanto vogliono per persuadersi che sieno false le verità eterne; poiché i suddetti funesti effetti del peccato non derivano già dal pregiudizio dell'educazione, come sognano i miscredenti, ma vengono impressi dalla stessa natura. Altrimenti, perché l'incredulo ha da temere, se crede di non esser reo? Perché la virtù si pratica arditamente ed alla svelata, e 'l vizio con paura e con rossore? All'incontro chi ben crede, e vive bene, vive in pace, e non teme, perché è libero da' peccati. Si aggiunga che le virtù, come la castità, la giustizia, la temperanza, sono compagne che mantengono l'animo tranquillo, e traggono rispetto anche dai viziosi. I filosofi antichi anteponevano a tutti i piaceri di senso le virtù, benché elle non fossero in essi che apparenze di virtù, essendo tutte effetti di ambizione della propria gloria. Eh che i diletti dell'animo superano di gran lunga quelli del senso! Queste sono tutte prove che il bene ed il male non consistono nella sola apprensione degli uomini, ma veramente vi sono: perché vi sta un Dio d'infinita bontà, che ha impresso nella natura l'amore alla virtù e l'orrore al vizio.
19. Ma perché, dicono gl'increduli, quelle verità che a voi son chiare, a noi son nascoste? Perché, rispondo, i vizj oscurano la mente. L'occhio vede, ma se è coperto da una benda, non vede più per quanto grande sia la luce che risplende. Chi lascia i vizj non ha difficoltà a ben credere; ma non può mai creder bene chi vuole mal vivere. Chi mal vive, si fa suo interesse il non credere, per peccare senza rimorso: e così fa regolarsi dall'interesse, non dalla ragione. Non v'è stato mai chi ha negato Dio e le sue verità prima di offenderlo. Il pensiero de' castighi del peccato impedisce il godere liberamente i piaceri vietati nella vita presente; ond'è che chi vive ne' vizj, facilmente brama che non vi sia castigo per chi mal vive; e dal bramare che non vi sia, facilmente passa a lusingarsi che non vi sia, almeno a porlo in dubbio, per peccare con meno rimorso. Colui che s'induce a dubitare dell'ultimo articolo del simbolo: Credo vitam aeternam, sta vicino a dubitare anche del primo: Credo in Deum. Se non fossero dunque altro che probabili o dubbie le verità della nostra fede, l'esistenza d'un Dio rimuneratore, la morte del corpo, l'immortalità dell'anima, l'eternità delle pene; pure, come si è detto, dovremmo attenerci senza meno alla religione più sicura. Poiché si tratta di salute eterna, in cui se si erra, e se è vero ciò che la religione cristiana insegna, non vi sarà in eterno più rimedio all'errore. Ma no, che queste verità non sono dubbie, ma certe ed evidenti. Poiché, come dicemmo sul principio, sebbene i misteri della nostra religione non sono a noi evidenti, ma oscuri, mentre in ciò consiste il merito della fede, in credere quel che noi non comprendiamo; nondimeno è evidente, che questa è la vera fede, e che son certe le cose ch'ella ci propone a credere. Questi miserabili miscredenti, che nel tempo della loro vita dissoluta pongono tutto in dubbio ed in questione per liberarsi da' rimorsi della coscienza e da' rimorsi del castigo, in punto di morte certamente vorranno aver creduto ed esser vivuti da veri cristiani; ma avverrà loro quel che avvenne ad un incredulo (come narra il Nieuwentyt) che giunto a morte pronunciò queste memorabili parole: Io credo finalmente tutto ciò che prima ho negato; ma è troppo tardi il potersi da me sperare la grazia di ravvedermi. E così morì.
20. Ma facciamo la conclusione di questa seconda parte. Ogni uomo desidera di esser felice e sempre felice. Non può esserlo in questa terra, ove dimora per pochi anni, e dove non trova cosa che appieno lo contenti; anzi sperimenta in se stesso un continuo combattimento, mentre la carne sempre si oppone alla ragione. Egli di ciò non sa trovare la causa, né sa come stabilire la sua felicità. Sente che Iddio ha tutto rivelato, onde cerca il popolo che tenga il deposito di questa rivelazione. I giudei gli scoprono parte, ma non tutto. I maomettani gli parlano di questa e dell'altra vita, ma non sanno che dirsi. Ricorre a' cristiani, e questi gli dimostrano l'antichità della lor religione colle prove che loro somministrano gli stessi giudei loro nemici, i quali ricevettero le prime rivelazioni divine colle sante scritture. Che poi questo sacro libro sia vero, lo dimostrano la stessa ostinazione de' giudei, e lo stato miserabile in cui vivono, cose nel medesimo libro già predette prima di vedersi avverata la loro dispersione. Sicché il libro non può essere inventato da essi giudei, e neppure da' cristiani, perché i giudei loro il rinfaccerebbero; oltre le tante copie che ve ne sono sparse per tutto il mondo, prima e dopo la ruina de' giudei; onde sarebbe stato impossibile il falsificarle tutte. Questo sacro libro conferma se stesso co' miracoli ivi riferiti, avvenuti a vista di milioni d'uomini, che ne furono testimonj oculari. Di più si conferma dalle profezie scritte prima degli eventi, le quali profezie per la ragione poc'anzi addotta, non possono essere da' cristiani inventate. Or questo libro scopre l'origine del mondo, la creazione dell'uomo e la causa del disordine che nell'uomo si vede. Ed ivi si leggono chiare le predizioni della redenzione degli uomini, della riprovazione del popolo eletto, della conversione delle genti e della nuova legge che dovea stabilirsi dal Messia. Quindi la di lui venuta e lo stabilimento della nuova legge si provano con mille contrassegni certi: coll'avveramento delle cose predette, col castigo de' giudei, colla conversione del mondo e coi miracoli operati da G. C. e da' suoi apostoli. Chi potrà dubitare dunque d'una religione avvalorata con tanti caratteri evidenti di verità?
21. In fine qui non voglio lasciar di pregare i padri di famiglia a star molto attenti in vedere dove mandano i loro figli ad apprender le scienze; acciocché in vece delle buone lettere, non restino imbevuti di vizj e di errori. Voglio sperare che tal disastro non vi sarà nella nostra città di Napoli; ma volesse Iddio che non vi fosse in molte città d'Europa, nelle quali gli errori moderni volentieri han trovato seguaci e fautori. Or questi errori proposti e adornati con fallacie e sofismi dagli autori del nuovo modo di filosofare talmente preoccupano e confondono le menti de' poveri giovani, che, oscurandosi in essi la luce della fede, perdono l'orrore a' peccati, e strascinati per altra parte dal bollore del sangue si abbandonano ad ogni sorta di vizio; e così poi, sempre vieppiù allucinandosi con moltiplicare le iniquità, è molto facile che finalmente si estingua in essi ogni lume di fede.
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1 Matth. c. 25. 34.
2 Ier. 15. 14.
3 Ioan. c. 15. 6.
4 Matth. 25. 36.
5 2. Tess. 1. 9.
6 Isa. 66. 24.
7 Iudith. 16. 21.
8 Apoc. 20. 9. et 10.
9 Apoc. 9. 6.
10 Praelect. theol. t. 2. p. mihi 115.
11 Sess. 6. c. 25. et Sess. 14. c. 5.
12 Opusc. 3. c. 38.
13 L. 21. de civit. c. 11.
1 Ier. 15. 18.
2 3. 29.
3 Ps. 102. 8 et 9.
4 Zac. 1. 3.
5 Psal. 7. 3.
6 Prov. 11. 7.
7 Rom. 11. 32.
1 L. 3. contra gentes c. 55.
2 1. Cor. 11. 19.
3 Iob. 26. 6.
4 Rom. 9. 22.
5 2. Tess. 1. 9.
6 Matth. 25. 34.
7 Luc. 1. 33.
8 Ioan. 6. 55.
9 Apoc. 21. 4.
10 Matth. 6. 20.
1 2. Cor. 4. 17.
2 Matth. 25. 23.
3 Ps. 83. 5.
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