mercoledì 1 febbraio 2012

Verità della Fede - LIII

Tornano gli approfondimenti sulle Verità della Fede attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Entriamo nella fase conclusiva dell'opera con il penultimo capitolo nel quale ci si sofferma ancora una volta sull'infallibilità papale, questa volta sulle questioni di fede e dei costumi:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. X.


Si prova l'infallibilità del pontefice romano nel definire le questioni di fede e de' costumi.


1. Anche nell'antica legge la sentenza del sommo sacerdote era infallibile, ond'era punito come reo di morte chi non avesse ubbidito a' suoi decreti. Ecco come sta scritto nel Deuteronomio8: Qui autem superbierit, nolens obedire sacerdotis imperio, qui eo tempore ministrat Domino Deo tuo et decreto iudicis, morietur homo ille, et auferes malum de Israel. E nell'ecclesiaste9 dicesi: Verba sapientium sicut stimuli et quasi clavi in altum defixi, quae per magistrorum consilium data sunt a pastore uno. His amplius, fili mi, ne requiras. E sebbene allora vi era il Sanhedrim, ch'era composto di 70 uomini, nondimeno il sommo sacerdote era quegli che definiva i dubbj di maggior peso; e perciò egli portava in petto

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il razionale coll'iscrizione: Iudicium et veritas, come consta dal 1. Reg. cap. 23. et cap. 30. Se dunque un tal privilegio fu concesso alla sinagoga, tanto più dee credersi dato alla chiesa, la quale, essendo distesa per tutto il mondo e combattuta da tante eresie, ha maggior bisogno d'un giudice, il quale sia uno e sia infallibile, che possa presto porre fine agli errori contro la fede e contro l'onestà de' costumi.



2. Quindi bisogna avvertire che le definizioni del papa quando si tratta di questioni di puro fatto che dipendono dalla sola testimonianza degli uomini, o quando egli parla come semplice dottor privato, elle sono fallibili. Sono all'incontro infallibili, allorché parla, anche fuori del concilio, come dottore universale della chiesa, e definisce ex cathedra le controversie di fede o de' costumi, che sono di mero dritto, o di fatto unito al dritto; e ciò per la podestà suprema conferita da Gesù Cristo a s. Pietro e per lui a tutti i suoi successori. Ecco come parla il dottore angelico: egli, dopo aver detto1, che le verità della fede s'insegnano ne' simboli, nell'articolo poi 10. così scrive: Hoc autem pertinet ad auctoritatem summi pontificis... Et huius ratio est, quia una fides debet esse totius ecclesiae, secundum illud2: Idipsum dicatis omnes, et non sint in vobis schismata. Quod servari non posset, nisi quaestio fidei exorta determinetur per eum qui toti ecclesiae praeest, ut sic eius sententia a tota ecclesia firmiter teneatur. Lo stesso insegnarono s. Bonaventura, Tomassino, Melchior Cano, Spondano, Gaetano, Soto, Duvallio, Lodovico Bayle, il Bellarmino, Valenza, il cardinal Gotti, monsignor Milante ed altri comunemente.



3. Altri non però tra costoro dicono essere il papa infallibile, ma solamente quando procede maturamente nel definir le questioni, col sentire il giudizio de' savi, e specialmente del concistoro de' cardinali, e dopo aver implorato il lume dello Spirito santo, e fatte fare pubbliche preghiere. Altri all'incontro dicono meglio tal condizione esser di sola congruenza, ma non già di necessità: poiché l'infallibilità al solo pontefice sta promessa, non già a' suoi consultori; altrimenti gli eretici sempre potrebbero opporre che non si è posto il dovuto esame, e che siasi valuto il papa di uomini poco dotti o pregiudicati. Ma se il papa procedesse temerariamente senza l'opportuno consiglio? Questo caso non può avvenire, risponde il Bellarmino3; perché quel Dio che ha promessa l'assistenza al suo vicario, acciocché non erri mai nelle definizioni di fede (rogavi pro te, ut non deficiat fides tua), siccome non può mancare nelle sue promesse, così non può permettere né che il papa erri, né che egli definisca temerariamente. Quindi si disse nel concilio di Trento4 che se mai nel ricevere le definizioni del concilio nascesse qualche difficoltà, la quale richiedesse nuova dichiarazione o definizione, fosse cura del papa di dichiararla o definirla con celebrare altro concilio generale, o pure in altro modo che stimasse più opportuno: Quod si, son le parole del Tridentino, in his recipiendis aliqua difficultas oriatur, aut aliqua inciderint, quae declarationem (quod non credit), aut definitionem postulent, et praeter alia remedia, in hoc concilio instituta, confidit s. synodus, beatissimum romanum pontificem curaturum, ut, vel evocatis ex illis praesertim provinciis, unde difficultas orta fuerit, iis quos eidem negotio tractando viderit expedire, vel etiam concilii generalis celebratione, si necessarium iudicaverit, vel commodiore quacumque ratione ei visum fuerit... consulatur.



4. Del resto il p. Francesco Suarez dice: Veritas catholica est pontificem definientem ex cathedra esse regulam fidei quae errare non potest, quando aliquid proponit ecclesiae tanquam de fide credendum; ita docent hoc tempore omnes catholici doctores, et censeo esse

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rem de fide certam1. Ed appresso2, parlando contro Rogero, il quale negava esser di fede che il papa non può errare, benché definisca senza concilio generale, risponde: Est responsio, non solum nimis temeraria, sed etiam erronea; nam tam est constans ecclesiae consensus, et catholicorum scriptorum concordis de hac veritate sententia, ut eam in dubium revocare nullo modo liceat. Lo stesso dice il p. Bannez, parlando dell'autorità del papa. Di più dice il card. Bellarmino che la sentenza contraria videtur erronea omnino et haeresi proxima3. A ciò conforme fu il Duvallio dottore sorbonico, il quale scrisse nell'anno 1712, e disse: Opinio quae Romae tenetur, vacat omni temeritate, cum totus orbis, exceptis pauculis doctoribus, eam amplectatur, et praeterea rationibus validissimis tum ex scriptura, conciliis et patribus, tum ex principiis theologiae petitis confirmatur4. E5 aggiunse: Nemo nunc est in ecclesia, qui ita pro certo non sentiat, praeter Vigorium et Richerium, quorum si vera esset sententia, totus fere orbis christianus, qui contrarium sentit, in fide turpiter erraret. Inoltre dice il dottissimo Melchior Cano nella sua celebre opera de Locis Theologicis6, che la chiesa nelle cose di fede sempre ha usato di ricorrere non ad altri che al pontefice romano, e sempre ha stimati irrefragabili i suoi giudizj; e che solamente nella chiesa romana si sono veduti adempiti i vaticinj di Cristo spettanti a s. Pietro e suoi successori, poiché le altre chiese dagli apostoli sono state col tempo occupate o dagli infedeli o dagli eretici, ma la sola romana non è stata mai da essi infettata. Quindi dice: Nos autem communem catholicorum sententiam sequamur... quam sacrarum etiam litterarum testimonia confirmant, pontificum decreta definiunt, conciliorum patres affirmant, apostolorum traditio probat, perpetuus ecclesiae usus observat. E poi soggiunge le seguenti notabili parole: «Hinc quaeri solet, an haereticum sit asserere posse quandoque romanam sedem, quemadmodum et ceteras, a Christi fide deficere? Et faciant satis Hieronymus periurum dicens, qui romanae sedis fidem non fuerit secutus; Cyprianus dicens: Qui cathedram Petri, supra quam fundata est ecclesia, deserit, in ecclesia esse non confidat: Synodus constantiensis haereticum iudicans, qui de fidei articulis aliter sentit, quam s. romana ecclesia docet. Illud postremo addam: cum ex traditionibus apostolorum ad evincendam haeresim argumentum certum trahatur, constat autem romanos episcopos Petro in fidei magisterio successisse ab apostolis esse traditum; cur non audebimus assertionem adversam, tanquam haereticam, condemnare? Sed nolimus ecclesiae iudicium antevertere. Illud assero, et fideliter quidem assero pestem eos ecclesiae, et perniciem afferre, qui negant romanum pontificem Petro fidei, doctrinaeque auctoritate succedere, aut certe adstruunt summum ecclesiae pastorem, quicunque ille sit, errare in fidei iudicio posse. Utrumque scilicet haeretici faciunt: qui vero illis in utroque repugnant, hi in ecclesia catholici habentur». Taluno forse dirà ch'io potea far di meno, e risparmiarmi di rivangare questa controversia già discussa da tanti autori; ma da ciò che ho riferito di Melchior Cano ognun vede quanto importa al ben della fede il fermar questo punto dell'infallibilità del papa nelle sue definizioni. Ed a ciò che dice il Cano molto favorisce quel che scrisse s. Cipriano7: Neque enim aliunde haereses obortae sunt, quam inde quod sacerdoti Dei non obtemperatur, nec unus in ecclesia sacerdos et ad tempus iudex vice Christi cogitatur. Poiché, come bene avverte monsignore Milante, quei che pertinacemente hanno resistito a' decreti del papa, prima si sono fatti scismatici e poi eretici.

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5. Ma veniamo alle prove dell'infallibilità de' giudizj del pontefice romano. Ella per prima si prova dalle scritture. Disse Gesù Cristo a s. Pietro: Quodcunque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis1. Il legare secondo le scritture importa far leggi ed obbligare; dunque Pietro ricevé allora la podestà generale di obbligar tutta la chiesa indipendentemente dal concilio; e la stessa podestà fu allora conferita a' successori di Pietro, che doveano governar la chiesa dopo la sua morte. Inoltre disse il Signore a s. Pietro: Simon, Simon, ecce Satanas expetivit vos, ut cribraret sicut triticum: ego autem rogavi pro te, ut non deficiat fides tua; et tu aliquando conversus confirma fratres tuos2. Il Signore dunque prima parlò di tutti gli apostoli: expetivit vos, ma di poi disse solamente a Pietro: Rogavi pro te, non pro vobis: privilegio speciale dato a Pietro di non mancare nella fede. Scrive s. Leone sulle predette parole: Pro fide Petri proprie supplicatur, tamquam aliorum status sit securus, si mens principis victa non fuerit3. Lo stesso privilegio fu dato ancora a' successori di Pietro, giacché tutte le promesse fatte a Pietro come capo della chiesa si debbono intendere necessariamente fatte anche a' successori, siccome intese il concilio costantinopolitano III., il quale nell'azione 4. ed 8. ricevette con lode l'orazione di s. Agatone, dove il papa spiegò chiaramente questo punto. E la ragione è evidente, perché un tal privilegio fu dato a Pietro per superare tutti gl'insulti di Satana contro la chiesa, la quale ragione corre anche per tutti i successori. E così comunemente l'hanno inteso i s. padri, s. Agostino4, s. Gio. Grisostomo5, s. Leone6, s. Gregorio7, s. Bernardo8 e s. Tommaso9.



6. Soggiunse il nostro Salvatore: Et tu aliquando conversus confirma fratres tuos. Qui più chiaramente si vede che il Signore impetrò l'infallibilità non già alle membra, ma al capo ch'era Pietro, acciocché ancor senza le membra fosse infallibile. Se la fede di Pietro dipendesse dalla direzion del concilio, non già Pietro confermerebbe i fratelli, ma sarebbe da' fratelli confermato. Appose di più il Signore la parola Conversus: et tu aliquando conversus confirma etc. Dicono ciò intendersi detto alla chiesa; ma una tale spiegazione non può aver sussistenza, poiché la chiesa non ha mai mancato, né può mancare, sì che abbia bisogno di convertirsi; ma dee necessariamente intendersi come detto a Pietro che, qual uomo, come previde il Signore, avrebbe mancato nel tempo della di lui passione, ma qual pastore universale dovea poi confermare gli altri; e s'intende anche detto a' suoi successori, mentre la chiesa dee sempre aver un pastore che la confermi infallibilmente nella fede. Ecco come scrisse s. Bernardo ad Innocenzo II.10: Dignum namque arbitror ibi resarciri damna fidei, ubi non possit fides sentire defectum. Cui enim alteri sedi dictum est aliquando: ego pro te rogavi, ut non deficiat fides tua? Istam (si notino le seguenti parole) infallibilitatis pontificiae praerogativam constantissima perpetuaque ss. patrum traditio commonstrat.



7. Altri poi vogliono che per essere infallibili le definizioni del papa debba concorrervi il consenso della chiesa. Ma risponde a ciò il Gagliardi11: Quo vero pacto stabit sponsio Christi de fide Petri nunquam defectura, deque Petro fratres confirmaturo, si Petri fides subiiciatur omnino fratrum, puta episcoporum, censurae, aut confirmationi? Soggiunge saviamente un altro autore che, se ciò fosse vero, il papa non avrebbe alcuna prerogativa più d'ogni altro semplice vescovo, anzi d'ogni privato dottore: giacché ancor la sentenza d'un privato dottore diverrebbe infallibile, se tutta la chiesa l'approvasse; ma Gesù Cristo volle che solamente a Pietro spettasse

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il confermare i fratelli, avendo solamente sopra di esso edificata la chiesa.



8. Inoltre il Signore disse a s. Pietro: Simon Ioannis, amas me?... Pasce oves meas1. Il pascere s'intende insegnar la sana dottrina e non già la falsa; il che sarebbe non pascer le pecorelle, ma ucciderle, conducendole a pascoli velenosi. Da questo testo deduce s. Tommaso essere un grande errore il negare l'obbligo di soggettarsi alle definizioni pontificie. Ecco come parla il s. dottore: Petro dixit (Christus): Pasce oves meas etc. Per hoc autem excluditur quorundam praesumptuosus error, qui se subducere nituntur a subiectione Petri, successorem eius romanum pontificem universalis ecclesiae pastorem non recognoscentes2. Al p. Alessandro poi il quale dice che quel Pasce oves meas s'intende detto alla chiesa, non già a Pietro, si risponde: dunque la chiesa è quella che dee pascere se stessa; e pascere anche Pietro? Ma se il Signore avesse inteso di parlare alla chiesa, avrebbe detto: pecorelle, se mi amate, pascete Pietro mio vicario, pascete voi il vostro pastore. Ma la verità è che parlò a Pietro, ed a Pietro impose il pascere tutti i fedeli, sudditi e prelati. Pascit filios, scrisse s. Eucherio, pascit et matres: regit et subditos et praelatos3. E s. Leone disse: Unus Petrus eligitur, qui omnibus praeponatur, ut, quamvis multi sint pastores, omnes regat Petrus4. Non ostante però che il vangelo parli così chiaro, vogliono i contrarj che il pastore debba esser pasciuto dalle pecorelle, che il fondamento debba essere sostentato dalla casa, il maestro istruito dagli scolari, il capo diretto dalle membra, Pietro confermato da' fratelli: tutto in somma al rovescio.



9. Ma non vi può esser prova maggiore a chiarire l'infallibilità del papa, che le sentenze degli stessi concilj ecumenici, e perciò è necessario qui ripetere molti passi già addotti de' concilj nel capo antecedente. Nel concilio niceno I. sotto Silvestro al can. 39. si disse: Qui tenet sedem Romae, caput est... cui data est potestas in omnes populos, ut qui sit vicarius Christi super cunctos populos et cunctam ecclesiam christianam; quicunque contradixerit, a synodo excommunicatur. Nel concilio calcedonese sotto s. Leone dell'anno 451. , cui assisterono 630. vescovi, come riferisce s. Tommaso5, si dissero queste parole: Omnia ab eo (scil. a Leone) definita teneantur, tamquam a vicario apostolici throni. E nell'azione 2. essendosi letta l'epistola di s. Leone, si disse: Omnes ita credimus. Anathema qui non credit. Petrus per Leonem ita locutus est. Ivi anche si disse, come scrive s. Tommaso6: Ex gestis chalcedonensis concilii habetur primo, quod sententia synodi a papa confirmatur: secundo, quod a synodo appellatur ad papam. Il che fu prima stabilito dal concilio sardicese sotto Giulio I. nell'anno 351. nel canone 4. e 7. , ove si disse: A synodo comdemnatos posse romanam sedem appellare, eiusque arbitrio sedere, velit ipse causam cognoscere, an iudices in partibus delegare. Il che è conforme a quel che si disse nel concilio niceno I. tra i canoni 19. e 29. , ove, parlandosi della sede apostolica, fu scritto: Cuius dispositioni omnes maiores ecclesiasticas causas antiqua apostolorum eorumque successorum atque canonum auctoritas reservavit. Ed è conforme a quel che si disse ancora nel concilio lateranese III., come si ha nel cap. Licet, 6. de elect., ove al §. 3. , parlandosi delle chiese particolari, si dice che i dubbj possono definirsi col giudizio del superiore, ma, parlandosi della chiesa romana, dicesi: In romana vero ecclesia aliquid speciale constituitur, quia non potest recursus ad superiorem haberi. Se dal pontefice non v'è ricorso ad altro superiore, necessariamente egli dee tenersi per infallibile nelle sue definizioni. Lo stesso si dice nel concilio romano sotto il papa Simmaco: Papam esse summum pastorem,

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nullius, extra causam haeresis, iudicio subiectum1.



10. Inoltre nel concilio costantinopolitano II. sotto Vigilio papa nell'anno 553. contro l'eresia di Origene ed i tre capitoli d Teodoro, Teodoreto ed Iba, si disse: Nos apostolorum sedem sequimur, et ipsius communicatores communicatores habemus etc. Nel concilio costantinopolitano III. sotto s. Agatone dell'anno 680. , avendo il papa prescritto nella sua lettera al concilio quel che dovea tenersi per fede contro i monoteliti, la lettera fu ben ricevuta da' padri; onde nell'azione 8. Dissero: Et nos notionem accipientes suggestionis directae ab Agathone, et alterius suggestionis, quae facta est a subiacente ei concilio, sic sapimus et credimus: Per Agathonem Petrus loquebatur. E nel costantinopolitano IV. sotto Adriano II. nell'anno 869. nella sessione 5. al canone 2. fu chiamato Nicolò papa organo dello Spirito santo, onde poi dissero: Neque nos sane novam de illo iudicio sententiam ferimus, sed iam olim a ss. papa Nicolao pronunciatam, quam nequaquam possumus immutare. Ed i padri dopo la loro sottoscrizione al concilio soggiunsero queste notabili parole: Quoniam sicut praediximus, sequentes in omnibus apostolicam sedem, et observantes omnia eius constituta, separamus (s'intende della separazione di Fozio), ut in una communione, quam sedes apostolica praedicat, esse mereamur, in qua est integra et vera christianae religionis soliditas. Di più nel concilio lugdunese II. sotto Gregorio X. nell'anno 1274. col concorso di 500. vescovi si disse: Ipsa quoque romana ecclesia principatum super universam ecclesiam obtinet, quam se ab ipso Domino in b. Petro, cuius romanus pontifex est successor, cum potestatis plenitudine recepisse recognoscit. Et sicut prae ceteris tenetur fidei veritatem defendere, sic et, si quae de fide subortae fuerint quaestiones, suo debent iudicio definiri etc. Se dunque dal papa debbon definirsi le questioni di fede, tutte le definizioni del papa debbono tenersi per dogmi di fede. No, dice monsignor Bossuet, parlando appunto di questo testo del concilio: la facoltà di Parigi anche definisce molte cose circa la fede, ma non perciò ella fa dogmi. Rispondiamo: la facoltà di Parigi definisce più cose: ma niuno dice ch'ella dee definirle, come si disse del papa: suo debent iudicio definiri. Altro è certamente il definirsi un punto da una facoltà, altro il definirsi un dogma dal papa, di cui si sa che tiene il primato e principato sopra la chiesa universale, e che ha l'obbligo di difender le verità della fede. Se questi le definisce come primate e principe della chiesa, la chiesa è tenuta di stare a quel che egli definisce; tanto più che dallo stesso concilio si dichiarò in che consistesse la pienezza di podestà: Potestatis plenitudo consistit quod ecclesias ceteras ad sollicitudinis partem admittit..., sua tamen observata praerogativa, et tum in generalibus conciliis, tum in aliquibus aliis semper salva. E finalmente essendosi letta questa sentenza, fu dal concilio accettata colle seguenti parole: Supradescripta fidei veritate, prout plene lecta est et fideliter exposita, veram, sanctam, catholicam et orthodoxam fidem cognoscimus et acceptamus, et ore ac corde confitemur quod vere tenet, et fideliter docet, et praedicat s. romana ecclesia. Se non vi fosse altra dichiarazione de' concilj che questa, io non so come possa negarsi l'infallibilità del papa e la di lui superiorità sopra i concilj. Di più nel concilio generale viennese sotto Clemente V. si stabilì che il dichiarare i dubbj di fede solamente spettava alla sede apostolica: Dubia fidei declarare, ad sedem dumtaxat apostolicam pertinere. Di più nel concilio di Costanza fu approvata la lettera di Martino V., ove si ordinava d'interrogare i sospetti di eresia: Utrum credant quod papa sit successor Petri, habens supremam auctoritatem in ecclesia Dei? La podestà suprema è quella, come ben dice il Bellarmino, a cui non vi è né maggiore né eguale. Di

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più nel concilio fiorentino nell'ultima sessione si disse: Definimus romanum pontificem in universum orbem habere primatum et successorem esse Petri, totiusque ecclesiae caput, et christianorum patrem ac doctorem existere, et ipsi in b. Petro regendi ecclesiam a D.N. Iesu Christo plenam potestatem traditam esse, quemadmodum etiam in gestis oecumenicorum conciliorum et in sacris canonibus continetur. Se dunque è certo che il papa è dottore di tutta la chiesa, dee anche tenersi per certo che sia infallibile in tutte le sue definizioni di fede, acciocché la chiesa non resti dal medesimo suo maestro ingannata. Quindi scrisse il sinodo parigino di 85 vescovi al papa Innocenzo X. nell'anno 1650. così: Maiores causas ad sedem apostolicam referre solemnis ecclesiae mos, quem fides Petri nunquam deficiens retineri pro suo iure postulat.



11. Il Launoio ed altri che oppugnano la infallibilità del papa distinguono la sede apostolica o sia romana, che intendono la chiesa universale, dal sedente ch'è il sommo pontefice, e dicono che la sede è infallibile, ma non il sedente. È ingegnosa la distinzione, ma non è vera; mentre è contraria al sentimento comune de' concilj, de' pontefici e de' padri, i quali per sede apostolica, o sia romana, intendono comunemente il romano pontefice. Nel concilio niceno I.1 si disse: Omnes episcopi apostolicam appellant sedem. Nel concilio sardicese2 si disse: A synodo posse romanam sedem appellare etc. Nel concilio viennese si dice: Dubia fidei declarare ad sedem apostolicam pertinere. Nel concilio costantinopolitano II. si disse: Nos apostolicam sedem sequimur... condemnatos ab ipsa condemnamus. Nel concilio lugdunese II. si disse: Ipsa quoque romana ecclesia principatum super universam ecclesiam obtinet. Anacleto papa3 disse: Haec vero apostolica sedes, caput omnium ecclesiarum etc. Teodoreto nella sua epistola a Leone papa: Ergo apostolicae vestrae sedis expecto sententiam. Gli stessi vescovi del sinodo parigino scrissero ad Innocenzo X. come di sopra riferimmo: Maiores causas ad sedem apostolicam referre solemnis ecclesiae mos, quem fides Petri nunquam deficiens retineri pro suo iure postulat. Dunque per sede s'intende il sedente.



12. Si prova inoltre l'infallibilità del papa dalla tradizione apostolica, che ci viene attestata da' santi padri. S. Ignazio martire4 scrisse: Qui igitur iis, scil. romanis pontificibus, non obedit, atheus prorsus et impius est, et Christum contemnit, et constitutionem eius imminuit. S. Ireneo5 scrisse: Omnes a romana ecclesia necesse est, ut pendeant, tanquam a fonte et capite. E s. Girolamo nella sua epistola a s. Damaso, chiedendo il di lui oracolo, se nella ss. Trinità dovessero ammettersi una o tre ipostasi, scrisse: A pastore praesidium ovis peto: cum successore piscatoris loquor etc. Super illam petram aedificatam ecclesiam scio... Non novi Vitalem, Meletium respuo, ignoro Paulinum: quicumque tecum non colligit, spargit. E poi conclude: Quamobrem obtestor beatitatem tuam, ut mihi in epistolis tuis tacendarum, sive dicendarum trium hypostaseon detur auctoritas. A pastore praesidium ovis flagito. Discerne, si placet, non timebo tres hypostases dicere, si iubebis. S. Gregorio nella sua epistola a' vescovi di Francia6 scrisse che nelle questioni di gran momento ad nostram studeat perducere notionem, quatenus a nobis valeat congrua sine dubio sententia terminari. S. Atanasio7 scrisse: Romanam ecclesiam semper conservare veram de Deo sententiam. E nella stessa epistola dice al pontefice: Tu profanarum haeresum, atque imperitorum, omniumque infestantium depositor princeps et doctor, caputque omnium orthodoxae doctrinae et immaculatae fidei existis. S. Cipriano8 scrisse: Deus unus est, Christus unus est, et una ecclesia et cathedra una super Petrum

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Domini voce fundata. Aliud constitui sacerdotium, novum fieri, praeter unum sacerdotium non potest. Quisquis alibi collegerit, spargit. Ed altrove lo stesso s. Cipriano1: Qui cathedram Petri, supra quam fundata est ecclesia, deserit, in ecclesia se esse confidit? Ed altrove2 parlando dei pontefici romani, scrisse: Ad quos perfidia habere non possit accessum. S. Pier Grisologo3 esortando Eutichete ad ubbidire al papa, gli dice: Quoniam b. Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem. Teodoreto4: Ego apostolicae vestrae sedis expecto sententiam, et obsecro V.S. ut mihi opem ferat iustum vestrum et rectum appellanti iudicium. S. Agostino5: Per papae rescriptum causa pelagianorum finita est. Ed altrove6, disse: Numerate sacerdotes vel ab ipsa sede Petri: in ordine illo patrum quis cui successerit videte; ipsa est petra, quam non vincunt superbae inferorum portae. S. Bernardo afferma nel luogo citato di sopra7: Istam infallibilitatis pontificiae praerogativam constantissima perpetuaque ss. patrum traditio commonstrat. S. Tommaso8: Postquam essent aliqua ecclesiae auctoritate determinata, haereticus esset, si quis repugnaret; quae quidem auctoritas principaliter residet in summo pontifice. E già nella questione 1. articolo 10. aveva detto che nella chiesa non avrebbe potuto esservi l'unità di fede, nisi quaestio fidei exorta determinetur per eum (cioè per il sommo pontefice) qui toti ecclesiae praeest. Lo stesso scrisse san Bonaventura9: Papa non potest errare, suppositis duobus: primum, quod determinet quatenus papa: alterum, ut intendat facere dogma de fide. E lo stesso intese Giansenio nel suo libro proemiale capo 29. dove scrisse ch'egli seguiva la chiesa romana, il successore di Pietro, soggiungendo queste parole: Super illam petram aedificatam ecclesiam scio; quicumque cum illo non colligit, spargit.



13. Si prova di più da' sacri canoni. Nel Can. Sacrosancta 2. Dist. 22. disse Anacleto papa: Haec vero apostolica sedes, cardo et caput omnium ecclesiarum a Domino, et non ab alio est constituta, et sicut cardine ostium regitur, sic huius s. sedis auctoritate omnes ecclesiae, Domino disponente, reguntur. Gelasio papa, come si ha nel Can. Cuncta 18. caus. 9. qu. 3. , scrisse a' vescovi della Dardania: Cuncta per mundum novit ecclesia quoniam quorumlibet sententiis ligata pontificum, sedes b. Petri apostoli ius habeat resolvendi, utpote quae de omni ecclesia fas habeat iudicandi. Bonifacio VIII.10 disse: Porro subesse romano pontifici omnem humanam creaturam declaramus, definimus, et pronuntiamus omnino esse de necessitate salutis. Quindi il dotto p. Berti11 scrive: Quorundam sententia de appellatione a sententia pontificum ad concilia et de infallibilitate romanae et apostolicae sedis dependenter ab aliorum episcoporum approbatione, licet tanta animositate et argumentorum apparatu a nonnullis propugnetur, falsissima est.



14. Gran cosa! Se alcun papa ha buttata qualche parola ambigua dell'autorità de' concilj, ecco gli avversarj, che interpretandola a lor piacere, la decantano come una proposizione sacrosanta. Tutto quel che poi han detto espressamente molti pontefici dell'autorità suprema ed infallibile del papa non vale a niente, perché, come dicono, essi han difesa la causa propria. Ma lo stesso possiamo dir noi di quel che han detto i concilj della loro superiorità, come pretendono i contrarj. Dunque Gesù Cristo ha lasciato questo gran disordine nella sua chiesa, che, se mai un concilio fa una decisione opposta a quella del papa, noi non sappiamo a chi dobbiamo credere? Ma no che gli stessi concilj ben troppo

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espressamente han dichiarato, come abbiam veduto di sopra, che la podestà del papa è suprema ed infallibile, e ch'egli presiede non solo a tutte le chiese particolari, ma a tutta la chiesa universale.



15. Ma veniamo alla ragione. È certo che nella chiesa dee esservi un giudice delle controversie di fede, il quale sia infallibile; altrimenti, essendo diverse le opinioni degli uomini, anche nei dotti, resterebbero molti dogmi confusi ed incerti. A deciderli non bastano sempre le scritture, come si disse nel capo VI. §. II., perché spesso sopra il senso di quelle cadono le controversie. Tanto meno può bastare il senso privato difeso dagli eretici, perché questo è totalmente incerto ed inetto a regolar la fede; ed inoltre così diverso tra gli uomini, che, se mai egli fosse regola di fede, vi sarebbero al mondo tante fedi quante sono le teste degli uomini. I concilj generali poi non possono sempre unirsi o per ragione delle guerre, o per il bisogno delle spese, o per la mancanza del luogo; almeno non possono unirsi così presto, quanto bisogna per estirpare le eresie, che subito infettano come la peste. Onde se Iddio non avesse disposto che le definizioni del papa fossero infallibili, ma che per i soli concilj generali si determinassero le quistioni di fede, non avrebbe a sufficienza provveduto al bene della chiesa; poiché, attese le tante difficoltà considerate di congregare i concilj generali, sarebbe mancato per la maggior parte de' secoli nella chiesa il giudice infallibile, che avesse posto pronto riparo agli scismi ed alle eresie che in ogni tempo possono nascere.



16. Ma no che Gesù Cristo ha lasciato in terra il suo vicario, ed a lui ha promessa la sua assistenza, acciocché sia giudice infallibile ne' dubbj di fede, e così possa presto estirpare gli errori de' nemici della chiesa. Ed in fatti questa è stata la pratica perpetua che da' soli pontefici sono state condannate le eresie; e solamente allora si sono congregati i concilj dopo la definizione del papa, quando vi è stato il comodo di tenerli, e si è conosciuto giovevole il congregarli per maggiormente spegnere il fuoco di qualche errore che camminava. Del resto nei primi secoli non si tenne alcun concilio generale, ma dai soli pontefici furon condannate più eresie; e quelli che dal papa eran condannati, già da tutta la chiesa eran tenuti per veri eretici. Così ne' primi tre secoli furon condannati i nicolaiti, i marcioniti, i montanisti, i novaziani, i tertullianisti, gli origenisti ecc. Nel quarto secolo poi da' soli papi furon condannate le eresie di Gioviniano e di Priscilliano; e nel secolo quinto quelle di Pelagio e Vigilanzio; come anche appresso Leone IX. condannò gli errori di Berengario; Eugenio III. di Gilberto Porretano; e s. Pio V. ed Urbano VIII. di Baio. S. Anacleto papa sin dall'anno 101 nella sua Epist. 1. ordinò: Quod si difficiliores ortae fuerint quaestiones, aut episcoporum, aut maiorum iudicia, aut maiores causae fuerint, ad sedem apostolicam reparantur, quoniam apostoli hoc statuerunt iussione Salvatoris. Fra le cause maggiori certamente le prime sono le cause di fede. Così anche s. Giulio nell'anno 3361 scrisse: Conciliorum convocandorum iura et maiores causas ad sedem apostolicam evangelicis et apostolicis institutis referri oportet. Id a sanctis apostolis et successoribus eorum, id a nicaena synodo definitum est. Di più s. Agostino2, riprovando l'opinione che sia necessario sempre il concilio per condannare un'eresia, scrisse: Quasi nulla haeresis aliquando, nisi synodi congregatione damnata sit, cum potius rarissimae inveniantur, propter quas damnandas necessitas talis extiterit. Ed in altro luogo3, parlando delle decisioni del pontefice, scrisse: Eis repugnare insolentissima insania est. Ma soprattutto vale quel che si dice nel concilio romano generale VIII., celebrato sotto Adriano II. nell'anno

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8691: Retro, olimque semper, cum haereses et scelera pullularent, noxias illas turbas et zizania apostolicae sedis romanae successores extirparunt. Dice il Du-Hamel col suo Pietro de Marca che le definizioni del papa allora solamente si hanno per infallibili quando sono di cose chiare. Oh il gran privilegio che questi autori danno al capo della chiesa! Quando le cose per se medesime son chiare o nella scrittura o per la tradizione, ogni privato può affermare ch'elle sono di fede, e che erra chi le nega. Ma questa è la promessa fatta dal Salvatore a s. Pietro ed a' suoi successori, di non errare in tutte le dichiarazioni che avrebbero fatte nelle cose di fede ch'erano dubbie ed oscure a' fedeli.



17. Dunque, diranno, sono inutili i concilj generali? Non signore, non sono inutili, i concilj giovano a più fini: giovano, acciocché i decreti siano ricevuti più volentieri da' popoli, essendo stati quegli stabiliti di comun consiglio. Anche i monarchi soglion talvolta convocare i parlamenti per alcuni affari, che potrebber decidere da loro stessi. Giovano, acciocché i vescovi convocati sieno meglio intesi delle dottrine e ragioni de' decreti, e così possano meglio istruire i fedeli circa le verità dichiarate. Giovano per otturar la bocca de' mormoratori delle definizioni del papa. Giovano ancora per far meglio esaminare alcuni punti non ancora definiti né abbastanza discussi; restando non però sempre fermo che le definizioni de' concilj per avere autorità di fede han bisogno di essere corroborate colla conferma del papa, ricevendo dalla sua approvazione tutta la loro forza, come fu dichiarato nella sessione XI. dell'ultimo concilio lateranese, ove si disse: Consueverunt antiquorum conciliorum patres, pro eorum quae in suis conciliis gesta fuerunt, corroboratione a romanis pontificibus subscriptionem. approbationemque humiliter petere et obtinere, prout ex nicaena, ephesina, chalcedonensi, sexta costantinopolitana, septima nicaena, romana sub Symmaco synodis habitis, eorumque gestis manifeste colligitur. Al che si uniforma quel che scrisse Pasquale II. nell'epistola all'arcivescovo di Palermo, riferita dal Baronio all'anno 402. cap. Significasti, extrav. de Elect., ove disse: Aiunt in conciliis statutum non inveniri quod romanae ecclesiam legem concilia ulla praefixerint, cum omnia concilia per romanae ecclesiae auctoritatem et facta sint, et robur acceperint, et in eorum statutis romani pontificis patenter excipiatur auctoritas.



18. Ma se le eresie non avessero potuto condannarsi da' pontefici con decisione infallibile, e fosse stato necessario di aspettare il concilio, non avrebbe potuto evitarsi il gran danno del progresso che frattanto avrebbe fatto l'errore, finché dal concilio non fosse stato condannato. All'incontro bisogna riflettere che per gli eretici, che non vogliono sottoporsi alle definizioni del papa, i concilj riescono per lo più inutili, poiché non mancano loro pretesti di disprezzare anche le definizioni del concilio, come avvenne in tempo di Lutero, con dire o che il concilio non è stato libero, o non è stato legittimo, o che i decreti non si son fatti col dovuto esame, o non conclusi coi voti di tutti coloro che doveano intervenirvi, o finalmente dicendo che gli atti del concilio sono stati corrotti. Vi è stato chi ha scritto che al concilio debbono concorrere non solo tutti i vescovi, ma tutti i parrochi, sacerdoti e diaconi ed anche i secolari. Scrive un certo autore che siegue tal opinione: Il papa e i vescovi non sono che commessi e incaricati dal popolo. Le facoltà, i corpi ed i particolari stessi dovrebbero unirsi insieme per l'interesse comune. Cosa che è tutta opposta all'uso dei primi concilj della chiesa ed a quel che insegnano i santi padri, come s. Cipriano2, s. Ilario3, s. Ambrogio4, s. Girolamo5, i quali dicono che a' soli vescovi spetta dare il voto come giudici nel concilio. E lo stesso scrisse

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Teodoro Iuniore nella sua epistola al concilio efesino, dicendo: Nefas est enim, qui ss. episcoporum cathalogo adscriptus non est illum ecclesiasticis negotiis se immiscere. Solamente a' cardinali è concesso dare il voto insieme co' vescovi ed anche agli abati e generali degli ordini regolari, per ragion della giurisdizione quasi episcopale che essi hanno, siccome scrive Benedetto XIV.1.



19. Oltreché gli eretici pertinaci sempre diranno che il concilio non è stato universale e legittimo, per non esservi intervenuti, o per avervi ripugnato essi che si stimano la miglior parte della chiesa. Ond'è che, tolta l'infallibilità al papa, non vi è modo di convincere gli eretici. E perciò ben avvertì s. Tommaso, come notammo di sopra, che l'unità della fede servari non posset, nisi quaestio fidei determinaretur per eum qui toti ecclesiae praeest, ut sic eius sententia a tota ecclesia firmiter teneatur2. Ecco quel che intervenne nell'eresia di Lutero: Lutero prima appellò dal papa male informato al papa meglio informato; poi dal papa al concilio futuro; poi dal concilio tridentino già fatto alla sacra scrittura; e finalmente dalla scrittura allo spirito privato, viene a dire al suo cervello sconvolto, ed indi formò un libro, ove cercò di provare, Nihil opus esse conciliis; e giunse a chiamare anche il I. concilio niceno foenum et stramen.



20. Ma come va, dicono gli avversarj, che più pontefici hanno errato in definir cose di fede? Ma questo è stato sempre lo studio degli impugnatori dell'autorità de' pontefici, di ritrovare errori nelle loro definizioni; ma non mai han potuto appurare alcuno errore circa i dogmi, e proferito da alcun pontefice, come pontefice e dottore della chiesa. Dicono che a tempo de' concilj di Arimino e di Sirmio Liberio papa cadde nell'eresia ariana, sottoscrivendo la formola di fede che gli ariani teneano. Ma, secondo riferiscono s. Atanasio, s. Ilario, s. Girolamo, Severo Sulpizio e Teodoreto, il fatto fu così: fu data allora da sottoscriversi a Liberio e agli altri vescovi cattolici la formola di fede, nella quale diceasi che il Figliuolo non era creatura come le altre, ma era di sostanza simile al Padre; ma vi mancava l'espressione del concilio niceno, che fosse vero Dio come il Padre e consostanziale al Padre. E qui fu l'inganno, col quale Valente capo degli ariani indusse Liberio a sottoscrivere, promettendo che poi nella formola si sarebbero aggiunte tutte le espressioni necessarie; e così il papa e gli altri vescovi per tal promessa, e per liberarsi ancora dalla persecuzione degli ariani e dell'imperator Costanzo, sottoscrissero quella formola. Altri però con Onorato Tournely3 vogliono che Liberio non sottoscrisse già questa formola, ch'era la terza, perché nell'anno 359, allorché fu proposta da' padri sirmiensi la suddetta terza formola, già Liberio sin dall'anno precedente era stato liberato dall'esilio, ed aveva ricuperata la sua sede, come narra s. Atanasio; ma che sottoscrisse la prima formola, la quale da s. Ilario fu interpretata in senso cattolico. Sicché Liberio, o che avesse sottoscritta la terza o la prima formola, quantunque peccò, non può dirsi però aver mai approvata l'eresia ariana. Tanto più che Liberio, avvedutosi poi della sua mancanza, si protestò con pubblico manifesto di non aver mai inteso di scostarsi dalla fede nicena, ed espressamente ritrattò la sua sottoscrizione.



21. Di più incolpano lo stesso Vigilio di essersi contraddetto intorno alla condanna degli scritti e persone d'Iba, di Teodoro e Teodoreto. Qui la risposta sarebbe lunga, ma la sostanza si è che circa tal punto vi furono due concilj generali, il calcedonese e 'l costantinopolitano II. Nel calcedonese furono condannati gli scritti d'Iba, ne' quali si scusavano gli errori di Nestorio, ma non fu condannata la persona d'Iba; nel costantinopolitano poi furono condannati

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così gli scritti, come la persona d'Iba. Vigilio prima aderì al calcedonese e di poi al costantinopolitano; e da ciò l'incolpano di avere errato in cose di fede. Rispondiamo che, incolpando Vigilio di tal errore, si ha da incolpare ancora anche uno de' concilj di avere errato in materia di fede. Ma la risposta diretta si è che il calcedonese, scusando le persone, ebbe per vero che Iba e gli altri due avessero scritto in buona fede; all'incontro il costantinopolitano, condannando anche le persone, ebbe per vero che avessero scritto in mala fede. Del resto ivi non si trattò positivamente di alcun dogma, come ben dichiarò s. Gregorio, scrivendo: Scire vos volo quod in ea (scil. in synodo chalcedonensi) de personis tantum non autem de fide aliquid gestum est. Ma leggasi quel che si è detto su questo punto di Vigilio nel capo antecedente al §. 4. n. 59.



22. Né vale opporre una certa lettera di Vigilio, ove apparisce aver egli approvata l'eresia di Eutiche; poiché questa lettera dal Baronio1 e dal Bellarmino2 ed anche dal concilio generale VI.3 fondatamente è riprovata come falsa. Ma se taluno volesse tenerla per vera, sappiasi ch'ella si porta scritta da Vigilio, mentre Silverio vero papa era ancor vivo; ma, morto che fu Silverio, Vigilio rinunziò al pontificato, ed allora di comun consenso del clero fu eletto per papa, ed egli poi apertamente detestò l'eresia eutichiana. Si aggiunge che la supposta lettera si vede scritta da Vigilio privatamente, e con condizione che a niuno si fosse fatta nota: Oportet ergo (così leggesi nella stessa lettera) ut haec quae vobis scribo nullus agnoscat. Sicché quantunque ella fosse stata vera, neppure potrebbesi da quella dedurre alcun argomento contro l'infallibilità delle definizioni pontificie ex cathedra, le quali, per aver forza, debbono esser pubbliche, non private.



23. Inoltre incolpano Onorio papa di aver aderito nelle sue lettere a Sergio capo de' monoteliti, che seminava l'errore di essere stata in Cristo una volontà ed una operazione. Ma s. Massimo4 e Giovanni IV.5 difesero Onorio, dicendo che le sue lettere ben poteano spiegarsi nel senso cattolico. Il fatto fu che Onorio tenea già la retta sentenza, che in Cristo fossero due volontà e due operazioni; ma, essendo sorto l'errore di Sergio, Onorio per sedare lo scisma, ed all'incontro per non dar sospetto ch'egli aderisse o agli eutichiani che voleano una sola natura in Cristo, o a' nestoriani che voleano in Cristo due persone, nella sua epistola 2. a Sergio volle che non si fossero nominate né una, né due operazioni, e scrisse così: Referentes ergo, sicut diximus, scandalum novellae adinventionis, non nos oportet unam vel duas operationes praedicare, sed pro una, quam quidam dicunt, operatione nos unum operatorem Christum Dominum in utrisque naturis veridice confiteri, et pro duabus operationibus, ablato genuinae operationis vocabulo, ipsas potius duas naturas, id est divinitatis et carnis assumptae, in una persona Unigeniti Dei Patris, confuse, indivise et inconvertibiliter nobiscum praedicare propria operantes. Sicché Onorio dicea che in Cristo vi era un operatore, ma due operazioni, secondo le due nature in esso copulate, delle quali ciascuna avea le sue operazioni proprie: oportet unum operatorem Christum in utrisque naturis confiteri, et pro duabus operationibus ipsas potius duas naturas in una persona Unigeniti Dei Patris praedicare propria operantes. E lo stesso accennò in breve nella prima lettera che scrisse a Sergio, dicendo: In duabus naturis (Christum) operatum divinitus, atque humanitus. E che Onorio veramente sentisse che in Cristo vi erano due operazioni, e per conseguenza due volontà, della divinità e dell'umanità, apparisce maggiormente dalle altre parole che scrisse nella 2. lettera: Utrasque

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naturas in uno Christo in unitate naturali copulatas, atque operatrices confiteri debemus: divinam quidem quae Dei sunt operantem, et humanam quae carnis sunt exequentem... naturarum differentias integras confitentes. Se dunque dice che in Cristo vi erano due nature operanti secondo le loro intiere differenze, conseguentemente teneva ancora essere in Cristo due volontà. Ed in tanto scrisse quelle parole: Non nos oportet unam, vel duas operatones predicare, in quanto ebbe timore col dire una operazione di favorire l'eresia di Eutiche, e col dire due operazioni di favorire l'eresia di Nestorio.



24. Né osta che Onorio nella stessa lettera avesse scritto aver Gesù Cristo avuta una volontà: Unam tantum voluntatem fatemur Domini nostri Iesu Christi. Poiché ciò disse a rispetto di quel che aveagli scritto Sergio, cioè che taluni voleano che Cristo come uomo ebbe due volontà contrarie, quali sono in noi di spirito e di carne, e contro questo errore rispose Onorio che Cristo ebbe una sola volontà, cioè la sola di spirito e non quella di carne, ch'è in noi per la colpa di Adamo, così attestarono Giovanni IV. papa e s. Massimo ne' luoghi citati; e così anche lo difendono il Tournely1, e il p. Berti2, e lo stesso scrive lo stesso Natale Alessandro nel secolo VII., dicendo: Locutus est (Honorius) mente catholica, siquidem absolute duas voluntates Christi non negavit, sed voluntates pugnantes. E ciò apparisce chiaro dalla stessa ragione che di tal detto addusse Onorio nella sua lettera: Quia profecto a divinitate assumpta est nostra natura, non culpa; illa profecto quae ante peccatum creata est, non quae post praevaricationem vitiata... Non est itaque assumpta, sicut praefati sumus, a Salvatore vitiata natura, quae repugnaret legi mentis eius etc.



25. Ma replicano gli avversarj che ciò non ostante Onorio già fu condannato come eretico dal sinodo VI.3 insieme con Ciro, Sergio, Pirro ed altri monoteliti. Ma vuole il Baronio, Binio, Frassen ed altri, e il Bellarmino tiene per certo4 che il nome di Onorio fraudolentemente fu inserito in quell'azione dagli emoli della chiesa romana, e l'argomenta da più motivi e specialmente dal vedere che la condanna di Onorio ripugna a quel che scrisse s. Agatone successore di Onorio all'imperator Costantino Ponolegate, cioè che la fede de' pontefici romani non era mai mancata, né potea mai mancare, giusta la promessa di Cristo: Apostolica Christi ecclesiae quae nunquam errasse probabitur, sed illibata fine tenus permanet, secundum ipsius Domini pollicitationem, quam suorum discipulorum principi fassus est: Petre etc. E questa epistola di s. Agatone ben fu approvata dal concilio, e dissero i padri essere stata dettata dallo Spirito santo. Di più l'argomenta dal vedere che dal concilio romano, celebrato da s. Martino papa prima del predetto sinodo VI., furono condannati i mentovati Ciro, Sergio ec., ma non fu nominato Onorio.



26. Ma, anche dato per vero che fra gli eretici fosse stato dal concilio posto insieme il nome di Onorio, dicono il Bellarmino, il Tournely e il p. Berti ne' luoghi citati col Turrecremata5, ch'egli fu condannato per errore di fatto di falsa informazione che n'ebbero i padri del sinodo; il quale non errò in ciò con errore di fatto dogmatico (nel che non può errare né il papa, né il concilio ecumenico), ma di fatto particolare di falsa informazione, presa dalla mala traduzione della lettera di Onorio da latino in greco, ch'egli avesse scritto a Sergio con animo eretico; nel quale errore tutti consentono che anche i concilj generali possono errare. E che in tale errore di fatto particolare abbia errato il concilio si prova da quel che scrissero in difesa di Onorio Giovanni IV., Martino I., s. Agatone, Nicola I. e 'l concilio romano sotto lo stesso Martino, i quali

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meglio intesero le lettere di Onorio, che i padri greci del sinodo. E perciò gli scrittori più antichi, che furono in maggior numero de' moderni, hanno esentato Onorio dalla nota di eretico, come s. Massimo, Teofane Isaurico, Zonara, Paolo Diacono, ed anche Fozio nemico della chiesa romana, tutti citati dal Bellarmino; il quale aggiunge che tutti gli storici latini, Anastasio, Beda, Blondo, Nauclero, Sabellico, Platina ed altri chiamano Onorio papa cattolico. Tanto più (dicono il Bellarmino, il Turrecremata, il Cano, il Petit-dider e 'l Combefisio) che, se mai Onorio in quelle lettere avesse abbracciato l'errore di Sergio, avrebbe errato come uomo privato con quelle lettere private e non encicliche, ma non già come pontefice e dottore universale della chiesa. Ma, attese le parole delle lettere di Onorio di sopra considerate, non sappiamo intendere come Onorio possa condannarsi da eretico. Il vero è quel che scrisse Leone II.1 che, sebbene Onorio non cadde nell'eresia de' monoteliti, non fu però esente da colpa, perché flammam (come disse Leone II.) haeretici dogmatis non, ut decuit apostolicam auctoritatem, incipientem extinxit, sed negligendo confovit. Egli dovea sul principio sopprimere l'errore, ed in ciò mancò.



27. Di più dicono che Nicola I. avesse insegnato esser valido il battesimo conferito in nome di Cristo, senza esprimere le tre divine persone2. Ma si risponde che Nicola ivi non fu già interrogato circa la forma del battesimo, ma se era valido il battesimo conferito da un pagano o giudeo. Il papa rispose che sì, e ciò solamente definì allora circa il valore del battesimo, e parlò incidentemente circa la forma; e non si nega che il papa può errare in quelle cose che dice per incidenza, ma non definisce di proposito. Dicono che Gregorio XIII.3, permise al marito per l'infermità della moglie di prendersene un'altra. Si risponde che il caso era che quella moglie avea un'impotenza perpetua per causa della sua infermità, e la sua impotenza era antecedente al matrimonio, il quale perciò era senza dubbio nullo.



28. Dicono che Innocenzo III.4, stimò esser tenuti i cristiani alla legge mosaica. Si risponde che il papa allega in questo testo le leggi del vecchio testamento, non già come obbligatorie, ma come esemplari, secondo le quali debbono osservarsi nel nuovo testamento alcuni riti nuovamente istituiti. Dicono che Stefano VII. dichiarò irriti gli atti di Formoso papa; ed ordinò che quelli che da Formoso avean presi gli ordini di nuovo fossero ordinati; ma Giovanni IX. disse il contrario, dichiarando che Formoso fu legittimo papa. Venne di poi Sergio III., e di nuovo lo dichiarò illegittimo. Onde concludono che o l'uno o gli altri due pontefici hanno errato. Rispose il cardinal Bellarmino che Formoso, benché fosse stato degradato avanti al suo pontificato, fu nondimeno poi vero pontefice, e furono validi gli ordini da lui conferiti, onde errarono Stefano e Sergio, ma il loro errore non fu di legge, ma di puro fatto. E così si risponde a certe simili opposizioni degli avversarj, cioè che se mai alcun pontefice ha errato, o non ha parlato ex cathedra, o l'errore è stato di puro fatto.

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8 17. 12. 

9 12. 11. 

1 2. 2. q. 1. a. 9. ad 2. 

2

3 De pont..?.

4 Sess. 25. de reform. c. ult. in fin. de recip. decr. concil.

1 Tract. de fide d. 5. sec. 8. n. 4. 

2 Disp. 20. sect. 3. n. 22. 

3 L. 4. de pont.

4 De super. pont. part. 1. q. 7. 

5 Parte 4. quaest. 7. 

6 L. 6. c. 7. 

7 Epist. 3. lib. 2. 

1 Matth. 16. 19. 

2 Luc. 22. 31. 

3 Serm. 3. de Assumpt.

4 De Corrept. et grat. c. 18. 

5 Hom.

6 Serm. 3. de Assumpt. ad pontif.

7 L. 6. ep. 37. ad Eulog.

8 Ep. 190. ad Innoc.

9 2. 2. q. 1. a. ult.

10 Ep. 190. 

11 Instit. Can. tit. 12. de pont.

1 Ioan. 21. 17. 

2 L. 4. contra Gen. c. 76. 

3 Serm. de nat. ss. apost. .

4 Serm. 3. de Assumpt.

5 Opusc. contra error graecor.

6 De potest. quaest. 10. a. 4. ad 18. 

1 T. 2. concilior.

1 Can. 19. e 29. 

2 Can. 4. e 7. 

3 Can. sacrosancta 2. dist. 22. 

4 Ep. ad Trallens.

5 L. 3. c. 3. 

6 L. 4. ep. 52. 

7 Ep. ad Fel. pap.

8 Epist. 8. lib. 1. 

1 L. de unit. eccl.

2 Ep. ad Corn. pap.

3 Ep. ad Eutychet. part. 1. conc. chalced.

4 Ep. ad Leon. pap.

5 L. 1. contra Iulian. c. 5. 

6 In ps. cont. par.

7 Epist. 190. ad Innoc. II.

8 2. 2. qu. 11. art. 2. ad 3. 

9 De sum. theol. qu. 1. a. 3. §. 3. 

10 Extrav. commun. unam sanctam c. 1. de maior. et obed.

11 De theol. disc. l. 17. c. 5. 

1 Ep. Gemina advers. episc. orientales.

2 L. 4. contra duas ep. Pelag. c. 12. 

3 Epist. 118. 

1 Act. 3. 

2 Ep. ad Iubain.

3 L. de synod.

4 Ep. 31. 

5 Ep. ad solit. vit. agent.

1 De synod. l. 8. c. 2. n. 5. 

2 2. 2. quaest. 1. a 10. 

3 Praelect. theol. t. 2. q. 4. sect. 2. a. 3. 

1 T. 13. an. 538. 

2 L. 4. de rom. pont. c. 10. 

3 Act. 14. ap. Bellarm. loc. cit.

4 - In disp. cum Pyrro.

5 Ep. ad Costantin. ex t. 5. conc. p. 1760. 

1 De incarnat. t. 4. part. 2. disp. 3. c. concl. 2. 

2 T. 3. l. 26. c. 11. 

3 Act. 13. 

4 De rom. pont. c. 11. 

5 De eccl. l. 2. 

1 Epist. ad Hispanos.

2 Can. A quodam 24. de const. dist. 4. 

3 C. Quod proposuisti caus. 32. qu. 7. 

4 C. Per venerabilem, tit. Qui filiis sint etc.

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