martedì 14 febbraio 2012

La Città di Dio - L

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continuiamo la lettura del capitolo quinto:

Libro quinto
VISIONE IRRAZIONALISTA E RAZIONALISTA DELLA STORIA


12. 4. Più distintamente è stato esaltato Catone. Di lui ha detto Sallustio: Quando meno cercava la gloria, tanto più essa lo seguiva 33. Ma se la gloria, della cui passione ardevano, è il giudizio di individui che hanno una buona opinione di altri, è migliore la virtù che non è contenta del riconoscimento umano, salvo quello della propria coscienza. Per questo dice l'Apostolo: La nostra gloria è questa, il riconoscimento della nostra coscienza 34; e in un altro passo: Ciascuno esamini la propria azione e allora avrà gloria soltanto in se stesso e non in un altro 35. Dunque la virtù non deve seguire la gloria, l'onore e il potere, cui i Romani aspiravano e che i buoni tendevano a raggiungere con le buone arti, ma questi beni devono seguire la virtù. Infatti non è vera virtù se non tende a quel fine che è per l'uomo il bene ottimo. Quindi Catone non avrebbe dovuto aspirare alle cariche onorifiche, cui aspirò, ma lo Stato avrebbe dovuto conferirgliele anche se non vi aspirava.

12. 5. Ma dato che nel ricordo di Sallustio i due Romani, Cesare e Catone, furono grandi per virtù, la virtù di Catone, a mio parere, fu molto più vicina di quella di Cesare al suo vero significato. Pertanto ascoltiamo dalle parole stesse di Catone la condizione dello Stato in quel tempo e anteriormente. Non crediate, egli dice, che i nostri antenati hanno con le armi reso grande lo Stato da piccolo che era. Se così fosse, ne avremmo uno molto più perfetto. Noi infatti abbiamo nei confronti degli antenati un numero più grande di cittadini e di alleati, di armi e di cavalli. Ma furono altre le doti che li resero grandi e che a noi mancano: l'operosità in privato, una giusta amministrazione in pubblico, l'animo libero nelle decisioni, non soggetto alla delinquenza e alla passione. Al loro posto noi abbiamo la dissolutezza e l'avarizia, nell'amministrazione dello Stato il dissesto, in quella privata l'abbondanza. Apprezziamo la ricchezza e facciamo l'ozio, non esiste distinzione fra onesti e disonesti, l'ambizione usurpa le prerogative della virtù. Non c'è da meravigliarsene. Quando voi deliberate nella prospettiva dei vari individualismi, quando in privato vi rendete schiavi dei piaceri e in pubblico del lucro e dei favoritismi, ne consegue un assalto allo Stato privo di difensori 36.

12. 6. Chi ascolta le parole di Catone o meglio di Sallustio pensa che tutti gli antichi Romani o molti di loro fossero tali quali vengono esaltati. Non è così; altrimenti non sarebbero veri i fatti che lo stesso Sallustio narra e che io ho ricordato nel secondo libro di quest'opera 37. Egli afferma in quei passi che le ingiustizie dei potenti e a causa di esse la secessione della plebe dai patrizi e le altre discordie si ebbero in città fin dal principio. Si amministrò, aggiunge, con diritto equo e moderato non più a lungo del periodo in cui, con l'espulsione dei re, si ebbe il timore proveniente da Tarquinio, finché, cioè, non finì la grave guerra che per colpa di lui era stata intrapresa con l'Etruria. In seguito i patrizi trattarono la plebe da schiava, l'afflissero con un potere regale, la privarono dei campi e amministrarono da soli lo Stato con l'esclusione degli altri 38. Queste discordie, rinfocolate perché gli uni volevano dominare e gli altri non volevano sottostare, ebbero fine con la seconda guerra punica, perché un nuovo grave timore cominciò a incalzare e a frenare, a causa di un'altra più grave preoccupazione, gli spiriti inquieti dalle turbolenze, e a richiamarli alla concordia civica. Ma i grandi successi si ottennero per l'opera di pochi individui, onesti nel loro limite, sicché, affrontata e superata la difficile situazione mediante l'accortezza di poche persone dabbene, lo Stato progredì. Il medesimo storico confessa che, quando leggeva o udiva le molte celebri imprese compiute dal popolo romano in pace e in guerra, in guerre navali e terrestri, amava rivolgere l'attenzione sulla forza che aveva portato a compimento opere tanto grandi 39. Sapeva infatti che spesso una piccola schiera di Romani si era battuta con potenti legioni nemiche, aveva conosciuto le guerre compiute da soldati sprovvisti con regni forniti di mezzi. A forza di pensare, egli confessa, ha dovuto concludere che l'eccellente valore di pochi cittadini aveva realizzato tutte queste opere col risultato che la povertà aveva superato la ricchezza, i pochi avevano sconfitto i molti. Ma dopo che, soggiunge, la città fu depravata dal lusso e dall'inerzia, di nuovo lo Stato doveva mantenere con la propria grandezza i vizi dei capi e dei magistrati 40. Dunque anche da Catone è stata lodata la virtù dei pochi che aspiravano alla gloria, all'onore e al potere per la via giusta, cioè la stessa virtù. Da essa derivava l'operosità in privato, ricordata da Catone, in modo che l'erario fosse fornito e modeste le sostanze private. Per conseguenza, con la depravazione dei costumi, il vizio contrappose in pubblico la miseria e in privato l'abbondanza 41.

13. Per la qual cosa dopo la lunga durata degli illustri imperi dell'Oriente Dio volle che se ne formasse uno occidentale il quale, pur essendo posteriore nel tempo, fosse più illustre per l'estensione e la grandezza del dominio. Per punire la grave immoralità di molti popoli lo concesse di preferenza a individui che nella prospettiva dell'onore, della fama e della gloria provvidero alla patria, in cui aspiravano alla gloria stessa. Essi non dubitarono di anteporre la sua salvezza alla propria perché reprimevano il desiderio del guadagno e molti altri vizi per soddisfare questo solo vizio, cioè l'amore della fama. A proposito pensa più giustamente chi riconosce come vizio anche l'amore della fama. Il motivo non sfuggì neanche al poeta Orazio che dice: Se sei gonfio dell'amore alla fama, ci sono mezzi di purificazione che potranno rinnovarti; basta che leggi con animo schietto per tre volte un piccolo libro 42. E in un'ode così ha cantato per reprimere la brama sulla passione del potere: Dominerai su una estensione più vasta se domerai lo spirito avido che se unissi la Libia al territorio di Cadice e se fossero soggetti soltanto a te i Fenici e i Cartaginesi 43. Tuttavia coloro che non frenano le passioni più turpi con la fede religiosa mediante la partecipazione dello Spirito Santo e con l'amore della bellezza ideale, ma almeno col desiderio della fama e della gloria, non sono certamente santi ma meno disonesti. Anche Cicerone non ha potuto tacere sull'argomento nei citati libri Della repubblica, là dove parla della formazione del capo dello Stato. Afferma che egli deve essere nutrito di gloria e in seguito ricorda che i propri antenati per il desiderio della gloria compirono azioni degne di alta ammirazione 44. Quindi non solo non resistevano a questo vizio, anzi ritenevano di doverlo stimolare e accendere, perché pensavano che fosse utile per lo Stato. Ed anche nelle opere filosofiche Cicerone non passa sotto silenzio questa imperfezione, anzi ne parla apertamente. Trattando appunto degli studi filosofici che si devono seguire con lo scopo del vero bene e non per l'orgoglio della fama, espresse questa opinione che era quella di tutti: L'onore alimenta le arti e dalla gloria tutti sono stimolati alle varie attività e saranno sempre neglette quelle attività che sono disapprovate dall'opinione pubblica 45.

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