martedì 9 agosto 2011

La Città di Dio - XXIX parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continuiamo a vedere le sciagure che hanno colpito Roma; il periodo che oggi viene preso in considerazione è quello a cavallo tra le due celebri guerre puniche:
 

Libro terzo

LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA


18. 1. Con le due guerre puniche poi, dato che fra i due domini la vittoria rimase a lungo incerta con alterne possibilità e due popoli forti si sferravano attacchi violentissimi e con molti mezzi, i regni più piccoli furono abbattuti. Molte città illustri per fama furono distrutte, molte travagliate, molti Stati mandati in rovina. Molte regioni e paesi furono interamente devastati. Molte volte i vinti divennero vincitori dall'una e dall'altra parte. Molte persone furono uccise tanto fra i combattenti che fra la popolazione civile. Una enorme quantità di navi fu distrutta nelle guerre navali o colata a picco nelle numerose tempeste. Se mi sforzassi di esporre o richiamare, anche io sarei soltanto uno storiografo 85. In quell'occasione la città di Roma presa da grande timore ricorse a rimedi vani e ridicoli. Furono ripresi per ordine dei libri sibillini i giochi secolari, la cui celebrazione era stata stabilita ogni cento anni e che era stata sospesa per dimenticanza in tempi più tranquilli. I pontefici ristabilirono anche gli spettacoli sacri agli dèi inferi anche essi aboliti negli anni migliori del passato. Quando furono ristabiliti, infatti, era un gran divertimento rappresentare anche scenicamente che l'Ade si arricchiva di tanti morti. I poveri disgraziati appunto rappresentavano come spettacoli dei demoni e come lauti banchetti dell'Ade le guerre rabbiose, le sanguinose inimicizie, le funeste vittorie dell'una e dell'altra parte. Niente di più degno di compassione si ebbe durante la prima guerra punica della sconfitta subita dai Romani tanto duramente che fu fatto prigioniero anche Regolo. Ne ho parlato nel primo e nel secondo libro. Uomo veramente grande e in un primo tempo vincitore e soggiogatore dei Cartaginesi avrebbe portato a termine definitivamente la prima guerra punica se per eccessivo desiderio di lode e di gloria non avesse imposto agli stanchi Cartaginesi condizioni più pesanti di quanto essi potessero sopportare. Se l'imprevedibile sconfitta, la schiavitù indecorosa, il giuramento fedele e la morte veramente crudele di quell'uomo grande non costringe gli dèi ad arrossire, si vede proprio che sono fatti d'aria e che non hanno sangue.


18. 2. Non mancarono in quel periodo sventure gravissime nella città. In una straordinaria inondazione del Tevere quasi tutte le parti pianeggianti della città furono battute perché alcune furono travolte dalla violenza come di un torrente, altre rimasero inondate e sommerse per lungo tempo come in uno stagno. A questa calamità seguì il fuoco, ancor più pericoloso. Dopo avere invaso alcuni edifici più illustri attorno al foro, non risparmiò neanche il tempio di Vesta. D'altronde gli era molto familiare perché in esso le vestali, non tanto onorate quanto condannate, avevano la mansione di mantenergli quasi una vita perpetua con l'assidua sostituzione delle legna da bruciare. In quel caso il fuoco non solo si mantenne in vita ma incrudelì anche. Le vestali atterrite dalla sua violenza non riuscirono a salvare dall'incendio gli oggetti fatali che avevano già procurato la rovina delle tre città in cui avevano dimorato. Allora il pontefice Metello, dimentico in certo senso della propria incolumità, si precipitò e sebbene mezzo abbruciacchiato li mise in salvo 86. Il fuoco non riconobbe neanche lui, oppure vi era in quel posto una divinità che, anche se lo fosse stata, non riusciva a fuggire da sola. Quindi un uomo poté aiutare le insegne divine di Vesta anziché esse l'uomo. E se non erano capaci di respingere da se stessi il fuoco, in che cosa potevano aiutare la città contro le acque e le fiamme? Eppure si pensava che ne proteggessero l'incolumità. Il fatto in sé dimostrò che non potevano proprio un bel niente. Non farei certamente queste obiezioni se dicessero che quegli oggetti sacri non erano destinati a difendere i beni temporali ma a significare gli eterni; perciò se eventualmente venivano distrutti, perché corporali e visibili, non veniva tolto nulla a quei significati, cui erano destinati, e potevano essere riacquistati per i medesimi usi. Invece essi con incredibile cecità ritengono possibile il fatto che in virtù di quegli oggetti, che potevano essere distrutti, la salvezza terrena e il benessere temporale della patria non potevano essere distrutti. Pertanto, quando si dimostra loro che malgrado l'incolumità degli oggetti sacri sono sopravvenute o la perdita della salvezza o la sciagura, si vergognano di mutare un parere che non sono capaci di difendere.


19. Per quanto riguarda la seconda guerra punica, sarebbe troppo lungo rammentare le stragi dei due popoli che combatterono per tanto tempo e su un vasto territorio. Per confessione stessa di coloro che hanno inteso non tanto di narrare le guerre romane quanto piuttosto di esaltare la dominazione romana, il vincitore fu pari al vinto 87. Infatti quando Annibale, partendo dalla Spagna, superò i Pirenei, attraversò la Gallia, valicò le Alpi devastando e sottomettendo tutte le regioni con le forze aumentate lungo il tragitto e precipitò come torrente nel valico verso l'Italia, si ebbero molti sanguinosi combattimenti, molte volte i Romani furono sconfitti, molti paesi passarono al nemico, molti furono presi e distrutti, si ebbero dure battaglie il più delle volte gloriose per Annibale data la sconfitta romana. Che dire del disastro di Canne, tremendo oltre ogni pensare? Dopo di esso si dice che Annibale, per quanto molto crudele ma saziato dell'enorme massacro dei suoi più spietati nemici, abbia comandato di risparmiarli. Dopo la strage mandò a Cartagine tre moggi di anelli d'oro per far capire che in quella battaglia era caduta molta nobiltà romana e che la segnalava meglio la misura che il numero 88. Si doveva da ciò dedurre che il massacro del resto dell'esercito, tanto più numeroso quanto più povero che giaceva senza anelli, era più da congetturarsi che da segnalarsi. Ne seguì una così forte carenza di soldati che i Romani coscrissero i delinquenti dopo aver assicurato loro l'impunità ed emanciparono gli schiavi per costituire e non solo per redintegrare un esercito che era così un disonore. Mancavano le armi per gli schiavi, o meglio tanto per non far torto per gli ormai liberti destinati a combattere per lo Stato romano. Le armi furono detratte dai templi come se i Romani volessero dire ai propri dèi: "Deponete le armi che avete tenuto in mano inutilmente, perché i nostri schiavi forse possono fare qualche cosa di utile con quei mezzi con cui voi nostre divinità non siete state capaci". Non bastando più l'erario per corrispondere lo stipendio, le ricchezze private divennero di pubblico uso. Ciascuno pose in comune il proprio avere al punto che oltre tutti gli anelli e le bolle, pietosi simboli di nobiltà, il senato stesso e a più forte ragione gli altri ceti e classi non si lasciarono alcun oggetto d'oro 89. Chi sopporterebbe i nostri avversari se in questi tempi fossero costretti a tanta povertà? Li sopportiamo appena adesso che in vista di un superfluo divertimento si dà più denaro agli attori di quanto ne fu ammassato allora per le legioni in vista di un disperato tentativo di salvezza.

 

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