martedì 16 agosto 2011

La Città di Dio - XXX parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continuiamo a vedere le sciagure che hanno colpito Roma ed in particolare quelle seguenti le due guerre puniche:  

20. Ma fra tutti i disastri della seconda guerra punica il più degno di pietà e di deplorazione fu il massacro di quei di Sagunto. Questa città della Spagna, amicissima del popolo romano, fu distrutta perché gli si mantenne fedele. Annibale, violato il patto con i Romani, proprio da questa circostanza cercava il pretesto per provocarli alla guerra. Dunque assediava con ferocia Sagunto. Appena si seppe a Roma, furono mandati degli ambasciatori ad Annibale per indurlo ad abbandonare l'assedio. Non tenuti in alcun conto, essi andarono a Cartagine e lamentarono la violazione del patto ma tornarono a Roma senza aver concluso nulla. Durante questi indugi la disgraziata città molto ricca e molto cara alla Spagna e a Roma fu distrutta dai Cartaginesi all'ottavo o nono mese d'assedio. Fa raccapriccio leggerne e tanto più narrarne la fine. La ricorderò comunque brevemente giacché è molto pertinente all'argomento. Dapprima fu straziata dalla fame; si narra da alcuni che i cittadini si cibarono perfino dei cadaveri dei caduti. Infine stremati, per evitare almeno di cadere prigionieri nelle mani di Annibale, allestirono pubblicamente un grande rogo, nelle cui fiamme, dopo essersi anche trafitti di spada assieme ai propri familiari, tutti si abbandonarono. In questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa gli dèi ghiottoni e ciarlatani nebulosi che bramano il grasso delle vittime e ingannano con la foschia di presagi ambigui; in questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa, soccorrere una città molto amica del popolo romano e non permettere che subisse la catastrofe perché la subiva per aver mantenuta la fedeltà. Essi certamente intervennero quando si alleò mediante un patto allo Stato romano. Dunque perché mantenne fedelmente il patto, che sotto la loro protezione aveva stretto mediante delibera, che aveva reso vincolante con la fedeltà e indissolubile col giuramento, è stata assediata, schiacciata, distrutta da un uomo sleale. Se è vero che in seguito sono stati gli dèi ad atterrire e allontanare con temporali e fulmini Annibale vicinissimo alle mura di Roma, l'avrebbero dovuto fare anche prima. Oso dire appunto che sarebbero stati più onesti se avessero infuriato col temporale in favore degli amici dei Romani, i quali erano in pericolo proprio per non tradire la fedeltà ai Romani e non avevano mezzi di difesa, anziché in favore dei Romani che combattevano per se stessi ed erano ricchi di mezzi nel fronteggiare Annibale. Se fossero perciò difensori del benessere e dell'onore di Roma, ne avrebbero stornato la grave imputazione della rovina di Sagunto. Stoltamente dunque ora si crede che in virtù della loro protezione Roma non è andata in rovina malgrado la vittoria di Annibale, giacché non furono capaci di soccorrere la città di Sagunto affinché non andasse in rovina nel mantenere l'amicizia per Roma. Supponiamo che il popolo saguntino fosse cristiano e subisse tale sventura per la fede nel Vangelo, a parte che non si sarebbe data la morte con la spada o nel rogo, supponiamo comunque che subisse lo sterminio per la fede nel Vangelo. Avrebbe sofferto nella speranza per cui aveva creduto in Cristo, cioè non per la ricompensa di un tempo molto breve ma di una eternità senza fine. Ma a proposito di codesti dèi che, come si afferma, sono adorati o se ne va in cerca per adorarli al solo scopo che sia assicurato il benessere del mondo che fugge velocemente; che cosa mi risponderanno nei confronti dello sterminio di Sagunto coloro che li difendono e li scolpano? Faranno certamente lo stesso discorso che sulla fine di Regolo. Ma c'è una differenza. Quegli era un individuo, questa un'intera cittadinanza, sebbene causa della fine dell'uno e dell'altra sia stata la conservazione della fedeltà. Proprio per essa Regolo volle tornare ai nemici e Sagunto non volle passare ai nemici. Dunque il mantenimento della fedeltà provoca lo sdegno degli dèi? Ed è possibile che nonostante la protezione degli dèi siano perduti non solo individui ma intere città? Scelgano fra le due cose quella che preferiscono. Se gli dèi si sdegnano contro la fedeltà mantenuta, scelgano i rinnegati per essere onorati. Se poi è possibile che, malgrado il loro favore individui e città, colpiti da molti e gravi tormenti, vadano in rovina, gli dèi sono adorati senza il risultato del benessere terreno. La smettano dunque di arrabbiarsi coloro che pensano di essere divenuti disgraziati con la perdita dei misteri dei propri dèi. Anche se fossero rimasti e gli dèi li avessero aiutati, potevano non soltanto, come avviene adesso, lamentarsi del disastro avvenuto ma anche andare completamente in rovina dopo essere stati orrendamente straziati come Regolo e quelli di Sagunto.

Dalle guerre civili all'impero (21-31)

21. Tratto brevemente del periodo fra la seconda e la terza guerra punica, quando, come dice Sallustio, i Romani vissero con la più alta moralità e con la massima concordia 90. Tralascio molti fatti pensando ai limiti della mia opera. In quel tempo dunque di alta moralità e di massima concordia, Scipione, il liberatore di Roma e dell'Italia, stratega egregio e ammirevole della seconda guerra punica tanto orribile, tanto disastrosa e pericolosa, vincitore di Annibale e trionfatore di Cartagine, sebbene la sua vita fin dall'adolescenza, come si narra 91, fosse dedicata agli dèi e cresciuta nei templi, fu vittima delle accuse dei rivali. Esiliato dalla patria, che aveva salvata e liberata col proprio valore, passò il resto della vita e la finì nella cittadina di Literno. Nonostante il suo insigne trionfo, non fu mai preso dal desiderio di rivedere Roma, ordinò anzi, come si narra 92, che dopo la morte nemmeno il funerale si celebrasse nell'ingrata patria. Subito dopo per la prima volta a mezzo del proconsole Gneo Manlio, vincitore dei Galati, s'introdusse a Roma la dissolutezza asiatica peggiore di ogni nemico. Si racconta 93 che per la prima volta si cominciarono a vedere divani guarniti di bronzo e tappeti preziosi; furono introdotte le suonatrici durante i conviti e altre forme di depravazione. Ma mi sono prefisso di parlare per ora di quei mali che gli uomini subiscono contro voglia e non di quelli che compiono volontariamente. E perciò attiene a questo discorso soprattutto l'episodio che ho citato di Scipione, che, cioè, vittima dei rivali, morì fuori della patria che aveva liberata, poiché le divinità di Roma, dai cui templi aveva allontanato Annibale, non lo ricambiarono, sebbene siano onorate soltanto per il benessere terreno. Ma appunto perché Sallustio ha affermato che in quei tempi esisteva la più alta moralità, ho pensato che si dovesse ricordare l'episodio della frivolezza asiatica, affinché s'intenda che Sallustio ha parlato così nel confronto con altri tempi, in cui la moralità, a causa di gravissime discordie, fu certamente peggiore. Proprio allora, cioè fra la seconda e l'ultima guerra punica fu anche promulgata la legge Voconia perché non fosse costituita erede una donna, neanche se figlia unica 94. Non so che cosa si può prescrivere o pensare di più ingiusto che una legge simile. Comunque nell'intermezzo fra le due guerre puniche il decadimento fu più sopportabile. L'esercito si logorava soltanto con guerre esterne ma si consolava con le vittorie; in città non si avevano le discordie avutesi in altri tempi. Ma nell'ultima guerra punica con un solo attacco dell'altro Scipione, che per questo ebbe anche egli il soprannome di Africano, la rivale della dominazione romana fu letteralmente estirpata. Ma lo Stato romano fu oppresso da un peso grave di mali. Data infatti la sicurezza nel benessere, da cui con l'eccessiva corruzione morale furono accumulati quei mali, si può affermare che fu più di danno la rapida distruzione che la lunga rivalità di Cartagine. Tralascio tutto il periodo fino a Cesare Augusto il quale, come è noto, sottrasse del tutto ai Romani la libertà che, anche secondo la loro opinione, non era più apportatrice di gloria ma di lotte e disastri e ormai completamente priva di nerbo e vigore, richiamò tutti i poteri all'illimitata autorità regale, rinvigorì e ringiovanì, per così dire, lo Stato quasi cadente per decrepitezza. Di tutto questo periodo tralascio dunque le varie stragi militari dovute a cause diverse e il patto con Numanzia che è una macchia d'infamia. Erano fuggiti da una gabbia alcuni galli ed erano stati, a sentir loro, di malaugurio per il console Mancino 95, come se in tanti anni, durante i quali la piccola città cinta d'assedio aveva logorato l'esercito di Roma e cominciava a sbigottire lo stesso Stato romano, gli altri comandanti l'avessero attaccata con auspicio favorevole.

22. Ometto, ripeto, questi fatti, sebbene non vorrei passare sotto silenzio che Mitridate, un re dell'Asia, diede ordine che in un solo giorno fossero uccisi i Romani che soggiornavano in qualsiasi posto dell'Asia e che attendevano con molte ricchezze ai propri affari. Così fu fatto 96. Fu uno spettacolo raccapricciante che un individuo, dovunque fosse stato trovato, in un campo, in una via, in un castello, nella casa, in un borgo, in piazza, in un tempio, a letto, a mensa, senza che se l'aspettasse e contro ogni diritto venisse ucciso. Grande fu il lamento di coloro che venivano uccisi, grande il pianto dei presenti e forse anche di coloro che uccidevano. Dura fu la condizione degli ospitanti non solo nel vedere a casa propria quelle stragi ma anche nel doverle compiere, costretti come erano a cambiare improvvisamente il viso da una gentile espressione di cortesia a un gesto da nemico compiuto in tempo di pace e, direi, con ferite d'ambo le parti, perché il ferito era colpito nel corpo e chi colpiva nella coscienza. Tutti quei Romani non si erano curati degli àuspici? Non avevano forse gli dèi domestici e pubblici da consultare, quando dalle loro case partirono per quel viaggio senza ritorno? Se non li hanno consultati, i nostri contemporanei non hanno motivo per lamentarsi della nostra civiltà, giacché da tempo i Romani disprezzano queste inutili pratiche. Se poi li hanno consultati, mi si dica quale profitto hanno dato dette pratiche quando erano ammesse dalle leggi umane senza alcuna restrizione.

23. Ma ormai devo far menzione, nei limiti delle mie possibilità, dei mali che furono tanto più disastrosi perché interni: discordie civili o piuttosto incivili, che non erano più sedizioni ma vere guerre in città durante le quali fu versato molto sangue e le passioni di parte non si limitarono alle polemiche e alle varie voci della pubblica opinione ma inferocivano ormai apertamente con le armi. Le guerre sociali, le guerre servili, le guerre civili fecero versare molto sangue romano e produssero l'immiserimento e lo spopolamento dell'Italia. Infatti prima che si organizzasse contro Roma la lega laziale, tutti gli animali addomesticati, cani, cavalli, asini, buoi e tutte le altre bestie di proprietà dell'uomo, tornate rapidamente allo stato selvaggio e dimentiche dell'addomesticamento, abbandonate le case, vivevano brade e aborrivano l'avvicinarsi non solo degli estranei ma anche dei padroni, con la morte o il pericolo di chi osava molestarli da vicino 97. E fu segno di un grande male se fu segno, ma fu un gran male se non fu anche segno. Se fosse avvenuto ai nostri giorni, vedremmo i nostri contemporanei più rabbiosi di quel che gli uomini di allora videro i propri animali.

 

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