martedì 31 gennaio 2012

La Città di Dio - XLIX parte

Dopo un giorno di lutto che abbiamo voluto dedicare alla nostra Patrizia, torniamo a fare quello che lei ci ha sempre spinti a fare. Continuiamo dunque la lettura del capitolo quinto:

Libro quinto
VISIONE IRRAZIONALISTA E RAZIONALISTA DELLA STORIA


Confronto fra la visione irrazionalista e razionalista (12-26)

12. 1. Ed ora esaminiamo le virtù civili dei Romani che il vero Dio ha voluto favorire per l'ingrandimento dell'impero e quale ne è la ragione, poiché in suo potere sono tutti i regni terreni. Per poterne trattare più esaurientemente, ho scritto, in aderenza all'argomento, il libro precedente, in quanto gli dèi, che i Romani hanno ritenuto di dover adorare anche per banali interessi, non hanno alcun potere in questo settore. Ho premesso anche la prima parte di questo libro fino a questo punto per definire la questione del fato, affinché chi fosse convinto che l'impero non si era ingrandito e conservato mediante il culto degli dèi non attribuisse il fatto a non saprei quale destino piuttosto che alla volontà altamente potente del sommo Dio. Ora i più antichi Romani, stando a quanto insegna e ricorda la loro storia, sebbene adorassero falsi dèi e sacrificassero non a Dio ma ai demoni, come gli altri popoli eccetto il popolo ebraico, tuttavia erano desiderosi di lode e non attaccati al guadagno, volevano una grande gloria e una dignitosa ricchezza 24. Amarono la gloria ardentemente, per essa vollero vivere, per essa non esitarono a morire, repressero le altre passioni nella veemente passione della sola gloria. E poiché ritenevano inglorioso essere soggetti e glorioso assoggettare col dominio, desiderarono che la loro patria fosse dapprima libera e poi dominatrice. Per questo motivo non tollerando il dominio dei re, costituirono annuali le cariche del comando e due capi 25. Essi furono chiamati consoli da consigliare e non re o signori da regnare e signoreggiare 26. E sebbene i re, come sembra, siano denominati da reggere come il regno dai re e i re, come è stato detto, da reggere, tuttavia l'orgoglio regale fu considerato non l'esercizio del potere di chi regge o la benevolenza di chi consiglia ma la superbia di chi la fa da padrone. Perciò dopo l'espulsione di Tarquinio e la costituzione del consolato si verificò ciò che il citato autore scrisse in lode dei Romani: È incredibile quanto progredì la città col conseguimento della libertà, perché era sopravvenuta la grande passione della gloria 27. Dunque il desiderio di lode e la passione della gloria produssero opere degne di ammirazione, cioè lodevoli e gloriose secondo la valutazione umana.

12. 2. Il citato Sallustio esalta come grandi e illustri uomini del suo tempo Marco Catone e Caio Cesare. Dice che da tempo lo Stato non aveva avuto un individuo eccellente per valore ma che al suo tempo si ebbero quei due di grande valore, sebbene di diverse attitudini. A lode di Cesare ricorda che ambiva per sé un forte dominio, un esercito e una nuova guerra, durante la quale potesse segnalarsi il suo valore. C'era dunque nell'ambizione degli individui valorosi che Bellona spingesse alla guerra popoli disgraziati e li sconvolgesse in una sventura sanguinosa perché si presentasse l'occasione in cui emergesse il valore degli individui. Lo esigevano certamente il desiderio di lode e la passione della gloria. I Romani perciò compirono grandi imprese dapprima per amore della libertà e poi anche del dominio e per la passione della lode e della gloria. Un loro insigne poeta rende loro testimonianza dell'uno e dell'altro; ha cantato: Porsenna ingiungeva di riammettere l'espulso Tarquinio e assediava Roma con un grande esercito. I discendenti di Enea accorrevano alla guerra per la difesa della libertà 28. In quel tempo quindi considerarono grandezza o morire da forti o vivere liberi. Ma conseguita la libertà era sopraggiunta una così grande passione della gloria che diveniva trascurabile la sola libertà, se non si cercava anche il dominio. Si considerava grande il sentimento che il medesimo poeta esprime facendo parlare Giove: Anzi la spietata Giunone, che ora sconvolge col timore mare, terra e cielo, muterà in meglio le proprie intenzioni e favorirà con me i Romani padroni del mondo e gente togata. Così ho disposto. Col passare degli anni verrà un tempo, in cui i discendenti di Assaraco assoggetteranno Ftia e la illustre Micene e signoreggeranno sui Greci vinti 29. Ovviamente Virgilio facendo prevedere da Giove come futuri questi eventi, li rievocava come passati o li osservava come presenti. Comunque io ho voluto richiamarli per mostrare appunto che dopo la libertà i Romani considerarono il dominio in maniera tale che apparisse fra le lodi loro dovute. Da qui deriva la concezione del medesimo poeta di considerare superiori alle arti delle altre genti le attività proprie dei Romani, del reggere col dominio e di sottomettere con la guerra. Ha cantato: Gli altri scolpiranno con maggiore delicatezza i bronzi che sembrano respirare, lo ammetto, faranno uscire dal marmo dei volti vivi, difenderanno meglio le cause, tracceranno in un cerchio i movimenti del cielo e definiranno il sorgere degli astri. Tu, o Romano, ricordati, poiché queste sono le tue arti, di reggere i popoli col dominio, d'imporre le condizioni della pace, di risparmiare i soggetti e di sconfiggere i ribelli 30.

12. 3. Esercitavano queste arti con tanto maggior bravura quanto meno si davano ai piaceri e all'infiacchimento spirituale e fisico nel procacciarsi e aumentare le ricchezze e nel rendere con esse depravati i costumi rubando ai cittadini onesti e largheggiando con gli attori disonesti. Pertanto giacché la depravazione morale, quando Sallustio scriveva e Virgilio cantava questi fatti, aveva il pieno sopravvento, ambivano cariche onorifiche e gloria non con le arti del potere ma con brogli fraudolenti. Perciò scrive il citato Sallustio: Dapprima più l'ambizione che l'avarizia travolgeva la coscienza degli individui. Tuttavia il vizio dell'ambizione è molto vicino alla virtù. Infatti tanto la persona capace che l'inetta cercano di procacciarsi gloria, onore e potere, ma il primo vi tende per la via giusta, l'altro, giacché gli mancano le buone arti, vi aspira con i brogli fraudolenti 31. Sono queste le buone arti: il raggiungere, cioè, l'onore, la gloria e il potere mediante la virtù e non mediante l'ambizione; tuttavia tanto la persona capace che l'inetta si affannano a raggiungerli, ma quegli, cioè la persona capace, vi tende per la via giusta. La via è la virtù con cui si tende come alla mèta del conseguimento, cioè alla gloria, all'onore e al potere. Che i Romani avessero innato questo sentimento lo indicano nella loro città anche i tempietti, costruiti appunto in contiguità, degli dèi Virtù e Onore 32, sebbene considerassero dèi i doni di Dio. Dal fatto è possibile capire quale, secondo le loro intenzioni, fosse la mèta della virtù e a che cosa la riferivano quelli che erano buoni, cioè all'onore. I cattivi non avevano la virtù, sebbene bramassero conseguire l'onore che tentavano di conquistare con le cattive arti, cioè con i brogli fraudolenti.

domenica 29 gennaio 2012

Filotea: Introduzione alla vita devota - XXX

Proseguiamo l'appuntamento con Filotea: Introduzione alla vita devota di San Francesco di Sales. Continuiamo a seguire la parte dedicata alle meditazioni:





FILOTEA
Introduzione alla vita devota

(San Francesco di Sales)



SECONDA PARTE

Contiene diversi consigli per l’elevazione dell’anima a Dio per mezzo dell’Orazione e dei Sacramenti.

Capitolo VI


TERZA PARTE DELLA MEDITAZIONE: AFFETTI E PROPOSITI


La meditazione arricchisce la volontà, che è la parte affettiva della nostra anima, di buoni movimenti, quali l’amore di Dio e del prossimo, il desiderio del Paradiso e della sua gloria, lo zelo per la salvezza delle anime, l’imitazione della vita di Nostro Signore, la pietà per gli altri, l’ammirazione, la gioia, il timore di cadere in disgrazia di Dio, del suo giudizio, dell’inferno, l’odio per il peccato, la fiducia nella bontà e nella misericordia di Dio, la vergogna per i disordini della vita passata: il nostro spirito deve esprimersi ed allargarsi il più possibile in questi affetti.

Tuttavia, cara Filotea, non soffermarti troppo sugli affetti generali, ma mutali subito in propositi specifici e dettagliati per correggerti e liberarti dai difetti. Per esempio, la prima Parola che Nostro Signore disse sulla Croce, farà sorgere senz’altro nella tua anima un affetto che ti spingerà all’imitazione, ossia il desiderio di perdonare ed amare i tuoi nemici. Io ti dico che questo è poco se non ci aggiungi un proposito così formulato: Coraggio, allora, d’ora in poi non mi offenderò più di certe parole cattive del tal vicino o della tal vicina, del mio domestico o della mia domestica; e nemmeno di quelle ingiurie sprezzanti che mi sono stae rivolte da quell’altro. Al contrario farò questa o quella cosa gentile per conquistarlo, e così per gli altri.

In tal modo, Filotea, in poco tempo correggerai le tue colpe, mentre, poggiando soltanto sugli affetti, ci metteresti molto di più e con un risultato dubbio.

sabato 28 gennaio 2012

Il Sabato dei Salmi - Salmo 89 - Inno e preghiera al Dio fedele

Salmo 89   

Inno e preghiera al Dio fedele 
[1]Maskil. Di Etan l'Ezraita.
[2]Canterò senza fine le grazie del Signore,
con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nei secoli,
[3]perché hai detto: «La mia grazia rimane per sempre»;
la tua fedeltà è fondata nei cieli.
[4]«Ho stretto un'alleanza con il mio eletto,
ho giurato a Davide mio servo:
[5]stabilirò per sempre la tua discendenza,
ti darò un trono che duri nei secoli». 

[6]I cieli cantano le tue meraviglie, Signore,
la tua fedeltà nell'assemblea dei santi.
[7]Chi sulle nubi è uguale al Signore,
chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?
[8]Dio è tremendo nell'assemblea dei santi,
grande e terribile tra quanti lo circondano. 

[9]Chi è uguale a te, Signore, Dio degli eserciti?
Sei potente, Signore, e la tua fedeltà ti fa corona.
[10]Tu domini l'orgoglio del mare,
tu plachi il tumulto dei suoi flutti.
[11]Tu hai calpestato Raab come un vinto,
con braccio potente hai disperso i tuoi nemici. 

[12]Tuoi sono i cieli, tua è la terra,
tu hai fondato il mondo e quanto contiene;
[13]il settentrione e il mezzogiorno tu li hai creati,
il Tabor e l'Ermon cantano il tuo nome.
[14]E' potente il tuo braccio,
forte la tua mano, alta la tua destra.
[15]Giustizia e diritto sono la base del tuo trono,
grazia e fedeltà precedono il tuo volto. 

[16]Beato il popolo che ti sa acclamare
e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto:
[17]esulta tutto il giorno nel tuo nome,
nella tua giustizia trova la sua gloria.
[18]Perché tu sei il vanto della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra potenza.
[19]Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d'Israele. 

[20]Un tempo parlasti in visione ai tuoi santi dicendo:
«Ho portato aiuto a un prode,
ho innalzato un eletto tra il mio popolo.
[21]Ho trovato Davide, mio servo,
con il mio santo olio l'ho consacrato;
[22]la mia mano è il suo sostegno,
il mio braccio è la sua forza. 

[23]Su di lui non trionferà il nemico,
né l'opprimerà l'iniquo.
[24]Annienterò davanti a lui i suoi nemici
e colpirò quelli che lo odiano.
[25]La mia fedeltà e la mia grazia saranno con lui
e nel mio nome si innalzerà la sua potenza.
[26]Stenderò sul mare la sua mano
e sui fiumi la sua destra. 

[27]Egli mi invocherà: Tu sei mio padre,
mio Dio e roccia della mia salvezza.
[28]Io lo costituirò mio primogenito,
il più alto tra i re della terra.
[29]Gli conserverò sempre la mia grazia,
la mia alleanza gli sarà fedele.
[30]Stabilirò per sempre la sua discendenza,
il suo trono come i giorni del cielo. 

[31]Se i suoi figli abbandoneranno la mia legge
e non seguiranno i miei decreti,
[32]se violeranno i miei statuti
e non osserveranno i miei comandi,
[33]punirò con la verga il loro peccato
e con flagelli la loro colpa. 

[34]Ma non gli toglierò la mia grazia
e alla mia fedeltà non verrò mai meno.
[35]Non violerò la mia alleanza,
non muterò la mia promessa.
[36]Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre:
certo non mentirò a Davide.
[37]In eterno durerà la sua discendenza,
il suo trono davanti a me quanto il sole,
[38]sempre saldo come la luna,
testimone fedele nel cielo». 

[39]Ma tu lo hai respinto e ripudiato,
ti sei adirato contro il tuo consacrato;
[40]hai rotto l'alleanza con il tuo servo,
hai profanato nel fango la sua corona.
[41]Hai abbattuto tutte le sue mura
e diroccato le sue fortezze;
[42]tutti i passanti lo hanno depredato,
è divenuto lo scherno dei suoi vicini. 

[43]Hai fatto trionfare la destra dei suoi rivali,
hai fatto gioire tutti i suoi nemici.
[44]Hai smussato il filo della sua spada
e non l'hai sostenuto nella battaglia.
[45]Hai posto fine al suo splendore,
hai rovesciato a terra il suo trono.
[46]Hai abbreviato i giorni della sua giovinezza
e lo hai coperto di vergogna. 

[47]Fino a quando, Signore,
continuerai a tenerti nascosto,
arderà come fuoco la tua ira?
[48]Ricorda quant'è breve la mia vita.
Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?
[49]Quale vivente non vedrà la morte,
sfuggirà al potere degli inferi? 

[50]Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo,
che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?
[51]Ricorda, Signore, l'oltraggio dei tuoi servi:
porto nel cuore le ingiurie di molti popoli,
[52]con le quali, Signore, i tuoi nemici insultano,
insultano i passi del tuo consacrato.
[53]Benedetto il Signore in eterno.
Amen, amen.

Il salmo 89 ci fa penetrare con lo sguardo nella più grave prova della fede nella storia della salvezza dell’Antico Testamento: il Dio dell’Alleanza, il Dio fedele, ha apparentemente revocato il suo patto eterno con Davide. Al salmista non sembra più possibile conciliare le promesse messianiche fatte alla casa di Davide con la miserevole realtà del presente. Eppure egli non si abbandona alla disperazione. Il Dio dell’Alleanza può sempre intervenire un’altra volta e mettere fine al lungo periodo della prova.

La rivelazione del Nuovo Testamento ha dato la risposta divina all’interrogativo che il salmo pone: il patto con Davide non è stato mai realmente annullato, anche se la sua forma terrena è stata soggetta alla transitorietà della storia. L’annunciazione della nascita di Gesù abolisce ogni apparente revoca del patto con Davide: "Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine" (Lc 1,32-33). In Cristo si è compiuto nel modo più perfetto l’oracolo riguardante il re dei vv. 20-38.

Commento dei Padri della Chiesa

v. 2 "Le grazie del Signore sono la promessa accordata a Davide, pegno della benevolenza divina" (Origene).

«Nel v. 50 dirà: "Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo?". Perciò si dà cura di rispondere come se dicesse: Malgrado le cose umane mi turbino e gettino l’angoscia e l’esitazione nel mio cuore, al punto che a volte dubito delle tue promesse, perché ciò che ci accade è proprio il contrario di quanto hai promesso, malgrado dunque tutto questo, io voglio cominciare proclamando la mia fede: "Canterò senza fine le grazie del Signore"; non solo oggi, ma anche nei momenti più tristi e in eterno! Perché io so che tu sei un Dio verace e quando hai parlato una volta non cambi più. La tua verità non verrà mai meno. Tutto il salmo profetizza la nascita del Cristo dalla stirpe di Davide e il suo regno» (Eusebio).

"Le grazie del Signore sono la liberazione dal peccato e dalla morte" (Atanasio).
«Il mistero di questo salmo si estende alla passione di nostro Signore: nel Cristo la misericordia eterna è stata fondata e questo edificio non è fatto da mani d’uomo, ma dallo Spirito santo. La verità di questo edificio è il giuramento fatto a Davide di un messia della sua stirpe, che sarà re universale e vincitore. Il Signore Gesù Cristo ha offerto un segno di questo dominio universale quando, sul lago, ha comandato ai venti e al mare, simboli delle potenze avverse... Dio non ha voluto per lui l’aiuto della spada (v. 44): "Rimetti la spada nel fodero" (Mt 26,52); non gli ha mandato i suoi ausiliari, le legioni di angeli; ha abbreviato i giorni della sua vita; l’ha talmente abbeverato di umiliazioni che è stato annoverato tra i malfattori ed appeso al patibolo della croce tra due assassini. Or questo non è ira, ma misericordia; colui che abbiamo pianto nella sua passione, noi l’acclamiamo risuscitato dai morti e camminiamo alla luce del suo volto" (Arnobio il giovane).

v. 3 "Citare le parole di Dio è piegarlo alla misericordia: Tu hai promesso per l’eternità che questo edificio della misericordia sarà stabile. La parola edificio si addice perfettamente perché fu fatto in parecchi strati: cominciò con Abramo, si estese al popolo d’Israele e infine al mondo intero. La promessa di Dio a Davide diceva che la sua discendenza, che è il Cristo, sarebbe stata stabile" (Origene).

"La iniziale misericordia di Dio per l’uomo non fa che aumentare dalla creazione e costruirsi di generazione in generazione come un edificio... Le promesse di Dio a Davide non sono terrestri, ma celesti" (Eusebio).

v. 7 "Anche quando annienta se stesso (cfr. Fil 2,7) resta il Signore incomparabile, il cui splendore noi abbiamo ricevuto" (Atanasio).

v. 11 «Una volta abbattuto il drago dal Cristo, come canta il salmo: "Tu hai calpestato Raab come un vinto", gli apostoli e i martiri si precipitarono in questo combattimento (cfr. Ap 12,17)» (Ruperto).

v. 16 "Siccome si tratta del canto di vittoria, il salmista dichiara beati quelli che hanno l’abitudine della vittoria... Questa esultanza o acclamazione è il grido di vittoria per la vittoria del Cristo" (Origene).

"Ci ha guardati nel volto del Cristo, tanto che il Padre ci ha visti tutti nel Figlio suo; è nel Figlio che la benevolenza del Padre ha preparato e compiuto il mistero che ci riguarda" (Esichio di Gerusalemme).

v. 18 "La conoscenza di Dio innalza lo spirito" (Origene).

"O Padre, perché ti sei compiaciuto di mandare il tuo Figlio unigenito, s’è innalzata la nostra gloria; noi siamo risuscitati col Cristo" (Atanasio).

v. 20 «Noi parliamo alle orecchie di qualcuno, ma Dio parla in visione; per questo tutto il popolo "vide" la voce (cfr. Es 20,18)» (Origene).

"Per la pietà di Davide che voleva innalzarmi un tempio, farò nascere da lui il mio vero tempio santo: il Cristo (cfr. Gv 2,19)" (Eusebio).

v. 21 "L’unzione è lo Spirito santo" (Atanasio).

v. 23 "Il diavolo ha trionfato su Adamo. Sul Cristo non avrà alcuna possibilità di vittoria; lo tenterà, ma non approderà a nulla" (Beda).

v. 30 "La discendenza del Cristo è la chiesa" (Eusebio).

"La discendenza di Davide è il Cristo" (Cassiodoro).

v. 37 "Il seme di Cristo è la sua parola e la sua chiesa: è lui infatti il seminatore di cui parla Lc 8,5" (Eusebio).

"Promessa della perennità della chiesa, che è il trono del Cristo" (Cirillo di Alessandria).

vv. 39-46 «Tutte queste lamentose constatazioni valgono per la successione visibile di Davide. Ma il senso spirituale nel quale devono realizzarsi le promesse ci è stato offerto nei vv. 3 e 15 nei quali è detto chiaramente che le promesse di Dio sono celesti. "Il mio regno non è di questo mondo" (Gv 18,36). Il trono, come il sole (v. 37), richiama le parole dell’angelo alla Vergine: "Il suo regno non avrà fine" (Lc 1,33)» (Eusebio).

"Gli immediati discendenti del Davide storico non hanno retto. Poiché gli uomini ignoranti credevano che le promesse fossero per il Davide storico, Dio li ha forzati a cercare un altro Davide: il Cristo. Salomone è caduto facendo posto al Messia" (Beda).

"Durante la passione i suoi nemici si rallegravano e lo beffeggiavano" (Atanasio).

"Tu hai posto fine alla sua vita terrena perché ritornasse più presto al Padre" (Girolamo).

"La vergogna è la confusione della morte" (Girolamo).

vv. 47-49 "Tu non disprezzi gli uomini, li hai creati nell’onore, li hai creati a tua immagine. E non li hai creati invano, per nulla: li hai creati per la grande speranza riposta in te, fondata su di te. Non permettere che si perda la tua opera e la tua immagine. Poiché gli uomini non possono riscattare se stessi, mandaci il Cristo e con lui tutti i beni. Affrettati prima che tutto il genere umano perisca. Manda colui che solo può liberare dalla morte se stesso e gli altri" (Eusebio).

"Tu non hai creato invano i figli degli uomini: hai dato loro la speranza della risurrezione. A quanta maggior ragione tu devi risuscitare tuo Figlio!" (Girolamo).

"Chi è quest’uomo? Nessun uomo sfugge alla morte; ma nella carne del Cristo era nascosto Dio e non doveva essere trattenuto dalla morte" (Girolamo).

v. 50 "Dove sono le tue misericordie di un tempo, Signore? Dove le nascondi? Quando verranno? Noi cristiani vediamo con i nostri occhi che queste misericordie antiche sono state compiute nel nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo" (Eusebio).

v. 51 "Il Verbo ha portato nel suo cuore le iniquità di tutti i popoli" (Eusebio).

v. 52 "Gli empi l’hanno disprezzato, pensando che egli fosse, come gli altri, soggetto al dominio della morte: ma egli non è rimasto nella morte" (Atanasio).

v. 53 «Benedetto sia il Signore che risale glorioso dagli inferi e si mostra ai discepoli dicendo: "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20)» (Girolamo).

giovedì 26 gennaio 2012

Catechismo della Chiesa Cattolica - LXI

Proseguiamo l'appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Concludiamo la lettura dell'Articolo 1 incentrato sul Sacramento del Battesimo:



PARTE SECONDA  
LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO CRISTIANO

SEZIONE SECONDA 
«I SETTE SACRAMENTI DELLA CHIESA»

CAPITOLO PRIMO 
I SACRAMENTI DELL'INIZIAZIONE CRISTIANA

ARTICOLO 1 
IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO

1261 Quanto ai bambini morti senza Battesimo, la Chiesa non può che affidarli alla misericordia di Dio, come appunto fa nel rito dei funerali per loro. Infatti, la grande misericordia di Dio, « il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati » (1 Tm 2,4), e la tenerezza di Gesù verso i bambini, che gli ha fatto dire: « Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite » (Mc 10,14), ci consentono di sperare che vi sia una via di salvezza per i bambini morti senza Battesimo. Tanto più pressante è perciò l'invito della Chiesa a non impedire che i bambini vengano a Cristo mediante il dono del santo Battesimo.


VII. La grazia del Battesimo


1262 I diversi effetti operati dal Battesimo sono significati dagli elementi sensibili del rito sacramentale. L'immersione nell'acqua richiama i simbolismi della morte e della purificazione, ma anche della rigenerazione e del rinnovamento. I due effetti principali sono dunque la purificazione dai peccati e la nuova nascita nello Spirito Santo.60


Per la remissione dei peccati


1263 Per mezzo del Battesimo sono rimessi tutti i peccati, il peccato originale e tutti i peccati personali, come pure tutte le pene del peccato.61 In coloro che sono stati rigenerati, infatti, non rimane nulla che impedisca loro di entrare nel regno di Dio, né il peccato di Adamo, né il peccato personale, né le conseguenze del peccato, di cui la più grave è la separazione da Dio.


1264 Rimangono tuttavia nel battezzato alcune conseguenze temporali del peccato, quali le sofferenze, la malattia, la morte, o le fragilità inerenti alla vita come le debolezze del carattere, ecc., e anche una inclinazione al peccato che la Tradizione chiama la concupiscenza, o, metaforicamente, l'incentivo del peccato (« fomes peccati »): « Essendo questa lasciata per la prova, non può nuocere a quelli che non vi acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, "non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole" (2 Tm 2,5) ».62


«Una nuova creatura»


1265 Il Battesimo non soltanto purifica da tutti i peccati, ma fa pure del neofita una « nuova creatura » (2 Cor 5,17), un figlio adottivo di Dio63 che è divenuto « partecipe della natura divina » (2 Pt 1,4), membro di Cristo64 e coerede con lui,65 tempio dello Spirito Santo.66


1266 La Santissima Trinità dona al battezzato la grazia santificante, la grazia della giustificazione che


— lo rende capace di credere in Dio, di sperare in lui e di amarlo per mezzo delle virtù teologali;


— gli dà la capacità di vivere e agire sotto la mozione dello Spirito Santo per mezzo dei doni dello Spirito Santo;


— gli permette di crescere nel bene per mezzo delle virtù morali.


In questo modo tutto l'organismo della vita soprannaturale del cristiano ha la sua radice nel santo Battesimo.


Incorporati alla Chiesa, corpo di Cristo


1267 Il Battesimo ci fa membra del corpo di Cristo. « Siamo membra gli uni degli altri » (Ef 4,25). Il Battesimo incorpora alla Chiesa. Dai fonti battesimali nasce l'unico popolo di Dio della Nuova Alleanza che supera tutti i limiti naturali o umani delle nazioni, delle culture, delle razze e dei sessi: « In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo » (1 Cor 12,13).


1268 I battezzati sono divenuti « pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo » (1 Pt 2,5). Per mezzo del Battesimo sono partecipi del sacerdozio di Cristo, della sua missione profetica e regale, sono « la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui » che li « ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce » (1 Pt 2,9). Il Battesimo rende partecipi del sacerdozio comune dei fedeli.


1269 Divenuto membro della Chiesa, il battezzato non appartiene più a se stesso,67 ma a colui che è morto e risuscitato per noi.68 Perciò è chiamato a sottomettersi agli altri,69 a servirli70 nella comunione della Chiesa, ad essere « obbediente » e « sottomesso » ai capi della Chiesa,71 e a trattarli « con rispetto e carità ».72 Come il Battesimo comporta responsabilità e doveri, allo stesso modo il battezzato fruisce anche di diritti in seno alla Chiesa: quello di ricevere i sacramenti, di essere nutrito dalla Parola di Dio e sostenuto dagli altri aiuti spirituali della Chiesa.73


1270 « Rigenerati [dal Battesimo] per essere figli di Dio, [i battezzati] sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa »74 e a partecipare all'attività apostolica e missionaria del popolo di Dio.75


Il vincolo sacramentale dell'unità dei cristiani


1271 Il Battesimo costituisce il fondamento della comunione tra tutti i cristiani, anche con quanti non sono ancora nella piena comunione con la Chiesa cattolica: « Quelli infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto debitamente il Battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. [...] Giustificati nel Battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo, e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore ».76 « Il Battesimo quindi costituisce il vincolo sacramentale dell'unità che vige tra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati ».77


Un sigillo spirituale indelebile


1272 Incorporato a Cristo per mezzo del Battesimo, il battezzato viene conformato a Cristo.78 Il Battesimo segna il cristiano con un sigillo spirituale indelebile (« carattere ») della sua appartenenza a Cristo. Questo sigillo non viene cancellato da alcun peccato, sebbene il peccato impedisca al Battesimo di portare frutti di salvezza.79 Conferito una volta per sempre, il Battesimo non può essere ripetuto.


1273 Incorporati alla Chiesa per mezzo del Battesimo, i fedeli hanno ricevuto il carattere sacramentale che li consacra per il culto religioso cristiano.80 Il sigillo battesimale abilita e impegna i cristiani a servire Dio mediante una viva partecipazione alla santa liturgia della Chiesa e a esercitare il loro sacerdozio battesimale con la testimonianza di una vita santa e con una operosa carità.81


1274 Il « sigillo del Signore »82 è il sigillo con cui lo Spirito Santo ci ha segnati « per il giorno della redenzione » (Ef 4,30).83 « Il Battesimo, infatti, è il sigillo della vita eterna ».84 Il fedele che avrà « custodito il sigillo » sino alla fine, ossia che sarà rimasto fedele alle esigenze del proprio Battesimo, potrà morire nel « segno della fede »,85 con la fede del proprio Battesimo, nell'attesa della beata visione di Dio – consumazione della fede – e nella speranza della risurrezione.


In sintesi


1275 L'iniziazione cristiana si compie attraverso l'insieme di tre sacramenti: il Battesimo, che è l'inizio della vita nuova; la Confermazione, che ne è il rafforzamento; e l'Eucaristia, che nutre il discepolo con il Corpo e il Sangue di Cristo in vista della sua trasformazione in lui.


1276 « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato » (Mt 28,19-20).


1277 Il Battesimo costituisce la nascita alla vita nuova in Cristo. Secondo la volontà del Signore esso è necessario per la salvezza, come la Chiesa stessa, nella quale il Battesimo introduce.


1278 Il rito essenziale del Battesimo consiste nell'immergere nell'acqua il candidato o nel versargli dell'acqua sul capo, mentre si pronuncia l'invocazione della Santissima Trinità, ossia del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.


1279 Il frutto del Battesimo o grazia battesimale è una realtà ricca che comporta: la remissione del peccato originale e di tutti i peccati personali; la nascita alla vita nuova mediante la quale l'uomo diventa figlio adottivo del Padre, membro di Cristo, tempio dello Spirito Santo. Per ciò stesso il battezzato è incorporato alla Chiesa, corpo di Cristo, e reso partecipe del sacerdozio di Cristo.


1280 Il Battesimo imprime nell'anima un segno spirituale indelebile, il carattere, il quale consacra il battezzato al culto della religione cristiana. A motivo del carattere che imprime, il Battesimo non può essere ripetuto.86


1281 Coloro che subiscono la morte a causa della fede, i catecumeni e tutti gli uomini che, sotto l'impulso della grazia, senza conoscere la Chiesa, cercano sinceramente Dio e si sforzano di compiere la sua volontà, possono essere salvati anche se non hanno ricevuto il Battesimo.87


1282 Fin dai tempi più antichi, il Battesimo viene amministrato ai bambini, essendo una grazia e un dono di Dio che non presuppongono meriti umani; i bambini sono battezzati nella fede della Chiesa. L'ingresso nella vita cristiana introduce nella vera libertà.


1283 Quanto ai bambini morti senza Battesimo, la liturgia della Chiesa ci invita a confidare nella misericordia di Dio, e a pregare per la loro salvezza.


1284 In caso di necessità, chiunque può battezzare, a condizione che intenda fare ciò che fa la Chiesa, e che versi dell'acqua sul capo del candidato dicendo: « Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».


mercoledì 25 gennaio 2012

Verità della Fede - LII

Tornano gli approfondimenti sulle Verità della Fede attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Concludiamo la lettura del capitolo nono con il quarto paragrafo. Ci stiamo avvicinando quasi al termine di questa imponente opera di uno dei più grandi Dottori della Chiesa:



Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. IX.




§. 4. Si risponde agli altri argomenti raccolti dal p. Natale Alessandro, con cui gli avversarj pretendono di provare che il concilio è sovra del papa.

49. Non ho voluto qui tralasciare di addurre in ultimo luogo i mentovati argomenti raccolti dal p. Natale Alessandro nella sua istoria ecclesiastica al tom. 19. diss. 4. sul decr. 2. del Costanziese al §. 2. c. 4. , per far vedere quanto sono deboli i fondamenti a cui si appoggiano i contrarj. Le risposte sono così patenti, ch'io stimo esser facile ad ognuno il potervi rispondere. Per tanto io sarò breve nel rispondervi; poiché tali argomenti non richiedono lunghe risposte.

50. In primo luogo il p. Natale rapporta diversi testi di scrittura contro la nostra sentenza. Uno di tali testi è questo: Ubi enim sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum2. Al che aggiunge la spiegazione di Celestino I. in epist. ad pp. Synodi Ephes., ove, il papa, citando prima il detto passo, scrisse: Si nec huic tam brevi numero Spiritus sanctus deest, quanto magis eum interesse credimus, quando in unum convenit tanta turba sanctorum? Da ciò ne inferisce poi il p. Natale non esser uopo di sottomettere

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i concilj al papa, perché Iddio abbastanza fa conoscer la verità ai vescovi nel concilio congregati. Questo argomento, se valesse, varrebbe a provare che non solo i concilj generali, ma anche i provinciali e i vescovili, benché divisi dal papa, sarebbero infallibili. Ma veniamo alla risposta diretta. Non si nega che lo Spirito santo assiste a' concilj generali, come scrisse Celestino, ma a' concilj legittimi, cioè uniti al suo capo, il sommo pontefice; altrimenti senza il papa i vescovi, per quanto siano copiosi in numero, non sono altro che un corpo monco, mentre son senza capo, onde non possono avere autorità irrefragabile. Lo stesso p. Natale al tom. 19. pag. 744. primae edit., parlando del papa non ripugna di dire che ne' concilj eo auctore omnia decernuntur. Nella pag. 776. aggiunge: Summi pontificis est declarare quae concilia vere oecumenica sint et an instructa conditionibus, quae concilii oecumenici rationem constituunt. E nella pag. 778. dice che al papa spetta l'approvare o riprovare gli atti del concilio: Dei providentia et Spiritus sancti assistentia hactenus effecerunt, ut romani pontifices bene gesta concilia approbarent, et male gesta rescinderent. Sicché Celestino parlò di quei concilj che sono approvati dal papa, il quale colla sua approvazione dà tutta la forza e l'autorità a' loro decreti. Di più rapporta il testo degli atti1: Visum est enim Spiritui sancto et nobis, col quale testo dice che manifestamente si prova che l'autorità de' concilj generali deriva immediatamente da Cristo. Ma a ciò si è risposto già in questo capo al §. 1. n. 25. Di più rapporta il testo di s. Matteo2: Si... peccaverit in te frater tuus, vade et corripe eum etc. Si autem te non audierit, adhibe tecum adhuc unum vel duos... Quod si non audierit eos, dic ecclesiae: si autem ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus. Ed a ciò anche si è risposto in questo stesso capo al n. 28. Di più rapporta l'altro testo degli atti3: Cum audissent apostoli qui erant Hiersolymis, quod recepisset Samaria verbum Dei, miserunt ad eos Petrum et Ioannem. Dal che ne dedusse Renato Benedetto, che la chiesa congregata è superiore al papa. Ma non si sa come possa dirsi che san Pietro fu mandato dalla chiesa congregata, non leggendosi negli atti che gli apostoli si fossero congregati in concilio per mandarlo ai samaritani; tanto più che in quel tempo la chiesa per la persecuzione stava dispersa. Oltreché, quantunque per ciò gli apostoli si fossero congregati, perché si ha da dire, che s. Pietro andò alla Samaria per ubbidire al concilio, e non più presto che andò ivi per compiacere i suoi compagni? Difficilmente l'argomento di questo testo persuaderà alcuno a fargli credere che il papa è soggetto al concilio. Ma dice il p. Natale che Gregorio XIII. approvò questa interpretazione. Ma di questa approvazione del papa non vi è altra prova, come riflette un dotto autore, se non che della dedicazione fatta a Gregorio del libro, ove Renato scrisse la mentovata interpretazione. Ma veniamo ora agli argomenti che raccoglie il p. Natale.

51. Per 1. rapporta il decreto di san Vittore, col quale scomunicò i vescovi asiatici, per non aver quelli voluto accettare il suo decreto di celebrar la pasqua, non già nel giorno della quartadecima luna secondo la legge antica, ma nella domenica seguente a tal giorno; e che ciò non ostante quei vescovi seguirono a celebrare secondo il costume antico, sin tanto che fu deciso il contrario dal concilio niceno. Dal che i contrarj argomentano (ex quibus patet, dice il p. Natale) che i vescovi asiatici stimarono di non esser tenuti alla definizione del papa, e perciò non vollero ubbidire a s. Vittore, né s. Vittore volle seguire ad obbligarli. Ma si risponde che la disubbidienza e l'insolenza di quei vescovi non possono provare che il papa non ha l'autorità neppure sopra le chiese particolari, il che non si pretende da altri che dagli eretici; ma provano solamente la carità e

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prudenza usata da s. Vittore, il quale pregato dagli altri vescovi e specialmente da s. Ireneo a sospendere il rigore, si contentò per giusti fini d'aspettare che quei vescovi si fossero ravveduti del loro errore colla decisione del concilio. Del resto lo stesso p. Natale confessa nella sua dissertazione IV. pag. 653. della prima edizione come dogma di fede: Quod romanus episcopus unus sit iure divino in ecclesia pontifex, cui omnes christiani parere tenentur, et qui potestatis primatum habet; e che secondo tal primato Ad universalis etiam ecclesiae disciplinam pertinere ut maiores ecclesiae causae ad sedem apostolicam referantur, et in fidei ac dubiae disciplinae causis consulatur illud christianae religionis oraculum, ut appellationes ex toto orbe christiano ad romanum pontificem fieri possint, secundum canones, ut ipsos canones temperare possit etc.

52. Per 2. rapporta la questione tra s. Stefano papa e s. Cipriano, se doveano o no ribattezzarsi quei ch'erano stati battezzati dagli eretici. In ciò egli adduce più testi di s. Agostino per dimostrare che, non ostante la risposta fatta dal papa a s. Cipriano Nihil novandum, nisi quod traditum est, pure il sentimento di s. Agostino era che per terminar la questione vi bisognava un concilio generale, come in effetto seguì: poiché il concilio niceno appresso si uniformò al giudizio di s. Stefano, e così cessarono tutte le dissensioni. Da ciò deducono che s. Agostino abbia creduto essere il concilio superiore al papa. Ma si risponde primieramente che s. Agostino tenea per certo essere il papa infallibile nelle sue definizioni, come lo spiegò in più luoghi. In un luogo disse: Numerate sacerdotes vel ab ipsa sede Petri; in ordine illo patrum quis cui successerit videte. Ipsa est petra, quam non vincunt superbae inferorum portae1. In altro luogo: In verbis apostolicae sedis tam antiqua atque fundata, certa et clara est catholica fides, ut nefas sit de illa dubitare christiano2. Or se il s. dottore tenea che il papa era infallibile, come poi potea credere che fosse sottoposto al concilio? Anzi da ciò che scrisse nel lib. 2. cap. 3. contra duas epist. Pelag. si vede che tenea l'opposto, dicendo: Per papae rescriptum causa pelagianorum finita est, totoque orbe post eius damnationem damnati sunt, ac litteris Innocentii tota de hac re dubitatio sublata est.

53. In quanto poi a quel che dice s. Agostino della controversia di s. Cipriano, dal contesto del libro del battesimo, in cui s. Agostino ne parla, si vede che il santo non parla propriamente dell'autorità che hanno le decisioni definitive del papa, ma più presto parla del fatto, cioè che s. Cipriano non si era sottomesso alla risposta del papa, ma che sarebbesi quietato col giudizio d'un concilio generale. Tanto più che s. Cipriano, come attesta s. Agostino3 e s. Girolamo4 e lo stesso s. Cipriano5, non giudicava che tal punto si appartenesse alla fede, ma alla sola disciplina: e perciò egli scrisse a' vescovi suoi aderenti sopra tal questione: Neminem iudicate, aut a iure communionis aliquem, si diversum senserit, amoventes6. Né all'incontro da s. Stefano fu in ciò fatta sentenza definitiva, come scrive lo stesso s. Agostino: Ipse autem (Stephanus) quaestionis difficultate permotus, et sanctis caritatis visceribus praeditus in unitate eis manendum (putavit) qui diversa sentirent7. Né s. Stefano incolpò s. Cipriano di eresia, ma sol minacciò di scomunicare i ribattezzati, e perciò non altro rispose se non che niente s'innovasse in tal punto contro la tradizione che vi era nelle altre chiese. Del resto difficilmente possiamo scusar s. Cipriano da ogni colpa nell'aver resistito al pontefice. S. Agostino stesso disse: Hanc culpam Cypriani falce martyrii fuisse purgatam8. Oltreché, come attestano il Baronio, il

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Tommasino ed altri coll'autorità di s. Girolamo nel luogo citato, s. Cipriano appresso soggettossi al giudizio di s. Stefano, mentr'egli stesso avea scritto: Haereses et schismata ex eo magis quod non uni sacerdoti, qui vice Christi iudicem agit, universa fraternitas obtemperat etc.1.

54. Per 3. rapporta che essendo stato accusato Ceciliano vescovo da' donatisti di aver tradite le sacre scritture, fu assoluto da s. Melchiade papa nel concilio romano; ma che, non cessando i nemici di reclamare contro Ceciliano, s. Agostino scrisse ch'eglino poteano domandare un concilio plenario, ed ivi sperimentar le loro ragioni: Ecce putemus illos episcopos qui Romae iudicarunt, non bonos iudices fuisse; restabat adhuc plenarium ecclesiae universale concilium, ubi causa posset agitari, ut, si male iudicasse convicti essent, eorum sententiae solverentur2. Ma qui la risposta è chiara che tal causa non era di fede, ma di mero fatto, il quale dipendea dalle prove, se Ceciliano avesse o no tradite le scritture; onde se mai il delitto si fosse provato nel concilio generale, ben potea rivocarsi la sentenza del romano.

55. Per 4. rapporta che, essendo stato scomunicato dal sinodo africano Apiario prete, questi appellò a Zosimo papa, ed ottenne che fosse mandato in Africa Faustino vescovo come legato a latere per riconoscer ivi la causa. Apiario giunto in Africa confessò da sé il suo delitto, e fu deposto. Dopo ciò i vescovi del sinodo scrissero a Celestino, e lo pregarono a non ricever più i chierici da loro scomunicati, né più ammettere le loro appellazioni, né mandar più legati in Africa, perché ciò non si trovava stabilito in alcun sinodo. Dunque, dice il p. Natale, quei vescovi, fra' quali era anche s. Agostino, ebbero per vero che il papa è soggetto ai canoni de' concilj. Ecco di qual fatta sono gli argomenti raccolti dal p. Natale per provare la soggezione del papa al concilio. Si risponde che la lettera dei vescovi (alla quale non sappiamo se acconsentì s. Agostino) non contenea se non una semplice preghiera, e questa preghiera era affatto impertinente, volendo che il papa si astenesse di fare quello che non era stabilito da' concilj, mentre lo stesso p. Natale concede nella dissertazione 4. : Ut ipsos canones (pontifex) temperare possit.

56. Si porta ancora da' contrarj una lettera di Siricio papa, ove confessa non poter egli giudicare contro il giudizio fatto dal sinodo capuano. Ma a ciò risponde lo stesso p. Natale, dicendo che tal argomento probaret nimis, mentre proverebbe che il papa è soggetto anche a' concilj particolari.

57. Per 5. rapporta che dopo essere stato Nestorio condannato da Celestino I. nel concilio di Roma, lo stesso pontefice commise a s. Cirillo l'esecuzione della sentenza, costituendolo suo legato a latere. Ma non avendo ubbidito Nestorio al giudizio di Celestino, fu dall'imperatore Teodosio convocato in Efeso un concilio generale, ove di nuovo Nestorio fu condannato. Dal che deducono avverarsi che il concilio generale è l'ultimo tribunale delle cause di fede. Ma si risponde primieramente che il concilio non fu convocato da Teodosio, ma Teodosio (come scrive il Baronio3) mandò al papa s. Petronio (che fu vescovo di Bologna) pregandolo ad ordinare la convocazione del concilio. Il papa vi consentì, e destinò tre legati; ma questi prima di giugnere in Efeso trovarono che s. Cirillo, come legato a latere prima già promesso da Celestino, e rappresentante le veci del papa, avea radunato il concilio, in cui leggendosi la lettera di Celestino, di nuovo era stato Nestorio condannato. Giungendo per tanto dopo ciò i legati, si lesse una nuova lettera di Celestino, nella quale dicea ch'egli spediva i legati Ut intersint his quae aguntur, et quae a nobis antea statuta sunt exequentes; dichiarando i padri del concilio con queste parole esecutori, non già

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revisori della condanna già fatta in Roma. Indi furono riletti nel concilio fatti coll'espressione di soggezione al papa e di ubbidienza a' di lui legati (come dagli stessi atti apparisce), i quali, sottoscrivendo la condanna, scrissero così: Nulli dubium est a s. Petrum etc., necnon per successores suos hucusque semper vivere, causasque decernere, semper victurum esse. Aggiunge Gennadio1: Caelestinum papam decreta synodi adversus Nestorium dictasse, volumenque descriptum ad orientis et occidentis ecclesias dedisse. Ed i padri nel pronunciar la sentenza contro Nestorio, come scrive Evagrio, dissero2: Tum ecclesiae canonibus, tum epistola s. patris nostri et collegae Caelestini episcopi ecclesiae romanae necessario compulsi, idque non sine lacrymis ad hanc severam sententiam contra eum pronuntiandam venimus. Onde poi nella lettera a s. Celestino, in cui gli davan conto dell'operato nel concilio, scrissero: Perlectis commentariis auctorum... quae a tua pietate de ipsis decreta sunt, iudicavimus nos ea solidaque permanere debere. Lo stesso monsignor Bossuet nel suo discorso sull'istoria universale confessa che Nestorio fu condannato da Celestino, e che i padri del concilio eseguirono la di lui sentenza. Da tutto ciò non sappiamo intendere come il p. Natale possa dedurne che il concilio sia l'ultimo tribunale, e non più veramente che il concilio sia sottoposto al papa, e che nell'esaminare le cose già definite del papa il suo esame non già sia di giurisdizione, ma esame di dichiarazione, eseguendo ciò che prima dal pontefice sta deciso.

58. Per 6. dicono che s. Leone papa, dopo aver condannata l'eresia di Eutichete, si contentò che si celebrasse il secondo concilio efesino, a cui scrisse di poi s. Leone: Volui episcopale concilium, ut pleniore iudicio omnis possit error aboleri. Dunque, dicono, notando quelle due parole pleniore iudicio, credea già s. Leone che l'autorità del concilio fosse maggiore della pontificia. Inoltre adducono che, essendo riuscito questo concilio un esecrando conciliabolo, mentre ivi fu assoluto Eutichete, e condannato, anzi ucciso con violenza s. Flaviano, che gli si era opposto, s. Leone pregò Teodosio a convocare un altro sinodo, il quale omnes offensiones aut repellat, aut mitiget, ne aliquid ultra esset in fide dubium, vel in caritate divisum. Quindi dice il p. Natale che se s. Leone non avesse creduto che il concilio generale era il supremo tribunale non avrebbe detto ne aliquid ultra esset in fide dubium; ma egli stesso avrebbe recisi tutti gli atti dell'efesino. Inoltre adducono che, essendosi poi da Marciano adunato il nuovo concilio in Calcedonia, in quello fu esaminata l'epistola di s. Leone ed indi approvata. Quindi dicono che se i legati del papa non avessero creduto esser il concilio il supremo tribunale, non avrebbero permesso che il giudizio del papa si fosse di nuovo posto ad esame. Inoltre s. Leone nella sua epistola 63. o. 93. a Teodoreto scrisse: Quae nostro prius ministerio Dominus definierat, universae fraternitatis irretractabili firmavit assensu. Dunque (dicono) s. Leone stesso giudicò che il suo giudizio non era irretrattabile, se non fosse stato confermato dal concilio.

59. Rispondiamo ad uno ad uno. S. Leone per la condanna di Eutichete scrisse già la sua celebre epistola dogmatica a s. Flaviano, e la mandò ancora a tutti i vescovi cattolici, affinché ognuno sapesse quel che si dovea tenere per fede. Quindi dissero i seicento padri del concilio calcedonese, che di poi fu celebrato: Nobis inexpugnabilem in omni errore propugnatorem Deus providit, et romanae ecclesiae papam ad victoriam praeparavit, colle quali parole dichiararono già che il papa è l'estirpator vittorioso di ogni errore. Si aggiunge che nel concilio volendo i padri far una professione di fede diversa da quella di s. Leone, reclamarono i legati, e dissero che non doveano farne altra che la prescritta dal pontefice,

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altrimenti si sarebbero partiti: Si non consentiunt (così sta registrato nella sessione V.) epistolae apostolici et bb. viri papae Leonis, iubete nobis rescriptam dari, ut revertamur. Episcopi clamaverunt: Altera definitio non sit: qui contradicunt, Romam ambulent... Iudices dixerunt: Ergo addite definitioni secundum iudicium ss. patris Leonis duas esse naturas in Christo etc. Da ciò primieramente si vede che le parole di s. Leone, ut pleniori non possit error aboleri, altro non significavano, se non che voleva il papa che l'errore si condannasse anche col consentimento universale de' padri, affinché la sua definizione fosse ricevuta da' fedeli con maggior pace e minor contrasto dagli eretici; sicché non intendea che il giudizio de' padri fosse più pieno di autorità, ma più pieno di voci e di motivi, acciocché si quietassero i rumori, restasse abbattuta l'audacia de' nemici. Di più alle parole di Leone: Ne quid ultra esset in fide dubium, si risponde similmente non aver inteso con ciò il papa di dire che il suo giudizio era dubbio, finché non l'avesse approvato il concilio; ma che coll'approvazione del concilio si sarebbero più facilmente quietati quei che sino a quel tempo aveano resistito al giudizio di esso pontefice. Del resto lo stesso s. Leone nella lettera scritta a' padri del concilio costituì la legge, a cui essi doveano uniformarsi, dicendo: Non liceat defendi quod non licet credi, cum secundum evangelicas auctoritates plenissime et lucidissime per litteras, quas ad Flavianum misimus, fuerit declaratum quae sit de sacramento Incarnationis Domini nostri Iesu Christi pia et sincera confessio. Dal che si vede che il pontefice tenea per certo non potersi più dubitare della verità del dogma da lui definito. Inoltre non è vero che il concilio, e non già s. Leone, dichiarò nulli gli atti del conciliabolo Efesino; mentre esso pontefice in un altro concilio di vescovi prima tenuto in Roma lo riprovò, ordinando che un tal congresso fosse abolito da' sacri libri, dicendo: Nam iniquum nimis est eos, qui innocentes sua persecutione vexarunt, sanctorum nominibus sine discretione misceri. E quindi fu che quel concilio il quale sarebbe stato riputato ecumenico, se fosse stato approvato dal papa, fu dichiarato invalido per essere stato dal papa riprovato. Così anche non è vero che i padri del calcedonese volessero esaminar l'epistola di s. Leone; ma lo stesso pontefice volle ch'essi di nuovo esaminassero l'errore di Eutichete, non già però affinché colla decisione del concilio la sua definizione avesse acquistata più autorità, ma acciocché con l'esame del concilio si fosse maggiormente dichiarata la verità. E perciò essendosi nel concilio proposto l'errore di Eutichete e la definizione di s. Leone (come si ha dall'Azione 2. ) disse Cecropio vescovo di Sebaste: Emerserunt quae ad Eutychem pertinebant; et super his forma data est a ss. archiepiscopo romanae urbis; et sequimur eum, epistolae omnes subscripsimus. E dopo lui sottoscrivendo gli altri vescovi, dissero: Ita omnes dicimus; sufficiunt quae exposita sunt, alteram expositionem non licet fieri. Ed essendosi letta l'epistola di s. Leone, esclamarono i padri: Haec patrum fides: haec apostolorum fides: ita credimus... Petrus per Leonem ita locutus est. Ed, essendosi nel concilio posta di poi a fronte l'autorità di Dioscoro a quella di s. Leone, fu proposto a' padri: Quem sequimini? Ss. Leonem aut Dioscorum? E tutti esclamarono ut Leo, sic credimus; e di nuovo fu stesa la confessione di fede, conforme così a' tre passati concilj ecumenici, come a quanto avea dichiarato s. Leone nella mentovata epistola a s. Flaviano. In somma dall'esaminar questi argomenti che rapporta il p. Natale per provare la superiorità del concilio, maggiormente si fa chiara la superiorità del pontefice. Passiamo avanti.

60. Per 7. rapporta il p. Natale che nel concilio costantinopolitano II. fu deciso l'opposto di quel che avea risposto Vigilio papa intorno a' tre capitoli

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di Teodoro, Iba e Teodoreto. Dal che ricavano che l'autorità del concilio avesse prevaluto a quella del papa, mentre il concilio condannò così gli scritti, come gli autori de' tre capitoli, contro il giudizio di Vigilio, il quale avea condannati gli scritti, ma non le persone. Si risponde primieramente che Vigilio in tal giudizio si uniformò al sentimento del concilio calcedonese, benché appresso si ritrattò; in quanto poi al costantinopolitano egli non tenne quel concilio per ecumenico, finché non l'approvò come legittimo: e ciò apparisce (secondo avvertì anche Pietro de Marca) dal suo costituto, che di poi formò, ove non fece alcuna menzione di questo concilio, e con tal silenzio ben dimostrò di non tenerlo per legittimo. Quindi scrisse nel suo costituto: Crediamo necessario delle soprascritte questioni de' tre capitoli diligentemente discutere tutte le cose, e definirle colla cauta ponderazione di ben considerata sentenza. Dal che anche si deduce che ne' primi giudizj che Vigilio diede sopra tal questione, cercò di accomodarsi alle circostanze de' tempi, affin di sedare le turbolenze dell'oriente siccome scrisse nella sua lettera enciclica: Quaedam pro tempore medicinaliter existimavimus ordinanda, affin di non maggiormente accendere lo scisma, che allora ardeva per tal affare; onde scrisse Pietro di Marca1 che l'incostanza di Vigilio da' dotti fu chiamata prudenza. Sicché il papa col suo primo sentimento procurò di dar temperamento alla controversia, ma non intese di far sentenza definitiva, come poi la fece nel formare il suo costituto, ove condannò così gli scritti, come le persone, scrivendo nella sua lettera ad Eutichio: Quel che da noi si dee definire già si è adempiuto, rivelandocelo il Signore, manifestatasi la verità. Così presso il p. Orsi2. E perciò nel suo costituto vietò definitivamente ad ognuno il contraddire a' suoi detti: Statuimus nulli licere contrarium his quae praesenti statuimus constituto, de tribus capitulis aut conscribere, vel proferre, vel docere. Onde non vale opporre contro Vigilio che si sia contraddetto; poiché i primi suoi giudizj, come si è notato, non furono positive definizioni, quale fu poi quella che fece nel suo costituto. Ecco come Pelagio papa rispose a' vescovi dell'Istria, che riprovavano in tal fatto l'incostanza di Vigilio: Se dunque nell'affare de' tre capitoli fu tenuto un diverso linguaggio, quando si cercava la verità, e quando la verità fu trovata; con qual giustizia si rinfaccia a questa sede come un delitto l'aver mutata sentenza? Non il mutar di opinione, ma l'incostanza dell'animo si dee ascrivere a colpa. E come si ha dalla lettera scritta ad Eutichio vescovo di Costantinopoli a Vigilio ed anche dagli atti del concilio3, i padri del medesimo non vollero procedere all'esame de' tre capitoli senza la presidenza del pontefice: Ad apostolicam sedem V. Beatitudinis manifestum facimus, quod... suscipimus et epistolas praesulum romanae sedis apostolicae; et ideo petimus, praesidente nobis V. Beatitudine, de tribus capitulis quaerere conferri. E Vigilio rispose: Annuimus, ut de tribus capitulis, facto regulari conventu, collatio habeatur, et finis detur placitus Deo. Ma perché poi il concilio volle da sé definir la questione, perciò la sentenza del concilio si ebbe per nulla nell'Africa, nell'Illirico, nell'Ibernia ed in tutto l'occidente, fintanto che col consenso del papa non fu ricevuta, ed allora questo concilio si ebbe per ecumenico.

61. Per 8. dice che Gregorio4, parlando de' primi cinque concilj ecumenici, scrive che tutti son tenuti, anche gli stessi pontefici, a' loro decreti, e ne apporta la ragione: Quia dum universali sunt consensu constituta, se et non illa destruit quisquis praesumit aut solvere quos ligant, aut religare quos solvunt. Ma da ciò come può ricavarne il p. Natale, che i concilj sieno superiori al papa? Chi può negare o dubitare, che i decreti dogmatici de' concilj approvati

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dal pontefice, debbono anche da' pontefici osservarsi? Poiché essendo quelle verità dichiarate irrefragabili coll'autorità pontificia, neppure il pontefice può appresso negarle. Ma nella nostra questione non si tratta de' concilj autorizzati dal papa, ma de' concilj da lui separati, e se il papa sia tenuto di stare a' loro canoni, ancorché il papa sia certo e non sia eretico. Certamente non disse ciò s. Gregorio; ma disse che nelle cause di fede la sede apostolica, cioè il pontefice è quegli che senza dubbietà le definisce: Si quam contentionem de fidei causa evenire contigerit, cuius dubietas iudicio sedis apostolicae indigeat, relatione ad nostram studeat producere notionem, quatenus a nobis valeat congrua sine dubio sententia terminari1, ben sapendo il santo che non già dal concilio si danno le leggi al papa, ma dal papa al concilio, come confessarono gli stessi padri del sinodo calcedonese: Imperari sibi a pontifice romano, legesque dari, et fidei formam praescribi patiuntur, et parent2.

62. Per 9. si rapporta che il sinodo VI. prima esaminò la lettera dogmatica di s. Agatone, e poi l'approvò; dal che dice il p. Natale che manifestamente si prova che il concilio ecumenico sia il supremo tribunale. A questo argomento già si è risposto di sopra che il concilio ecumenico non può esser mai ecumenico se non è avvalorato dall'autorità del papa. Ma, parlando specialmente poi di questo sesto concilio, che fu il costantinopolitano III., già riferimmo di sopra al num. 12. che s. Agatone nella sua epistola ordinò a' padri del concilio che si uniformassero a quanto egli avea definito: Non tamen tanquam de incertis contendere, sed ut certa atque (si noti) immutabilia compendiosa definitione proferre. E prima ordinò a' suoi legati ut nihil profecto praesumant augere, minuere, vel mutare; sed traditionem huius apostolicae sedis, ut a praedecessoribus pontificibus instituta est, sinceriter enarrare. Onde i padri del concilio3 dissero: Et nos notionem accipientes suggestionis directae ab Agathone, et alterius suggestionis quae facta est a subiacente ei concilio (si notino queste parole: a subiacente ei concilio), sic sapimus et credimus... Per Agathonem Petrus loquebatur. Ed appresso nelle lettere mandate al pontefice dissero: Itaque tibi ut primae sedis antistiti universalis ecclesiae quid operandum sit relinquimus stanti super firmam fidei petram. Ecco che lo stesso concilio non già si dichiara tribunal supremo, ma in tutto sottoposto al pontefice romano. In quanto poi alla condanna di Onorio papa, che si suppone fatta dallo stesso sinodo VI. per le lettere scritte a Sergio, risponderemo a lungo nel capo seguente al num. 24.

63. Per 10. rapportano il canone 21. del sinodo VIII., o sia costantinopolitano IV., dove si disse: Porro si synodus universalis fuerit congregata, et etiam facta fuerit de s. romana ecclesia controversia, oportet venerabiliter de proposita quaestione sciscitari, et solutionem accipere, et non audacter sententiam dicere contra summos Romae pontifices. Dunque, dicono, se i concilj possono giudicare sopra del papa, il papa è loro soggetto. Rispondiamo non dubitarsi che in qualche caso il concilio può esser giudice del papa, ma quando? In due soli casi: quando il papa è eretico dichiarato o quando è dubbio, siccome abbiamo veduto essersi proceduto nel concilio pisano e costanziese; ma fuori di questi due casi il concilio non ha alcuna autorità sopra de' pontefici, ma il concilio è tenuto ubbidire al papa, come abbiam provato di sopra con tanti attestati degli stessi concilj.

64. Solamente allorché vi sono controversie, o sieno lagnanze contro del papa, può il concilio colla dovuta riverenza interrogarnelo, ed attendere con sommissione la risposta, ma non già aver l'audacia di giudicare sulle procedure del pontefice; e questo è

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quel che dinotano le riferite parole del sinodo VIII., sulle quali fa tanto fondamento il p. Natale. Del resto allorché cominciò a trattarsi di questo concilio circa l'intrusione di Fozio nella chiesa del patriarca Ignazio, ecco quel che scrisse a' vescovi il pontefice s. Nicola: Et ut vos huius sedis (apostolicae) privilegium rite servantes... pari nobiscum super ven. Ignatii patriarchae sacerdotii recuperatione et Photii pervasoris expulsione eadem sentiatis, apostolica auctoritate vobis iniungimus etc. E nella lettera a Michele imperatore, la quale poi fu letta e ricevuta nel concilio1 scrisse: Patet profecto sedis apostolicae, cuius auctoritate maior non est, iudicium a nemine fore retractandum, neque cuiquam de eius licere iudicare iudicio; siquidem ad illam de qualibet mundi parte canones appellari voluerunt, ab illa autem nemo sit appellare permissus. Essendo poi defunto il papa s. Nicola, gli successe Adriano II., e questi mandò i suoi legati al concilio con un formolario da lui formato, con ordine che lo facessero sottoscrivere da' padri, e così si fece; ed i padri dopo la sottoscrizione soggiunsero queste parole: Quoniam sicut praediximus sequentes in omnibus apostolicam sedem, et observantes omnia eius constituta, separamus, ut in una communione, quam sedes apostolica praedicat, esse mereamur, in qua est integra et vera christianae religionis soliditas. Ecco come il concilio VIII. riconobbe la sua soggezione all'autorità suprema del pontefice romano.

65. Per 11. Leone III. interrogato dai vescovi della Francia se poteano cantar nella messa la parola Filioque aggiunta nel simbolo, dopo che ne' concilj generali tal parola non vi era, anzi stava proibito di aggiungervi altra parola, rispose: Non audeo dicere non bene fecisse, si fecissent: nam et ego me illis (scilicet conciliis) non dico praeferam, sed etiam illud absit ut coaequare praesumam. Da ciò ricavano aver dichiarato il papa essere la sua autorità inferiore a quella de' concilj. Ma chi non vede che tal risposta fu una espressione di mera umiltà, e non già una dichiarazione di superiorità del concilio? Oltreché Leone di quai concilj parlava? Parlava di quei concilj già approvati da' pontefici, dall'autorità de' quali erano stati avvalorati. Or come da ciò può dedursi che il papa sia sottoposto al concilio?

66. Per 12. rapporta il p. Natale due fatti, con cui pretende di far vedere esser antico sentimento dei vescovi della Francia che il papa non è superiore a' concilj. Il primo fatto è che nel secolo XI. Giovanni XVIII. commise la consecrazione di una chiesa a Pietro cardinale: ciò dispiacque agli altri vescovi, perché sembrava un attentato contro i canoni. Il secondo fatto si è che il vescovo matisconese si lagnò dell'arcivescovo di Vienna, per aver ordinato un monaco cluniacense senza la sua licenza; l'abate difese l'ordinazione col privilegio pontificio concessogli; ma ciò non ostante i vescovi del concilio presso Ansa dissero che il privilegio era contro i canoni, e perciò non dovesse aver luogo. Ora a questi due fatti io lascio al mio lettore di considerare se mai il sentimento di questi vescovi particolari potea derogare alla suprema del papa predicata così da' santi padri, come da' concilj. Basti qui almeno a rispondere quel che confessa lo stesso p. Natale che il papa può moderare i canoni, ut ipsos canones temperare possit2.

67. Per 13. rapporta il p. Natale che Innocenzo III. fu richiesto dal re di Francia Filippo Augusto a dispensare dallo scioglimento del matrimonio dal re contratto con Ingeburge, colla quale avea esposto adfuisse commixtionem sexuum, sed non seminum. Il papa rispose: Verum si super hoc absque generalis deliberatione concilii determinare aliquid tentaremus, praeter divinam offensam quam ex hoc possemus incurrere, forsan ordinis et officii nobis periculum immineret. Del che ricavano aver inteso Innocenzo che il concilio

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avrebbe potuto deporre il papa, se avesse dispensato a tale matrimonio contro la legge divina. Unde vero (dice il p. Natale) periculum illud, nisi a concilio, a quo se posse coerceri agnoscit, si de lege divina dispensaret? Ma noi rispondiamo non esser dubbio che il papa possa essere deposto dal concilio, quando fosse stato dichiarato eretico, come quegli che definisse una dottrina opposta alla divina legge; e questo era il pericolo accennato da Innocenzo (come ben riflette il p. Benetti1 di essere privato dell'ordine e dell'officio: che perciò egli prima nella stessa lettera avea scritto che non aveva ardire di definir questo punto contro il vangelo che dice: Quod Deus coniunxit, homo non separet. Ma perché il pericolo era molto rimoto, ed all'incontro il papa volea con qualche apparente scusa liberarsi dalle istanze del re per la dispensa che cercava, perciò scrisse quelle parole oscure e dubbiose: forsan ordinis et officii nobis periculum immineret.

68. Del resto certamente Innocenzo non intese con tali parole di dire che il papa, fuori del caso di eresia, anche fosse sottoposto al concilio contro l'autorità di tanti pontefici suoi predecessori, che avevano dichiarato il contrario. S. Bonifacio scrisse: A nemine (pontifex) est iudicandus, nisi deprehendatur a fide devius2. S. Anacleto: Electionem vero summorum sacerdotum sibi Dominus reservavit, licet electionem bonis sacerdotibus concessisset3. S. Antero: Facta subditorum iudicantur a nobis, nostra vero iudicat Deus4. S. Gelasio, parlando della sede apostolica, dice essere stabilito dai canoni, Ullam de tota ecclesia iudicare, ipsam ad nullius commeare iudicium5. Inoltre lo stesso Innocenzo dichiarò6 che la podestà del papa non può essere limitata da niun'altra podestà, dicendo: Quamvis autem canon (scilicet tertius) lateranensis concilii ab Alexandro praedecessore nostro editus non legitime genitos adeo persequatur, quod electionem talium innuit nullam esse; nobis tamen per eum adempta non fuit dispensandi facultas... quum non habeat imperium par in parem. E si noti qui che da Innocenzo il canone del concilio chiamasi canone stabilito dal papa Alessandro; e perché? Perché sapeva Innocenzo che tutti i canoni de' concilj ricevono il lor vigore dall'autorità del papa.

69. Questi sono gli argomenti raccolti con molta diligenza e fatica dal p. Natale, per li quali cercano gli avversarj di provare la soggezione del papa a' concilj. Ma non sappiamo intendere come facciano tanta impressione presso loro le resistenze di alcuni vescovi a' decreti del papa; o le ingiuste pretensioni di altri contro l'autorità pontificia; o l'aver alcun concilio fatto qualche decreto opposto alla sentenza, ma non definitiva, del papa; o l'aver i concilj esaminati di nuovo alcuni punti di fede già dal papa definiti, cosa voluta dagli stessi pontefici per maggiormente quietare i rumori e l'audacia degli eretici: o pure finalmente qualche parola equivoca buttata e scritta per accidente in altro proposito da qualche papa; e poi così poca impressione fanno a' nostri contrarj tante dichiarazioni espresse de' pontefici, dei santi padri e degli stessi concilj ecumenici, che fan vedere indubitatamente esser l'autorità del papa superiore a quella de' concilj. Si legga su di ciò quel che si è detto in questo capo al num. 7. , e quel che si dirà nel capo seguente dal num. 5. sino al 13. Ma qui mi si permetta di accennare brevemente parte di quel che dicono i concilj generali. Il niceno I. dichiarava aver il papa potestatem super cunctam ecclesiam. Il lugdunese II. dichiara che il papa ha piena autorità super universam ecclesiam cum potestatis plenitudine, e soggiunge che le quistioni di fede debeant suo iudicio definiri, observata praerogativa in generalibus conciliis. Il calcedonese ubbidisce a s. Leone

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con uniformarsi a ciò che stava da lui già definito, dicendo i padri: Altera definitio non sit, che quella già fatta dal pontefice. Il sardicense dichiara a synodo ad romanam sedem posse appellari. Il lateranese III. dichiara da' decreti della chiesa romana non posse recursum ad superiorem haberi. Il romano sotto Simmaco papa dichiara papam nullius, extra casum haeresis, iudicio subiectum. Il costantinopolitano IV. dichiara nos sententiam a papa Nicolao pronunciatam nequaquam possumus immutare. Il viennese confessa dubia fidei declarare, ad sedem apostolicam pertinere. Il fiorentino dichiara plenam potestatem (pontifici) traditam esse, quaedmadmodum etiam in gestis aecumenicorum conciliorum et canonibus continetur.

70. Inoltre a' nostri avversarj fanno impressione alcuni detti oscuri de' pontefici e de' padri, e poi non fa impressione quel che dice s. Anacleto: Huius s. sedis auctoritate omnes ecclesiae reguntur1: quel che dice s. Gelasio: Sedem b. Petri... de omni ecclesia ius habeat iudicandi2: quel che dice Bonifacio VIII.: Subesse romano pontifici omnem humanam creaturam3: la scomunica di Pio II. e Sisto IV. contro coloro che presumono di appellare dai pontefici a' concilj: quel che dice s. Cirillo: Sicut Christo a Patre omnis potestas data est, sic Petro, eiusque successoribus supremam ecclesiae curam, nullique alteri commissam4: quel che dice s. Isidoro: Epistolas rom. pontificum, eorumque decreta pro culmine sedis apostolicae nec imparis esse cum conciliis auctoritatis, nec ullam synodum legi ratam fuisse, quae non fuerit auctoritate apostolicae sedis congregata, vel fulta5: quel che dice s. Pier Grisologo: Petrus qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem6. S. Tommaso l'angelico il quale dice che nella chiesa l'unità della fede servari non posset, nisi quaestio fidei determinetur per eum qui toti ecclesiae praeest, cioè il pontefice romano7. Ecco quel che anche ne dice Andrea Duvallio cattedratico i Sorbona nella sua disput. De suprema rom. pont. potest., part. 2. qu. 4. in fin. Ivi fortemente difende l'infallibilità del papa, e, oltre s. Tommaso, cita per questa sentenza più dottori parigini, s. Bonaventura, Herreo, Armonio, Errico di Gandavo e Giovanni di Cellaia. E nella part. 4. qu. 7. dello stesso trattato scrive di questa sentenza: Totus orbis, exceptis pauculis doctoribus, eam amplectitur, et rationalibus validissimis tum ex scriptura, conciliis et patribus, tum ex principiis theologiae petitis confirmatur. E nell'anteloquio §. Quo pacto, parlando del concilio di Basilea, dice: Concilium basileense, in hoc puncto pontificiae auctoritatis inimicum, ab universali ecclesia explosum semper, reiectumque fuisse. Vedasi quel che sta notato in questo capo al n. 2. e 3. E lascio le altre autorità de' concilj e de' santi padri, che parlano dell'infallibilità delle definizioni pontificie; queste si leggeranno nel capo seguente.

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2 Matth. 18. 20. 

1 15. 28. 

2 18. 15. 

3 8. 14. 

1 In ps. cont. par.

2 Epist. 157. 

3 L. 2. contra Donat. c. ult.

4 L. advers. Lucil.

5 Ep. 29 e 72. 

6 Apud s. Aug. l. 2. c. 13. 

7 L. 5. contra Donat. c. 25. 

8 L. 1. contra Donat. c. 18. 

1 S. Cypr. l. 1. ep. 3. sub initio.

2 Ep. ad Glorium 62. 

3 An. 430 n. 61. 

1 De scriptor. eccles. c. 54. 

2 L. 1. histor. c. 4. 

1 De concord. l. 3. c. 13. 

2 Ist. eccl. t. 18. 

3 Collaz. 1. 

4 L. 1. ep. 24. 

1 L. 7. ep. 21. v. 32. 

2 Ex Act. conc. 1. 3. et 16. 

3 Act. 8. 

1 Act. 1. 

2 T. 20. schol. p. 57. 

1 T. 1. p. 284. 

2 Can. 6. Si papa dist. 4. 

3 Can. electionem 2. dist. 79. 

4 Can. Facta, caus. 9. q. 3. 

5 Loc. cit. can. 16. 

6 C. innotuit de elect.

1 In c. sacrosancta, 2. dist. 22. 

2 In c. cuncta 18. caus. 9. q. 3. 

3 In extrav. unam sanctam c. 2. de maiorit. etc.

4 L. Thesaur. t. 2. 

5 Praefat. in op. concil.

6 Ep. ad Euthyc.

7 2. 2. q. 1. a. 9. ad 2.