mercoledì 30 novembre 2011

Verità della Fede - XLIV

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Restiamo nel capitolo sesto e leggiamo il terzo paragrafo incentrato sulla "regola di fede" quale definizione della Chiesa:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. VI. 


Falsità della religione pretesa riformata.


§. 3. La regola della fede è la definizione della chiesa.

20. I dogmi della fede debbono esser certi; ma perché circa le cose della fede doveano anche tra gli stessi fedeli sempre insorgere molti dubbj e diversità di opinioni, è stato sempre ed assolutamente necessario che vi fosse un giudice infallibile, che avesse da Dio la facoltà di decidere le controversie, ed al quale tutti dovessero sottomettere il lor giudizio, ed ubbidire, tenendo tutti per certo quello che egli definisce così a rispetto della veracità delle scritture e del vero lor senso, come degli altri punti di fede; altrimenti circa la loro credenza non vi sarebbe regola certa, né finirebbero mai i contrasti, ed ognuno si formerebbe una fede a parte, ma fede, che, essendo incerta, non è più fede. Ed in tal modo resterebbero gli uomini sempre divisi e discordi nella credenza.

21. Questa verità della necessità di un giudice infallibile nelle controversie la riconoscono anche i riformati. Scrive monsig. Bossuet nella sua conferenza avuta col signor Claudio calvinista, che nel libro della disciplina della religion pretesa riformata vi sono due atti, nel primo si legge così: Che le quistioni di dottrina sarebbero terminate colla parola di Dio (se si può) nel concistoro; quando no, l'affare sarebbe portato al colloquio, indi al sinodo provinciale, e per ultimo al nazionale, in cui si farebbe la final risoluzione colla parola di Dio; alle quali, se alcuno ricusasse di acchetarsi in tutti i punti e con espressa abiura de' proprj errori, sarebbe smembrato dalla chiesa. Il secondo atto era la condanna degl'indipendenti, i quali diceano che ciascuna chiesa dovea governarsi da se stessa, senza veruna dipendenza da chi si sia. Questa proposizione fu condannata nel sinodo di Charenton come pregiudiziale alla vera chiesa, e che dava libertà di formare tante religioni, quante parrocchie. Sicché ancora gli eretici conoscono che non basta la sola scrittura ad assicurarli nella credenza, ma che è necessaria soggettarsi al giudizio della chiesa, che loro spieghi il senso vero delle scritture; altrimenti sempre sarebbe rimasta la porta aperta a stabilire tante religioni, quante sono non solo le parrocchie, ma anche le teste degli uomini. Ma perché il giudizio de' loro sinodi non è giudizio infallibile, perciò essi restano sempre discordi e diversi nella credenza.

22. Finché dunque gli eretici non trovano una regola stabile, che gli assicuri con certezza di fede del vero senso delle scritture, essi non possono mai aver certa regola di fede. Ond'è che questi evangelici riformatori stanno sempre in continua discrepanza non solo colle altre chiese riformate, ma anche tra di loro stessi. Quindi confessò il celebre Puffendorfio protestante: Pontificiorum melior est conditio, quam protestantium: illi pontificem ecclesiae ut caput omnes agnoscunt; protestantes contra, capite destituti, fluctuant foede lacerati et discerpti. Ad suum unaquaeque respublica arbitrium omnia administrat et moderatur1.

23. All'incontro noi altri cattolici siamo sicuri di nostra fede, perché abbiamo un giudice infallibile, che definisce tutte le controversie; e questo giudice è la nostra santa chiesa romana stabilita da Gesù Cristo, la quale non può errare, poiché egli stesso l'ha stabilita per colonna e firmamento della verità, ed ha promesso di assisterla sino alla fine de' secoli. Ella dunque ci assicura delle vere scritture e del vero senso di quelle. E Dio a questo fine anche ha disposto che le scritture non sieno tutte chiare nelle loro sentenze, per esperimentare l'ubbidienza e l'umiltà de' fedeli alla chiesa loro madre e maestra.

24. Dunque la chiesa è quella che forma le cose di fede, e dà l'autorità alla parola divina? No, la chiesa non forma le cose della fede, né la chiesa insegna cose nuove di fede, ma solamente dichiara quelle che sono state insegnate a noi da Gesù Cristo per la scrittura o per la tradizione, parola divina scritta e non iscritta. Né mai la chiesa ha preteso di dare autorità alle sacre scritture, come gli eretici vogliono calunniarla, ma solo di dichiarare quelle che sono veramente sacre e canoniche, ritrovandole come sacre ricevute sino da' primi tempi, almeno in più parti del mondo cristiano; e quindi, assicurata dalla perpetua tradizione e dall'assistenza dello Spirito santo, comanda che si tengano come divine da' fedeli. E questa giustizia ce la rende ancora lo stesso Basnagio calvinista nei suoi annali1, ove dice: Patres ecclesiae sunt in ea re, non auctoritatis quidem, quam canon ex se habet, adiunctio, sed declaratio. Sicché la chiesa, insegnando a noi quali sono le vere scritture e il vero senso di quelle, non già da' l'autorità, né si antepone alla scrittura, ma si antepone al giudizio degli uomini privati, con esercitare quell'autorità che Dio le ha data.

25. Né qui vale ad opporre, come oppongono i novatori, che questo è circolo vizioso, credendo infallibile la scrittura, perché lo dice la chiesa, ed infallibile la chiesa, perché lo dice la scrittura. Perocché tale opposizione varrebbe se si parlasse con un infedele che nega l'infallibilità così della scrittura, come della chiesa; ma non è circolo vizioso, parlando con un cristiano, benché eretico, che ammette la divinità della scrittura; onde se nella scrittura sta dichiarato che la chiesa non può errare, ogni cristiano dee credere quel che dichiara la chiesa. E perciò dicea s. Agostino2Ego evangelio non crederem, nisi me ecclesiae commoveret auctoritas.All'incontro vero circolo vizioso è quello de' novatori, i quali dicono che per la scrittura si prova il senso privato, e per il senso privato si prova la scrittura; mentre l'una e l'altra proposizione son false, come abbiamo dimostrato. Essi dicono che col testo Oves meae vocem meam audiunt3 si prova il senso privato. Ma si dimanda: come si prova poi che da questo testo si approvi il senso privato? Altro non possono rispondere che col senso privato; ed ecco il circolo vizioso. Altro è poi quando il senso della scrittura è approvato dalla chiesa, la quale secondo la stessa scrittura non può errare.

26. Sicché la regola di fede de' cattolici così intorno al credere come all'operare, è la divina parola. Questa divina parola essi poi la ricavano dalla chiesa romana, che loro dichiara qual è la vera parola divina e quale il vero senso di quella, e questa chiesa è infallibile, mentre Iddio le ha promessa la sua assistenza sino alla fine del mondo, acciocché non erri. Gli eretici moderni vantano di credere alle s. scritture; ma perché non hanno chi gli assicuri dei veri libri canonici e del vero lor senso, le scritture loro non giovano, perché, ricorrendo essi al senso privato, formano tra loro tante fedi diverse, quante son le persone, come è avvenuto coll'esperienza. Essi si appoggiano al loro esame, e perciò non possono esser mai sicuri di alcuna scrittura e del suo senso. Noi ci appoggiamo all'autorità della chiesa dichiarata da Dio Colonna della verità, e così siamo sempre sicuri. Né sappiamo come i riformati, secondo il lor sistema, possano chiamar eretici i sociniani, o altri simili che negano la trinità e la divinità di Gesù Cristo. Diranno che in quanto a questi due misterj e punti fondamentali, le scritture son chiare. Ma quelli risponderanno ch'essi non l'intendono così, dicendo che alcuni sensi delle scritture non letteralmente, ma solo allegoricamente debbono intendersi. Or chi deciderà questa causa, se la chiesa non la decide? Eh che tolto l'argine dell'ubbidienza all'autorità della chiesa, non v'è più errore che possa convincersi di errore circa qualunque dogma ed anche circa la religion naturale.

27. Senza l'autorità della chiesa a che serve la rivelazione divina e la stessa ragion di natura, se l'una o l'altra possono interpretarsi da ognuno a suo modo? Tolta l'autorità della chiesa, ognuno potrà dire che la materia è eterna e che l'anima è mortale, ch'è falsa la trinità delle persone, l'incarnazione del Verbo e tutto quel che vuole. Questo succede, dice bene il signor Ramsay parlando di Locke, quando l'autorità della chiesa non guida il filosofo; le decisioni di quella non gli servon di bussola, e perciò allora non può non errare. Ecco come un ariano si oppone a' riformati, parlando del sinodo di Dordrect: Tutti i dottori riformati, dice, tra' quali si noverano Calvino e Beza come principali, s'accordano in questo punto generale, che tutti i concilj e sinodi, per santi che sieno, possono errare in ciò che spetta alla fede. Onde poi siegue a dire: Il fondamento della vera riforma... esige che né si possa, né si debba alcuno sottomettere, né soscrivere a sinodo alcuno, se non con questa condizione che dopo aver bene esaminati i di lui decreti al paragone della parola di Dio, che solo ci serve di legge in materia di fede, si trovino essi conformi a questa parola. Quindi, parlando dei protestanti, dice: Ma se eglino cangian massima, e vogliono che ciascun si sottometta a' loro sinodi assolutamente, essi allora non possono più rispondere a' papisti cosa che vaglia, e bisognerà che diano loro vinta la causa1. Questo è quel grande argomento che convertì un ministro francese, come porta il p. Valsecchi. Questi considerando che il sistema calvinistico lo portava a tollerare qualunque errore di eresia, di deismo ed anche di ateismo, si fece cattolico, e poi cacciò fuori un'opera molto utile, le due vie opposte in materia di religione. Ed in verità da tal sistema è nata quella moltitudine di empj, che nel passato e presente secolo sono abbondati nei paesi protestanti, ed hanno da per tutto seminati i loro errori.

28. Ma replica un riformato: non ostante l'autorità e l'infallibilità che vanta la vostra chiesa, pure l'Italia abbonda di deisti materialisti. Rispondiamo: volesse Dio e non fosse vero che alcuni libertini, e forse anche molti, nella nostra Italia, per vivere con maggior licenza e con minor rimorso, colla pena del quale troppo caro si compra il piacer del peccato, non si fossero aggregati all'infelice numero de' miscredenti. Ma di chi mai è un tal acquisto, se non degli infami libri usciti da' paesi oltramontani, che son giunti ad infettare anche le nostre parti? Questi non però tra noi, se sono scoperti, non si tollerano, ma si castigano e si sbandiscono dal commercio degli altri. Del resto la certezza dell'infallibilità della nostra chiesa è ben atta da sé a terminare le questioni di fede; e gli empj che tra noi dimorano, perciò sono empj, perché non ubbidiscono alla chiesa: a differenza del sistema de' novatori, che non è atto a raffrenare le libertà di coscienza, ma col principio dell'esame ad ognuno permesso delle cose di fede, apre da se stesso la via ad abbracciare ogni sistema di credere e per conseguenza ogni errore.

29. Ma come, replicano i protestanti, la chiesa romana poteva accertarsi della verità delle scritture e del vero lor senso e di tutti gli altri punti che ha definiti di fede? Come? Coll'assistenza dello Spirito santo e colla tradizione la quale è vera parola di Dio, siccome è la scrittura, e senza la quale non si avrebbe potuta ottenere la certezza della scrittura. E ciò proveremo nel seguente paragrafo.
________


1 De Mon. Pont. p. 134.
1 Sec. 3. diss. 9. n. 16.
2 L. 1. controv. ep. Manich. c. 5.
3 Ioan. 10. 27.
1 Ep. Ioan. Vytembogardi ad Lud. Colin. etc.

martedì 29 novembre 2011

La Città di Dio - XLII parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continua la lettura del libro quarto dell'opera che si sofferma sull'imperialismo romano; oggi Sant'Agostino si sofferma sul pensiero di due grandi autori come Cicerone e Varrone:

Libro quarto
IMPERIALISMO ROMANO E POLITEISMO


30. Cicerone, pur essendo àugure, schernisce le divinazioni e schernisce gli uomini che regolano le decisioni della vita dalla voce del corvo e della cornacchia 61. Ma questo filosofo accademico, che sostiene il dubbio universale, è immeritevole di avere autorità in materia. Quinto Lucilio Balbo è uno dei dialoganti nel secondo libro della sua opera La natura degli dèi. Questi, sebbene giustifichi ricorrendo alla natura alcune superstizioni di carattere naturalistico e filosofico, tuttavia si scaglia contro l'introduzione delle statue e le leggende. Dice: Lo vedete come dalla scoperta, destinata al benessere e al vantaggio, delle leggi naturali il pensiero sia condotto a rappresentarsi dèi immaginari e falsi? Il fatto ha dato origine a false opinioni, a errori turbolenti e a superstizioni da vecchiette. Ci sono stati resi noti così la fisionomia e l'età e il modo di vestire degli dèi e inoltre il genere, i matrimoni e la parentela e tutte le altre condizioni trasferite sul piano dell'umana debolezza. Infatti sono presentati con le varie emozioni psicologiche. Abbiamo sentito parlare di passioni, inquietudini e collere degli dèi. Gli dèi, come dicono i miti, non andarono esenti da guerre e battaglie. E non solo, come si ha in Omero, gli dèi difesero, chi da una parte e chi dall'altra i due eserciti avversari, ma hanno fatto perfino delle guerre personali, come con i Titani e i Giganti. È proprio da imbecilli credere a certe fole; sono piene di vuotezza e di sovrana stupidità 62. Frattanto ecco le concessioni di coloro che difendono gli dèi. Afferma dunque che queste credenze appartengono alla superstizione e per quanto attiene alla religione espone i concetti che, come sembra, egli deriva dalla dottrina degli stoici. Soggiunge: Non soltanto i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione; quelli che pregavano e immolavano per intere giornate, affinché i figli fossero a loro superstiti, furono chiamati superstiziosi 63. Si può ben capire che Cicerone tenta, poiché teme l'usanza della città, di difendere la religione degli antenati e che vuole distinguerla dalla superstizione ma che non trova un motivo plausibile. Dagli antenati sono stati chiamati superstiziosi quelli che pregavano e immolavano per intere giornate. E quelli che hanno introdotto (cosa che Cicerone disapprova) gli idoli degli dèi di differenti età e con diversa foggia di vestire e inoltre il loro genere, matrimonio e parentela, come li chiamavano? Queste forme sono incolpate come superstiziose. Ma è una colpa che coinvolge gli antenati che hanno introdotto e adorato gli idoli, coinvolge lui che, sebbene con una dimostrazione erudita tenti di conseguire la libertà, riteneva necessario rispettare simili credenze. Infatti le idee che proclama con eloquenza in questo dialogo non avrebbe osato neanche borbottarle fra i denti in un'assemblea popolare. Noi cristiani dunque ringraziamo il Signore Dio nostro e non il cielo e la terra, come dice costui, ma lui che ha creato il cielo e la terra. Egli, mediante la sublime umiltà del Cristo, mediante la predicazione degli Apostoli, mediante la fede dei martiri che morirono per la verità e vissero nella verità, attraverso la libera sottomissione dei suoi, ha rovesciato non solo dai cuori credenti ma anche dai templi superstiziosi queste superstizioni che questo Balbo quasi balbettando appena denuncia.

31. 1. Che dire dello stesso Varrone il quale, sebbene non in base a una sua opinione, ha posto, e questo mi rincresce, gli spettacoli teatrali fra i riti religiosi? Egli come uomo religioso esorta in molti passi ad onorare gli dèi ma confessa che non condivide con la propria opinione le istituzioni dello Stato romano da lui elencate. Non esita ad ammettere che se avesse dovuto riformare lo Stato avrebbe determinato gli dèi e i loro nomi in base a una formula naturalistica. Ma poiché si trovava in un popolo antico, afferma che è costretto, per quanto riguarda nomi e appellativi, a ritenere la tradizione degli avi, come è stata trasmessa e che ha pubblicato le proprie ricerche con lo scopo che la massa onori gli dèi anziché disprezzarli. Con queste parole egli, uomo veramente intelligente, indica abbastanza chiaramente che non svela tutte le credenze che, se non fossero taciute, potevano essere oggetto di disprezzo non solo per lui ma potevano essere disprezzate anche dalla massa. Avrei dovuto supporre che questo è il suo pensiero se in un altro passo, parlando delle credenze religiose, non dicesse apertamente che vi sono molti fatti veri che è utile per il popolo non conoscere, ma se fossero falsi, è conveniente che il popolo li giudichi diversamente e che per questo i Greci avevano occultato col silenzio e con le mura le iniziazioni misteriche. E con questo ha svelato l'intera trama dei sedicenti sapienti dai quali Stati e popoli sarebbero governati. I demoni malvagi, che tengono sottomessi egualmente ingannatori e ingannati, si dilettano straordinariamente di questo imbroglio. Dal loro dominio ci libera soltanto la grazia di Dio mediante il nostro Signore Gesù Cristo.

31. 2. Dice anche il medesimo scrittore, uomo di grande ingegno e cultura, che, a parer suo, hanno afferrato l'idea di Dio soltanto coloro i quali ritennero che egli è un'anima che con movimento razionale ordina il mondo al fine. Egli non ne aveva ancora il vero concetto. Il vero Dio infatti non è anima ma è causa efficiente e principio anche dell'anima. Se tuttavia gli fosse stato possibile essere libero dai pregiudizi della tradizione, avrebbe ammesso egli stesso e convinto gli altri che si deve adorare un solo Dio, il quale, mediante movimento razionale, ordina il mondo al fine. Con lui dunque rimarrebbe da esaminare soltanto il problema che lo considera anima e non piuttosto l'autore dell'anima. Afferma anche che gli antichi Romani per più di centosettanta anni onorarono gli dèi senza gli idoli. E soggiunge: Se questa usanza fosse rimasta, gli dèi sarebbero considerati in senso più spirituale 64. A conferma del suo pensiero adduce, fra altre motivazioni, anche il popolo ebreo e non dubita di chiudere il passo in parola col dire che i primi i quali introdussero le statue degli dèi abolirono il timore nella loro città e accrebbero l'errore. Saggiamente pensa che data l'assurdità degli idoli gli dèi si possano facilmente disprezzare. Col dire poi che accrebbero e non che diedero inizio all'errore vuol far capire che l'errore già esisteva anche senza gli idoli. Egli dunque dice che soltanto quelli i quali ritengono che Dio è un'anima che governa il mondo hanno afferrato l'idea di Dio e formula il giudizio che senza idoli si pratica una religione più spirituale. È evidente pertanto che si avvicinò molto alla verità. Se avesse potuto qualche cosa contro la lunga durata di un errore così grande, avrebbe creduto che il Dio, da cui è governato il mondo, è uno e avrebbe sostenuto che si deve adorare senza l'idolo. Venutosi a trovare così vicino, si sarebbe accorto del divenire dell'anima, in modo da avvertire che il vero Dio è un essere fuori del divenire e che ha anche creato l'anima stessa. Stando così le cose, gli uomini sapienti non hanno tentato di difendere ma sono stati costretti dall'occulto volere divino ad accettare le varie ridicole credenze del politeismo che hanno passato in rassegna nelle loro opere. Se dunque da me sono stati citati alcuni passi di quelle opere, sono stati citati per rimproverare i pagani i quali non vogliono accorgersi che il sacrificio offerto una sola volta di un sangue altamente santo e il dono della partecipazione dello Spirito ci liberano dal grande e grandemente malvagio potere dei demoni.

domenica 27 novembre 2011

Filotea: Introduzione alla vita devota - XXII

Proseguiamo l'appuntamento domenicale con Filotea di San Francesco di Sales. Nel capitolo di oggi vediamo i motivi per i quali dobbiamo respingere i peccati veniali e non rimanerne attaccati con il cuore:



FILOTEA
Introduzione alla vita devota

(San Francesco di Sales)

PRIMA PARTE


Contiene consigli ed esercizi necessari per condurre l'anima dal primo desiderio della vita devota fino alla ferma risoluzione di abbracciarla

CAPITOLO XXII


BISOGNA LIBERARSI DALL’AFFETTO AL PECCATO VENIALE


A misura che il giorno cresce, scopriamo meglio nello specchio le macchie e le impurità del nostro volto; così, a misura che la luce interiore dello Spirito Santo illumina le nostre coscienze, distinguiamo con maggiore chiarezza i peccati, le tendenze e le imperfezioni che possono impedirci di raggiungere la vera devozione. La stessa luce che ci fa notare queste tare e questa zavorra, ci anima al desiderio di mondarcene e di liberarcene.


Scoprirai dunque, cara Filotea, che oltre al peccato mortale e agli affetti al peccato mortale, di cui ti sei già liberata con gli esercizi sopra indicati, nell’anima tu conservi ancora molte tendenze e affetti ai peccati veniali. Non dico che scoprirai dei peccati veniali, ma degli affetti e delle tendenze ad essi; ora, sono due cose ben diverse: non saremo mai liberi completamente dai peccati veniali, almeno per un lungo tempo; ma possiamo benissimo non avere affetto ai peccati veniali. Infatti è ben diverso dire una frottola una volta o due, in allegria, in cosa di poca importanza, dal trovare gusto a mentire ed essere incalliti in quel genere di mancanza.


Dico che bisogna liberare la propria anima da tutti gli affetti ai peccati veniali, ossia non bisogna, in alcun modo, incoraggiare deliberatamente la volontà a rimanere nel peccato veniale; sarebbe una debolezza troppo grande conservare consapevolmente nella nostra coscienza un proposito che dispiace a Dio, quale la volontà di voler fare cosa a Lui non gradita.


Il peccato veniale, per piccolo che sia, dispiace a Dio, anche se non in misura da volere, per questo, dannarci o perderci. Se il peccato veniale gli dispiace, la volontà e l’affetto ad esso, sono un chiaro proposito di voler dispiacere alla Maestà divina. E com’è possibile che un’anima per bene, non soltanto voglia dispiacere a Dio, ma sia attaccata al desiderio di dispiacergli?


Questi affetti, Filotea, sono direttamente contrari alla devozione, come gli affetti al peccato mortale lo sono alla carità: indeboliscono le forze dello spirito, impediscono le consolazioni divine, aprono la porta alle tentazioni; se è vero che non uccidono l’anima, la rendono però gravemente inferma.


Le mosche morenti, dice il Saggio, rovinano e corrompono il pregio dell’unguento: con ciò vuol dire che le mosche le quali non si fermano che pochissimo sull’unguento e ne succhiano solo passando, rovinano solo quello che prendono e lasciano il resto intatto; ma quando vi cadono dentro morte, gli tolgono il pregio e nessuno più lo vuole.


Allo stesso modo, i peccati veniali, che capitano in un’anima devota senza soffermarsi per molto tempo, non le recano un danno molto grave; ma se quei peccati rimangono nell’anima a causa dell’affetto che c’è in noi per essi, questi le fanno perdere senz’altro il pregio dell’unguento, ossia la santa devozione.


I ragni non uccidono le api, ma ne contaminano e ne corrompono il miele, e le ostacolano con le loro ragnatele, di modo che le api non possono più lavorare; questo quando tessono ragnatele per fermarsi. Così, il peccato veniale non uccide l’anima, ma corrompe la devozione e intralcia talmente le potenze dell’anima con le cattive abitudini e tendenze, che essa non riesce più ad attuare la prontezza della carità, nella quale consiste la devozione; questo avviene quando il peccato veniale alberga nella nostra coscienza per l’affetto che gli portiamo.


Dire qualche bugia, è cosa da nulla; come pure dire qualche parola fuori posto, superare un po’ i giusti limiti nell’agire, negli sguardi, negli abiti, nelle battute, negli scherzi, nei balli, purché, appena presa coscienza di questi ragni spirituali, li respingiamo e li buttiamo fuori, come fanno le api con i ragni veri.


Ma se permettiamo loro di fermarsi nei nostri cuori, e per di più ci affezioniamo a trattenerli e moltiplicarli, presto troveremo che il nostro miele è andato perduto e l’alveare della nostra coscienza contaminato e disfatto. Ma, ripeto ancora una volta, che senso ha che una anima generosa trovi gusto a dispiacere a Dio, si affezioni ad essergli sgradita e voglia quello che sa bene che Dio non vuole?

sabato 26 novembre 2011

Il Sabato dei Salmi - Salmo 80 - Preghiera per la rinascita di Israele

Salmo 80   

Preghiera per la rinascita di Israele 
[1]Al maestro del coro. Su «Giglio del precetto».
Di Asaf.Salmo.
[2]Tu, pastore d'Israele, ascolta,
tu che guidi Giuseppe come un gregge.
Assiso sui cherubini rifulgi
[3]davanti a Efraim, Beniamino e Manasse.
Risveglia la tua potenza
e vieni in nostro soccorso. 

[4]Rialzaci, Signore, nostro Dio,
fà splendere il tuo volto e noi saremo salvi. 

[5]Signore, Dio degli eserciti,
fino a quando fremerai di sdegno
contro le preghiere del tuo popolo? 

[6]Tu ci nutri con pane di lacrime,
ci fai bere lacrime in abbondanza.
[7]Ci hai fatto motivo di contesa per i vicini,
e i nostri nemici ridono di noi. 

[8]Rialzaci, Dio degli eserciti,
fà risplendere il tuo volto e noi saremo salvi. 

[9]Hai divelto una vite dall'Egitto,
per trapiantarla hai espulso i popoli.
[10]Le hai preparato il terreno,
hai affondato le sue radici e ha riempito la terra.
[11]La sua ombra copriva le montagne
e i suoi rami i più alti cedri.
[12]Ha esteso i suoi tralci fino al mare
e arrivavano al fiume i suoi germogli. 

[13]Perché hai abbattuto la sua cinta
e ogni viandante ne fa vendemmia?
[14]La devasta il cinghiale del bosco
e se ne pasce l'animale selvatico. 

[15]Dio degli eserciti, volgiti,
guarda dal cielo e vedi
e visita questa vigna,
[16]proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato,
il germoglio che ti sei coltivato.
[17]Quelli che l'arsero col fuoco e la recisero,
periranno alla minaccia del tuo volto.
[18]Sia la tua mano sull'uomo della tua destra,
sul figlio dell'uomo che per te hai reso forte.
[19]Da te più non ci allontaneremo,
ci farai vivere e invocheremo il tuo nome. 

[20]Rialzaci, Signore, Dio degli eserciti,
fà splendere il tuo volto e noi saremo salvi.



Il salmo è un’autobiografia d’Israele che sente interrotto il contatto con Dio suo salvatore. Anche se Dio è sempre presente, assiso sul trono della sua arca, egli sembra essersi assopito, distaccato, freddo e indifferente. "Il salmista non dubita di Dio, ma non riesce a capire le sue vedute. Non cerca spiegazioni, ma chiede che il volto di Dio si illumini e che nei suoi occhi si leggano di nuovo la benevolenza e la bontà" (R. Lack).
L’autore del salmo volge in preghiera la sollecitudine stessa di Dio che in Ez 23,11 aveva detto: "Ecco io cercherò le mie pecore e mi occuperò di loro". Ciò che sta a cuore al salmista è la restaurazione d’Israele in un unico regno.
La situazione d’Israele non è poi tanto diversa da quella del popolo cristiano. I cristiani sono divisi. Chi ama davvero Gesù e la sua missione, deve provare una pena profonda per questa situazione, di cui sono responsabili tutti coloro che portano il nome di cristiani.
Commento dei padri della chiesa
v. 2 «Questo salmo annuncia l’avvento del Cristo (cfr. Gv 10,1 ss.). Chi pasce Israele è il Verbo di Dio, lo stesso che parlò per mezzo di Mosè, che apparve ad Abramo e dice in Gv 8,56.58: "Prima che Abramo fosse, io sono... Abramo vide il mio giorno e si rallegrò"» (Eusebio).
"Tu, che hai per il tuo popolo la sollecitudine di un pastore per il suo gregge, ti prego, ascolta la mia preghiera" (Atanasio).
"Questo salmo canta l’avvento del nostro Salvatore e canta la sua vigna" (Beda).
«Giuseppe è scelto dal salmista per illustrare l’idea che il Signore l’ha accompagnato dovunque, in tutte le sue sventure: "E il Signore era con Giuseppe" (Gen 39,2)» (Eusebio).
"Giuseppe cadde nelle mani dei suoi fratelli come una pecora in mezzo ai lupi. Tu l’hai liberato, guidato e posto più in alto dei suoi persecutori" (Teodoreto).
"Giuseppe venduto dai fratelli è figura del Messia" (Beda).
v. 3 "Il Cristo è potenza del Padre e sapienza del Padre (cfr. 1Cor 1,24)" (Origene).
v. 4 "Il Cristo è il volto del Padre" (Origene).
"Il tuo volto: è il Figlio. In lui solo si manifesta la bellezza del Padre. Quando il Padre ha fatto risplendere per noi il suo volto, nel Figlio, ci siamo rivolti verso il Dio vivo e vero" (Cirillo di Alessandria).
"Manifesta il tuo volto, la tua immagine che hai impresso in noi: non bisogna che essa rimanga oscura; manda un raggio della tua sapienza, affinché risplenda in noi la tua immagine. Sia in me visibile la tua immagine; e se mai avvenga che io la deformi un poco, riformala Tu che l’hai formata" (Agostino).
v. 9 "Trasportata dall’Egitto, cioè dall’ignoranza empia, la vigna è diventata così grande e così bella che copre tutta la terra e sale più in alto dei cedri" (Gregorio Nazianzeno).
"La vigna è il Cristo" (Cassiodoro).
v. 12 "La moltitudine del popolo si estendeva dall’Eufrate fino al mare" (Atanasio).
"Il cinghiale è il diavolo" (Origene).
v. 16 "Simeone porta nelle braccia il grappolo di vita colto sulla vigna della Vergine. Lo porta benedicendo Dio nel tempio della redenzione: e la santa dimora fu ricolma di gioia davanti al Messia del Padre" (Efrem).
"Profezia dell’avvento del Cristo. La vigna era diventata selvatica; il profeta prega Dio di risparmiarla per quest’unico germoglio che essa produrrà: il Cristo, la vera vite (cfr. Gv 15,1). La vera vite ha prodotto grandi tralci, allo stesso modo anche coloro che hanno creduto nel Cristo. La loro ombra ha coperto i monti. Questa vite vera estende i suoi tralci fino al mare e fino al fiume" (Teodoreto).
v. 18 "Nostro Signore è sempre la destra del Padre, anche quando si fa uomo" (Atanasio).
v. 19 "Allorché il Salvatore apparirà, noi abbandoneremo gli idoli e non ci allontaneremo più da te" (Eusebio).
«Colui che ci fa vivere è colui che ha detto: "Io sono la Vita" (Gv 14,6)» (Origene).

giovedì 24 novembre 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - LIII

Proseguiamo l'appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Continuiamo la lettura dell'Articolo 1:



PARTE SECONDA  
LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO CRISTIANO

SEZIONE PRIMA 
L'ECONOMIA SACRAMENTALE

CAPITOLO SECONDO 
LA CELEBRAZIONE SACRAMENTALE DEL MISTERO PASQUALE


ARTICOLO 1 
CELEBRARE LA LITURGIA DELLA CHIESA

II. Come celebrare?


Segni e simboli


1145 Una celebrazione sacramentale è intessuta di segni e di simboli. Secondo la pedagogia divina della salvezza, il loro significato si radica nell'opera della creazione e nella cultura umana, si precisa negli eventi materiali dell'Antica Alleanza e si rivela pienamente nella persona e nell'opera di Cristo.


1146 Segni del mondo degli uomini. Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l'uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l'uomo ha bisogno di segni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio.


1147 Dio parla all'uomo attraverso la creazione visibile. L'universo materiale si presenta all'intelligenza dell'uomo perché vi legga le tracce del suo Creatore.83 La luce e la notte, il vento e il fuoco, l'acqua e la terra, l'albero e i frutti parlano di Dio, simboleggiano ad un tempo la sua grandezza e la sua vicinanza.


1148 In quanto creature, queste realtà sensibili possono diventare il luogo in cui si manifesta l'azione di Dio che santifica gli uomini, e l'azione degli uomini che rendono a Dio il loro culto. Ugualmente avviene per i segni e i simboli della vita sociale degli uomini: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice possono esprimere la presenza santificante di Dio e la gratitudine dell'uomo verso il suo Creatore.


1149 Le grandi religioni dell'umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La liturgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della creazione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Gesù Cristo.


1150 Segni dell'Alleanza. Il popolo eletto riceve da Dio segni e simboli distintivi che caratterizzano la sua vita liturgica: non sono più soltanto celebrazioni di cicli cosmici e di gesti sociali, ma segni dell'Alleanza, simboli delle grandi opere compiute da Dio per il suo popolo. Tra questi segni liturgici dell'Antica Alleanza si possono menzionare la circoncisione, l'unzione e la consacrazione dei re e dei sacerdoti, l'imposizione delle mani, i sacrifici, e soprattutto la pasqua. In questi segni la Chiesa riconosce una prefigurazione dei sacramenti della Nuova Alleanza.


1151 Segni assunti da Cristo. Nella sua predicazione il Signore Gesù si serve spesso dei segni della creazione per far conoscere i misteri del regno di Dio.84 Compie guarigioni o dà rilievo alla sua predicazione con segni o gesti simbolici.85 Conferisce un nuovo significato ai fatti e ai segni dell'Antica Alleanza, specialmente all'esodo e alla pasqua,86 poiché egli stesso è il significato di tutti questi segni.


1152 Segni sacramentali. Dopo la pentecoste, è mediante i segni sacramentali della sua Chiesa che lo Spirito Santo opera la santificazione. I sacramenti della Chiesa non aboliscono, ma purificano e integrano tutta la ricchezza dei segni e dei simboli del cosmo e della vita sociale. Inoltre essi danno compimento ai tipi e alle figure dell'Antica Alleanza, significano e attuano la salvezza operata da Cristo, prefigurano e anticipano la gloria del cielo.


Parole e azioni


1153 Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole. Anche se le azioni simboliche già per se stesse sono un linguaggio, è tuttavia necessario che la Parola di Dio e la risposta della fede accompagnino e vivifichino queste azioni, perché il seme del Regno porti il suo frutto nella terra buona. Le azioni liturgiche significano ciò che la Parola di Dio esprime: l'iniziativa gratuita di Dio e, nello stesso tempo, la risposta di fede del suo popolo.


1154 La liturgia della Parola è parte integrante delle celebrazioni sacramentali. Per nutrire la fede dei credenti, devono essere valorizzati i segni della Parola di Dio: il libro della Parola (lezionario o evangeliario), la venerazione di cui è fatta oggetto (processione, incenso, candele), il luogo da cui viene annunziata (ambone), la sua proclamazione udibile e comprensibile, l'omelia del ministro che ne prolunga la proclamazione, le risposte dell'assemblea (acclamazioni, salmi di meditazione, litanie, professione di fede).


1155 Inseparabili in quanto segni e insegnamento, le parole e le azioni liturgiche lo sono anche in quanto realizzano ciò che significano. Lo Spirito Santo non si limita a dare l'intelligenza della Parola di Dio suscitando la fede; attraverso i sacramenti egli realizza anche le « meraviglie » di Dio annunziate dalla Parola; rende presente e comunica l'opera del Padre compiuta dal Figlio diletto.


Canto e musica


1156 « La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia solenne ».87 La composizione e il canto dei salmi ispirati, frequentemente accompagnati da strumenti musicali, sono già strettamente legati alle celebrazioni liturgiche dell'Antica Alleanza. La Chiesa continua e sviluppa questa tradizione: « Intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore » (Ef 5,19).88 Chi canta prega due volte.89


1157 Il canto e la musica svolgono la loro funzione di segni in una maniera tanto più significativa « quanto più sono strettamente uniti all'azione liturgica »,90 secondo tre criteri principali: la bellezza espressiva della preghiera, l'unanime partecipazione dell'assemblea nei momenti previsti e il carattere solenne della celebrazione. In questo modo essi partecipano alla finalità delle parole e delle azioni liturgiche: la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli:91


« Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene ».92


1158 L'armonia dei segni (canto, musica, parole e azioni) è qui tanto più significativa e feconda quanto più si esprime nella ricchezza culturale propria del popolo di Dio che celebra.93 Per questo « si promuova con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, e nelle stesse azioni liturgiche », secondo le norme della Chiesa, « possano risonare le voci dei fedeli ».94 Tuttavia, « i testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla Sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche ».95


Le sacre immagini


1159 La sacra immagine, l'icona liturgica, rappresenta soprattutto Cristo. Essa non può rappresentare il Dio invisibile e incomprensibile; è stata l'incarnazione del Figlio di Dio ad inaugurare una nuova « economia » delle immagini:


« Un tempo Dio, non avendo né corpo, né figura, non poteva in alcun modo essere rappresentato da una immagine. Ma ora che si è fatto vedere nella carne e che ha vissuto con gli uomini, posso fare una immagine di ciò che ho visto di Dio. [...] A viso scoperto, noi contempliamo la gloria del Signore ».96


1160 L'iconografia cristiana trascrive attraverso l'immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola. Immagine e parola si illuminano a vicenda:


« In poche parole, noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni della Chiesa, sia scritte che orali. Una di queste riguarda la raffigurazione del modello mediante una immagine, in quanto si accordi con la lettera del messaggio evangelico, in quanto serva a confermare la vera e non fantomatica incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio, perché le cose rinviano l'una all'altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano ».97


1161 Tutti i segni della celebrazione liturgica sono riferiti a Cristo: lo sono anche le sacre immagini della santa Madre di Dio e dei santi, poiché significano Cristo che in loro è glorificato. Esse manifestano « il gran numero di testimoni » (Eb 12,1) che continuano a partecipare alla salvezza del mondo e ai quali noi siamo uniti, soprattutto nella celebrazione sacramentale. Attraverso le loro icone, si rivela alla nostra fede l'uomo creato « a immagine di Dio », e trasfigurato « a sua somiglianza »,98 come pure gli angeli, anch'essi ricapitolati in Cristo:


« Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi Padri e la Tradizione della Chiesa cattolica – riconosciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa – noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell'immacolata Signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti ».99


1162 « La bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. È una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna apre il mio cuore a rendere gloria a Dio ». 100 La contemplazione delle sante icone, unita alla meditazione della Parola di Dio e al canto degli inni liturgici, entra nell'armonia dei segni della celebrazione in modo che il mistero celebrato si imprima nella memoria del cuore e si esprima poi nella novità di vita dei fedeli.


mercoledì 23 novembre 2011

Verità della Fede - XLIII

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Restiamo nel capitolo nel quale si prova la non autenticità della religione riformata:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. VI. 


Falsità della religione pretesa riformata.



§. 2. È falsa secondariamente la religion riformata, perché manca ad essa la regola di fede.

8. Tutta la regola di fede de' novatori consiste nella sacra scrittura, e perciò vogliono che sieno intesi della scrittura anche i villani e le femminucce del paese. Ma errano, perché la scrittura non può mai renderli certi de' dogmi e precetti della fede, atteso che giusta i loro principj non possono accertarsi né che vi sia scrittura, né quali siano i libri di quella veri o apocrifi, né qual sia l'incorrotta loro versione, né quale sia il lor legittimo senso.

9. E per 1. come sanno che vi sia scrittura divina? Per divina scrittura s'intendono i libri scritti dagli uomini, ma da Dio ispirati, de' quali il primo scrittore fu Mosè, indi i profeti ed altri autori canonici ed ultimamente gli evangelisti ed altri apostoli. Ora come provano l'esistenza della vera scrittura? Forse per le profezie e pei miracoli che ivi stanno scritti? Ma chi gli accerta che tali profezie si sieno avverate, o che non sieno state scritte dopo i fatti già avvenuti? Ed i miracoli come sappiamo che sieno stati veri? Oltreché vi sono più libri sacri, ove non vi sono né profezie né miracoli, ma solamente sentenze. E come si prova che questi sieno libri divini? Per il testo della stessa scrittura? Ma come il testo della scrittura può addursi per provare la esistenza della scrittura, quando appunto questo si dubita se quella sia vera scrittura?

10. Per 2. ancorché constasse dell'esistenza della scrittura, come provano quali sieno i veri libri di quella che s'abbiano da tenere per canonici? Poiché può essere che qualche libro sia veramente canonico, ma che a noi ancora non consti. Nel canone cattolico si contengono settantadue libri, 45. del vecchio testamento e 27 del nuovo, come abbiamo nel concilio tridentino1, che ricevette questo canone dal fiorentino, e il fiorentino dal romano sotto Gelasio papa, aggiunta l'autorità di s. Agostino e del Cartaginese III. (secondo altri V. o VI.), che fu approvato poi dal concilio ecumenico VI., i padri del quale dissero aver ricevuto lo stesso canone da Innocenzo I. che visse nel 402. , e dichiarò averlo ricevuto per tradizione continua dagli apostoli, la quale tradizione per causa delle persecuzioni avute ne' secoli precedenti non era nota in tutti i luoghi.

11. Lutero tolse dal mentovato canone più libri del vecchio testamento, cioè quel di Tobia, di Giuditta, della Sapienza, dell'Ecclesiastico, dei Macabei e di Baruch ed altri libri del testamento nuovo, come l'epistola di s. Paolo agli ebrei, l'epistola di s. Giacomo e di s. Giuda e l'Apocalisse di s. Giovanni. Or si dimanda a coloro che sono separati dalla chiesa cattolica: come essi provano che questi libri non sono sacri? E come provano che sono sacri gli altri libri da loro ammessi? Non possono certamente provarlo dalle altre scritture sacre; perché in quelle non si esprime che i libri da loro ammessi sono sacri e gli altri no. E benché in qualche luogo della scrittura si nomini alcun altro libro, o si porti alcuna sentenza addotta in altro luogo, chi ci assicura che tali cose non vi siano inserite da qualche impostore, siccome gli ebrei moderni hanno inserite nella loro scrittura tante cose false? Né vale dire che in certi libri dicesi: Dominus locutus est; perché ciò si dice in ogni sentenza; e poi chi sa se tali parole non siansi poste dai copisti per malizia o per errore? Neppure possono provarlo dagli indizj; poiché tali indizj non possono essere se non molto oscuri. Giacché quella luce che ad essi apparisce, non apparisce a' gentili, non a' maomettani, non a' giudei (circa il nuovo testamento), né ad altri fratelli riformati; poiché i calvinisti riconoscono per vere le epistole di s. Giacomo, di s. Giuda, di s. Paolo agli ebrei, l'Apocalisse, quando che i luterani (come si è detto di sopra) lo negano. Tanto meno possono provarlo per lo spirito privato, che ognuno ha, come dicono, intieramente per la luce dello Spirito santo; poiché tale spirito è affatto incerto se sia da Dio: onde avrebbe da conoscersi una cosa ignota per un'altra più ignota. Se ogni cristiano riceve questa luce interna, perché non l'ha ancora un ariano, un macedoniano, un nestoriano?

12. Dicono i novatori che non debbono tenersi per sacri quei libri che non sono scritti da' profeti, o a tempo de' profeti, oppure non sono scritti nell'idioma, di cui si serviva allora la sinagoga, o che non si vedono citati dagli apostoli, o che non fanno menzione del Messia. Ma si dimanda: come consta che poi sieno divine le altre sentenze che vi sono negli stessi libri, ma che non parlano del Messia? E poi come si prova che i libri per esser canonici abbisognino di tali condizioni? Ma, replicano, i libri ammessi da' cattolici contengono errori; ed in fatti l'autore de' due libri de' Maccabei cerca perdono degli errori commessi nello scrivere. Si risponde che in tai libri vi sono molte cose difficili ad intendere, come scrisse s. Pietro delle epistole di san Paolo1In quibus sunt quaedam difficilia intellectu, ma non già errori. Se poi l'autore de' Maccabei cerca perdono degli errori, non parla circa la verità, ma circa lo stile semplice con cui scrisse. Neppure osta che la chiesa per alcun tempo ha dubitato della verità di alcuni libri canonici; perché non mai ne ha dubitato tutta la chiesa, ed un tal dubitare non ha impedito che appresso ne fosse accertata per mezzo della tradizione e dell'assistenza dello Spirito santo.

13. Per 3. benché constasse dell'esistenza della scrittura, e constasse quali sono i libri canonici, come provano che la versione di tai libri sia legittima ed incorrotta? La bibbia originalmente è stata scritta in tre lingue, ebraica greca e latina. In lingua ebraica sono stati scritti i libri del testamento vecchio; nella greca poi quelli del nuovo, fuorché il vangelo di s. Matteo e l'epistola di s. Paolo agli ebrei, che probabilmente fu scritta in lingua siriaca usata a tempo degli apostoli, mista non però di voci ebraiche e caldaiche, ed eccettuato il vangelo di s. Marco, che probabilmente fu scritto in Roma in lingua latina. Inoltre è certo che della scrittura si son fatte più versioni. Il vecchio testamento prima fu trasportato dall'ebraico in greco in più versioni, come furono quelle di Origene, di s. Luciano, di Teodozione, d'Aquila ecc.; ma la più celebre fu quella de' settanta, la quale fu fatta circa gli anni 280. prima della venuta di Gesù Cristo. Di tutte queste niuna è autentica. Quella de' settanta è molto stimata, e di quella si valsero gli apostoli ed i santi padri. In quanto poi alle versioni latine, la Volgata viene attribuita a s. Girolamo: ciò è vero in quanto al vecchio testamento, eccettuati i salmi, la sapienza, l'ecclesiastico e Baruch; in quanto al nuovo la versione fu di altro autore più antico, ma fu commentata da san Girolamo. E questa volgata è stata dichiarata autentica dal concilio di Trento nella sess. 4. ove si disse: Sacrosancta synodus statuit et declarat ut haec ipsa vetus et vulgata editio, quae longo tot saeculorum usu in ipsa ecclesia probata est, in publicis lectionibus, disputationibus, praedicationibus et expositionibus pro autentica habeatur, et ut nemo illam reiicere quovis praetextu audeat. Gli eretici poi hanno stampate diverse altre versioni latine, ma tutte corrotte e discordanti in più cose dalla volgata, oltre poi di molte altre versioni fatte in lingua volgare più corrotte delle latine.

14. Posto ciò, gli eretici non possono trovare alcuna loro versione che sia pura, se non per lo spirito interno, in modo che le loro scritture si riducono ad una moltitudine confusa di sentenze diverse; poiché i loro traduttori non erano totalmente periti delle lingue originali, né erano esenti come uomini dal poter prendere molti abbagli; e ciò oltre gli errori che vi hanno inseriti, aggiungendo o togliendo parole, secondo meglio lor riusciva per coonestare le proprie dottrine.

15. Oppongono essi che la nostra volgata dissente dall'ebraica e dalla greca, e che perciò Clemente VIII. corresse in più luoghi la stessa volgata data fuori da Sisto V., e che ella neppure è purgata in tutto, come confessa il medesimo Clemente nella sua prefazione. Si risponde che la volgata non dissente dall'ebraica e greca in quanto al senso sostanziale; poiché i traduttori hanno riguardato più al senso che alle parole, affinché la versione non riuscisse molto oscura. Ma del resto che importa che la volgata discordi in più cose dall'ebrea e greca, mentre è noto, come avvertono gli eruditi, che gli esemplari ebraici e greci al presente si ritrovano in parte difettosi? La lezione poi di Clemente non variò da quella di Sisto in quanto al senso, ma solo in quanto a certe espressioni; tanto più che nello stesso testo ben possono esservi più sensi, come dicono i medesimi avversarj. La volgata, secondo parla Clemente, neppure oggi è libera da ogni errore accidentale; ma così per quella di Sisto, che per altro non fu promulgata, come per quella di Clemente sta definito ch'elle sono esenti da ogni errore sostanziale contro la fede o i buoni costumi, circa le quali cose, attesa la promessa di Gesù Cristo, la chiesa non può errare. Ma come il concilio di Trento poté dichiarare autentica quell'edizione che doveva esser corretta poi da Clemente? Rispondo: il concilio ben dichiarò autentica quella edizione che prima chiamavasi vecchia o volgata, ed era stata già provata per vera col lungo uso di tanti secoli per mezzo della tradizione apostolica, ch'è la parola viva della fede; altro dunque non dispose il concilio, se non che dal pontefice si aggiustassero meglio gli errori ch'erano accidentali.

16. Per 4. ed ultimo, ancorché constasse di alcun esemplare che quella è la vera ed intiera bibbia, e che quella è la legittima ed incorrotta versione, come si prova quale sia il vero senso delle scritture? Dice s. Girolamo che il vangelo, o sia la legge del vangelo non è nelle parole delle scritture, ma nel vero senso di quelle: Non putemus in verbis scripturarum esse evangelium, sed in sensu... Interpretatione enim perversa de evangelio Christi fit hominis evangelium, aut quod peius est, diaboli. Così le parole Pater maior me est1, come le intende un cattolico, sono parole di Dio; ma come le intende un ariano, sono parole d'un eretico. Queste altre parole: Qui crediderit, et baptizatus fuerit, salvus erit2, intese da un luterano sono eresia, intese da un cattolico sono verità.

17. Bisogna dunque distinguere i sensi. Altro è il vero senso della scrittura, altro l'accomodatizio. Il vero è quello che propriamente s'intende da Dio. L'accomodatizio è quello che gli danno gli uomini praeter la mente divina: si dice praeter non contra, perché se fosse contra, sarebbe falso; ma se solamente è praeter, è permesso, ma non è il senso proprio da Dio inteso. Vi è poi il senso letterale e il senso mistico; l'uno e l'altro può essere inteso da Dio. Non in ogni testo vi è il senso mistico, ma vi è bensì il letterale, fuorché quando la sentenza non si può intendere letteralmente. Talvolta in un testo vi è il letterale ed il mistico, come in quello: Abraham duos filios habuit, unum de ancilla et unum de libera... Quae sunt per allegoriam dicta. Haec enim sunt duo testamenta etc.1. In questo testo: Hoc est corpus meum2, la chiesa cattolica intende la parola est per essere nel tempo presente, sicché pronunziate le dette parole, il pane non è più pane, ma è vero corpo di Gesù Cristo, reale permanente. Zuinglio malamente intende la parola est per significare: Questo significa il corpo mio: siccome ne adduce l'esempio, Est enim Phase, idest transitus3. Lutero all'incontro intende malamente la parola est per essere, ma nel tempo futuro: Questo sarà il corpo mio, cioè nell'atto che sarà preso da' fedeli. Or come noi potremo sapere il vero senso di tali parole, avendo solamente riguardo al senso letterale? E se di tali parole non abbiamo noi cattolici la certezza del senso, possiamo aver ferma credenza del sacramento dell'eucaristia? Inoltre è certo che molti luoghi della scrittura sono oscuri. Lutero e Calvino dicono che no, ma ch'ella è chiara a tutti gli uomini pii. Ma come va poi che i santi padri han molto faticato per intendere alcuni testi, e neppure gli hanno compresi? S. Agostino4 confessa che erano più i testi che ignorava, che quelli che intendeva: In ipsis s. scripturis plura nescio, quam scio5. E s. Girolamo, Hoc tantum scio, quod nescio6. Gli stessi eretici Brenzio, Giovan Gerardo, Molineo ed Amesio han confessato che vi sono molti passi astrusi in più luoghi della scrittura, nei profeti, nei salmi, nell'apocalisse, nelle epistole e specialmente nell'epistola prima a' corinti7 ove si dice: Qui baptizantur pro mortuis. Come uno può battezzarsi per gli altri? E poi per li morti? Alcuni altri testi par che pugnino insieme: Non resurgent impii in iudicio, si dice nel salmo 1. v. 5. E poi nell'epistola di s. Paolo8 si dice:Omnes quidem resurgemus, sed non omnes immutabimur. Nell'epistola a' romani9 dicesi: Arbitramur enim iustificari hominem per fidem sine operibus legis. Ed all'incontro nella stessa epistola10 dicesi: Factores legis iustificabuntur. Non può negarsi che molti testi sono difficili ad intendersi, mentre nella stessa scrittura troviamo scritto: Sicut et in omnibus epistolis, cioè, dice s. Paolo, loquens in eis de his, in quibus sunt quaedam difficilia intellectu11.

18. Né gli eretici secondo i loro principj possono mai provare che abbiano il vero senso della scrittura. Non possono provarlo per mezzo della stessa scrittura, perché, siccome si è detto, la scrittura in molto luoghi è oscura, né in altri luoghi si spiega; e così come un testo può essere giudice dello stesso testo? Non possono neppure provarlo per lo spirito interno, perché questo spirito è di ciascun uomo privato, il quale può ingannarsi. Non dicono i novatori che la chiesa romana dopo il quinto secolo si è ingannata con tanti uomini dotti suoi seguaci, e così ha corrotta la fede? E come poi ciascun uomo privato non può ingannarsi? Ma a rispetto di questo spirito privato vediamo che ne dicono questi maestri di fede. Lutero nega tanti libri della scrittura: Giobbe, l'ecclesiaste ed altri riferiti di sopra: Calvino all'incontro gli ammette per veri e divini. Ambedue questi eresiarchi, come dicono i loro seguaci, sono stati messi illuminati da Dio, ambedue hanno avuta la luce interna dallo Spirito santo. A chi dei due dobbiamo noi credere? Di più le parole dell'eucaristia: Hoc est corpus meum, Lutero le intende realmente del corpo di Gesù Cristo; ma Zuinglio e Calvino le intendono figuratamente: Sicché quello che l'uno tiene per fede, gli altri condannano per idolatria. Mi dicano chi di loro dice la verità?

19. Posto ciò si vede che i riformati non hanno, né possono aver regola certa di fede; poiché non hanno giudice infallibile che decida le controversie. E qual è questo giudice infallibile? È la chiesa. Vediamolo.

_______

1 Sess. 4.

1 1. Petr. 3. 16.

1 Ioan. 10. 28.

2 Marc. 16. 16.

1 Gal. 4. 22. et 24.

2 Matth. 26. 26.

3 Exod. 11. 12.

4 Ep. 119. c. 21.

5 Ep. ad Ianuar c. 6.

6 Ep. ad Paulin.

7 C. 15. v. 19.

8 1. Cor. 15. 15.

9 C. 3. v. 28.

10 C. 1. v. 13.

11
 2. Petr. 3. 16. 

martedì 22 novembre 2011

La Città di Dio - XLI parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continua la lettura del libro quarto dell'opera che si sofferma sull'imperialismo romano; oggi continuiamo a vedere il Santo d'Ippona "esaminare" a fondo la religione politeista romana e l'idolatria:

Libro quarto
IMPERIALISMO ROMANO E POLITEISMO


27. Il dottissimo pontefice Scevola, come è riferito nella storia letteraria, ha dimostrato che sono state consegnate alla tradizione tre figure di dèi, una dai poeti, un'altra dai filosofi e una terza dagli uomini politici. Il primo tipo, a suo avviso, è dovuto a frivolezza perché si immaginano molti fatti indegni degli dèi; il secondo non è conveniente per gli Stati, perché contiene alcuni concetti superflui ed altri la cui conoscenza nuocerebbe ai cittadini. Per quanto riguarda il superfluo non si ha un grosso problema; anche dai giurisperiti si suole affermare: Il superfluo non nuoce 54. Ma quali sono i temi che nuocciono se resi noti alla massa? Sono questi, egli risponde, che Ercole, Esculapio, Castore, Polluce non sono dèi, perché si dimostra dai dotti che sono stati uomini e che sono morti secondo l'umana condizione. E c'è altro? Che le città non abbiano idoli veristi degli dèi perché un vero dio non ha sesso, età e una determinata figura fisica 55. Il pontefice non vuole che i cittadini siano illuminati su questi temi perché non ritiene che siano falsi. È opportuno dunque, a suo avviso, che i cittadini in fatto di religione siano ingannati. Varrone nell'opera Sulla religione non esita a pensarla alla medesima stregua 56. Bella religione questa, a cui il debole si rivolgerebbe per esser liberato e mentre cercherebbe la verità che lo liberi, dovesse credere che gli conviene essere ingannato. Negli scritti di Scevola è detto anche perché egli rifiuti la figura degli dèi data dai poeti. Essi tratteggiano gli dèi in maniera che non possono neanche essere paragonati a persone oneste, poiché presentano l'uno che ruba, l'altro che va a donne, cioè che fanno o dicono qualcosa di assolutamente indecente. Inventano che tre dee hanno gareggiato per il premio di bellezza e che le due sconfitte da Venere hanno fatto distruggere Troia, che Giove si muta in toro o in cigno per andare a letto con una donna, che una dea si accoppia con un uomo, che Saturno divora i figli, che infine nulla si può inventare di incredibilmente vizioso che non si trovi nelle loro poesie ed è assolutamente sconveniente alla natura degli dèi. O Scevola, pontefice massimo, abolisci gli spettacoli se ci riesci, ordina ai cittadini che non presentino agli dèi immortali onori, durante i quali si prende gusto ad ammirare i delitti degli dèi e, dove è possibile, ad imitarli. Se il popolo ti risponderà: "O pontefici, siete stati voi a importare per noi questi spettacoli"; prega gli dèi, dietro cui istigazione li avete ordinati, che la smettano di comandare che siano loro offerti. Se quelle azioni sono malvagie e quindi da non attribuirsi assolutamente alla maestà degli dèi, la colpa maggiore è degli dèi stessi perché impunemente possono essere inventate nei loro riguardi. Ma non ti ascoltano, sono demoni, insegnano la depravazione, si dilettano dell'immoralità, non solo non considerano un torto se si inventano questi episodi nei loro confronti, anzi non possono sopportare il torto che non siano rappresentati durante le loro feste. Se poi ti appelli a Giove contro di loro, soprattutto perché vengono rappresentati parecchi suoi delitti negli spettacoli teatrali, anche se considerate Giove il dio da cui è retto e ordinato al fine questo mondo, da voi gli si rivolge il più grande insulto appunto perché ritenete di adorarlo assieme a loro e affermate che è il loro re.

28. È assurdo dunque che abbiano potuto accrescere e difendere l'impero romano dèi simili che sono placati o piuttosto chiamati in giudizio da simili onori, perché è più grave il reato che si dilettino dei loro falsi delitti che se li avessero commessi davvero. Se avessero tale potere, assegnerebbero un dono così grande piuttosto ai Greci che, per quanto attiene a questi aspetti della religione, cioè agli spettacoli teatrali, hanno onorato gli dèi in una forma più rispettosa e conveniente. Infatti essi non si sottrassero alla critica dei poeti da cui, come osservavano, anche gli dèi erano colpiti e diedero loro il permesso di maltrattare gli uomini a loro volontà e non giudicarono infami gli attori ma li considerarono degni di cariche elevate 57. Come infatti i Romani hanno potuto avere la moneta aurea, sebbene non adorassero il dio Aurino, così avrebbero potuto avere quelle di argento e di bronzo se non avessero adorato Argentino e il di lui padre Bronzino. E così per le altre cose che mi dà fastidio passare in rassegna. Allo stesso modo dunque non potrebbero avere il dominio contro il volere del vero Dio; e se avessero ignorato o anche disprezzato questi dèi falsi e molti e avessero conosciuto il Dio uno e l'avessero onorato con fede e moralità autentiche, avrebbero in questo mondo un dominio più perfetto, qualunque estensione avesse, e dopo la vicenda terrena ne riceverebbero uno eterno sia che in questo mondo lo avessero o non lo avessero.

29. E cosa significa che hanno considerato un bellissimo auspicio il fatto ricordato dianzi, che Marte, Termine e Giovinezza non vollero ritirarsi dal loro posto neanche per riguardo a Giove re degli dèi? Ha avuto questo significato, rispondono i pagani, che la gente di Marte cioè di Roma non avrebbe ceduto a nessuno il territorio che avesse occupato, che per la virtù del dio Termine nessuno avrebbe sconvolto i confini di Roma ed anche che per la virtù della dea Giovinezza la gioventù romana non si sarebbe ritirata davanti a nessuno. Riflettano dunque in quale considerazione tengano codesto re dei propri dèi e datore del proprio dominio, dal momento che questi auspici lo considerano come un avversario davanti al quale è nobile non ritirarsi. Comunque se i fatti sono veri, non hanno proprio di che temere. Non ammetteranno infatti che gli dèi si sono ritirati davanti a Cristo, perché neanche con Giove l'hanno fatto. A parte i confini dell'impero, è stato possibile comunque che si siano ritirati davanti al Cristo per quanto riguarda le sedi dei templi e soprattutto il cuore dei credenti. Ma prima che Cristo venisse nel mondo, prima ancora che fossero scritti gli eventi che cito dalla loro letteratura e tuttavia dopo che si ebbe quell'auspicio sotto il re Tarquinio, alcune volte l'esercito romano fu sbaragliato, cioè volto in fuga. Dimostrò così che era falso l'auspicio secondo il quale la dea Giovinezza non avrebbe ceduto a Giove. La gente di Marte in seguito all'invasione vittoriosa dei Galli fu sconfitta nella stessa Roma e i confini dell'impero furono ridotti di molto a causa della defezione di molte città ad Annibale. Così è scomparsa la bellezza dell'auspicio ed è rimasta la ribellione non degli dèi ma dei demoni contro Giove. Un conto è infatti non essersi ritirati e un altro essere ritornati là da dove ci si era ritirati. Comunque anche in seguito nelle regioni di Oriente per decisione di Adriano furono cambiati i confini dell'impero romano. Egli cedette all'impero persiano tre province illustri, l'Armenia, la Mesopotamia e l'Assiria 58. Sembra quindi che il dio Termine che, a sentir loro, proteggeva i confini di Roma, e che secondo quel favorevole auspicio non aveva ceduto a Giove, temeva di più Adriano re degli uomini che Giove re degli dèi. E Termine, in tempi che quasi ricordiamo noi, si ritirò indietro dalle suddette province recuperate in un secondo tempo, quando Giuliano, che si dedicava ai responsi degli dèi, con eccessiva audacia comandò di incendiare le navi da cui erano trasportate le vettovaglie. L'esercito rimastone privo, essendo anche morto l'imperatore per una ferita in battaglia, fu ridotto all'estrema scarsezza di mezzi. Nessuno sarebbe sfuggito, dato che i nemici assalivano da ogni parte i soldati turbati dalla morte dell'imperatore, se con un trattato di pace i confini non fossero stabiliti dove si hanno ancor oggi e fossero fissati non con la grande perdita che Adriano aveva accettato ma con un compromesso. Con un auspicio privo di significato dunque il dio Termine non aveva ceduto a Giove se ha ceduto alla decisione di Adriano, ha ceduto anche alla temerità di Giuliano e alla situazione ineluttabile di Gioviano 59. Queste cose le hanno capite anche i più intelligenti e autorevoli Romani, ma contavano poco contro l'usanza di una città che era legata a riti demoniaci. Anche essi, sebbene capissero che quelle credenze non avevano senso, ritenevano di dover rendere alla natura, posta sotto il dominio assoluto dell'unico vero Dio, quel culto religioso che si deve a Dio, perché erano soggetti, come dice l'Apostolo, alla creatura anziché al Creatore che è benedetto nei secoli 60. Era necessario l'aiuto di Dio che inviasse uomini santi e autenticamente religiosi, i quali subissero la morte per la vera religione affinché le false scomparissero dal mondo.

domenica 20 novembre 2011

Filotea: Introduzione alla vita devota - XXI

Proseguiamo l'appuntamento domenicale con Filotea: Introduzione alla vita devota di San Francesco di Sales:




FILOTEA
Introduzione alla vita devota

(San Francesco di Sales)

PRIMA PARTE


Contiene consigli ed esercizi necessari per condurre l'anima dal primo desiderio della vita devota fino alla ferma risoluzione di abbracciarla

CAPITOLO XXI


CONCLUSIONE DELLA PRIMA PURIFICAZIONE


Fatta la promessa, rimani molto attenta e apri bene il cuore per ascoltare con tutta l’anima le parole di assoluzione che il Salvatore della tua anima, assiso sul trono della misericordia, pronuncerà lassù in Cielo, davanti agli Angeli e ai Santi, nello stesso istante in cui, in suo nome, il sacerdote ti assolverà quaggiù in terra.

La schiera dei Beati gioisce per la tua felicità e canta il cantico spirituale di una gioia che non ha confronti; tutti ti accolgono e abbracciano il tuo cuore che ha ritrovato la grazia e la santità.

E’ un ottimo contratto, Filotea: tu doni ora te stessa alla Maestà di Dio e ottieni in cambio che Egli si doni a te per l’eternità.

Non ti resta più che prendere la penna e apporre la firma all’atto della tua promessa; dopo di che, ti recherai all’altare; così anche Dio firmerà e apporrà il suo sigillo a conferma dell’assoluzione e ti prometterà il paradiso; per mezzo del sacramento anzi, sarà Lui stesso il sigillo di garanzia sul tuo cuore nuovo. Così la tua anima sarà libera dal peccato e da tutti gli affetti al peccato.

Ma siccome questi affetti rispuntano facilmente nell’anima, a causa della nostra infermità e della nostra concupiscenza, che può essere mortificata, ma non eliminata, finché vivremo su questa terra, io ti darò dei consigli: se li segui ti terrai lontana dal peccato mortale e dai suoi affetti così mai più il peccato avrà posto nel tuo cuore. Visto poi che gli stessi consigli sono utili anche per una purificazione più radicale, prima di darteli, voglio spendere qualche parola per chiarirti che cosa intendo per purezza totale, che è quella alla quale desidero guidarti.