domenica 31 luglio 2011

Filotea: Introduzione alla vita devota - V

Proseguiamo la lettura di una delle più celebri opere scritte dai Santi, ovvero: Filotea di San Francesco di Sales. Nel capitolo di oggi San Francesco ci insegna qual è la via con la quale cominciare: la purificazione dell'anima. Vedremo di seguito il Santo Dottore della Chiesa impiegare semplici e bellissime metafore per fare entrare nel cuore del lettore anche gli insegnamenti più elevati. Prestiamo attenzione alle parole di San Francesco di Sales e cerchiamo di metterle in pratica con tranquillità e senza però sottovalutare le nostre imperfezioni:


FILOTEA
Introduzione alla vita devota
(San Francesco di Sales)

PRIMA PARTE

Contiene consigli ed esercizi necessari per condurre l'anima dal primo desiderio della vita devota fino alla ferma risoluzione di abbracciarla

Capitolo V

SI DEVE COMINCIARE DALLA PURIFICAZIONE DELL’ANIMA

"I fiori sono apparsi nei campi", dice lo Sposo nel Cantico dei Cantici, "è giunto il tempo di potare e sfrondare". I fiori del nostro cuore, o Filotea, sono i buoni desideri. Ora, appena compaiono, bisogna mettere mano alla roncola per sfrondare dalla nostra coscienza tutte le opere morte e inutili. La ragazza straniera, per sposare un Israelita, doveva togliersi la veste della prigionia, tagliarsi le unghie e radersi i capelli: similmente l’anima che vuole andare sposa al Figlio di Dio, deve spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo, lasciando il peccato; poi tagliare e radere tutti gli impedimenti che distolgono dall’amore di Dio.

Essersi purificati dalla malizia del peccato è l’inizio della salvezza. S. Paolo venne purificato totalmente in un attimo; lo stesso avvenne a Caterina da Genova, S. Maddalena, S. Pelagia e qualche altro. Ma questa sorta di purificazione è miracolosa ed eccezionale in grazia, come la resurrezione dei morti lo è in natura: non possiamo pretenderla.

Ordinariamente la purificazione, come la guarigione, sia del corpo che dello spirito, avviene adagio adagio, per gradi, un passo dopo l’altro, a fatica e con il tempo. Sulla scala di Giacobbe gli Angeli hanno le ali, ma non volano, anzi salgono e scendono ordinatamente, uno scalino dopo l’altro. L’anima che sale dal peccato alla devozione viene paragonata all’alba, che, quando spunta, non mette immediatamente in fuga le tenebre, ma gradatamente.

Dice il Saggio che la guarigione la quale avviene senza fretta è sempre la più sicura; le infermità del cuore, come quelle del corpo, vengono a cavallo o in carrozza, ma se ne vanno a piedi e al piccolo trotto.

Devi essere dunque coraggiosa e paziente in questa impresa, Filotea. Che pena vedere anime che, scoprendo di essere afflitte da molte imperfezioni, dopo essersi impegnate per un po’ nel cammino della devozione, si inquietano, si turbano e si scoraggiano e rischiano di cedere alla tentazione di lasciare tutto e di tornare indietro. D’altra parte, uguale pericolo corrono quelle anime che, per la tentazione contraria, si illudono di essere liberate dalle loro imperfezioni il primo giorno della purificazione, e si considerano perfette ancor prima di essere fatte: pretendono di volare senza le ali! Filotea, quelle sono veramente in grande pericolo di cadere, perché troppo presto hanno voluto sottrarsi alle mani del medico. Non alzarti prima che ci si veda, dice il Profeta Davide; e alzati dopo esserti seduto! Egli stesso mette in pratica quello che dice e, una volta lavato e profumato, chiede di rimettersi all’opera.

L’esercizio della purificazione dell’anima può e deve finire soltanto con la vita: perciò non agitiamoci per le nostre imperfezioni; quello che si chiede a noi è di combatterle; se non le vedessimo, non potremmo combatterle e non potremmo vincerle se non ci imbattessimo in esse. La nostra vittoria non consiste nel non sentirle, ma nel non acconsentirvi; e non è acconsentire esserne turbati. Anzi, ogni tanto, ci fa bene una ferita in questa battaglia spirituale, per fortificare la nostra umiltà; non saremo mai vinti finché non avremo perso la vita o il coraggio.

Le imperfezioni e i peccati veniali non possono strapparci la vita spirituale, che si perde soltanto con il peccato mortale; è il coraggio di combattere che non dobbiamo perdere! Diceva Davide: Liberami, Signore, dalla vigliaccheria e dallo scoraggiamento. In questa guerra ci troviamo in una condizione di favore, perché, per vincere, ci basta la volontà di combattere.

sabato 30 luglio 2011

Il Sabato dei Salmi - Salmo 63 (62) - Il desiderio di Dio

Salmo 63   

Il desiderio di Dio 
[1]Salmo. Di Davide, quando dimorava nel deserto di Giuda. 

[2]O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco,
di te ha sete l'anima mia,
a te anela la mia carne,
come terra deserta,
arida, senz'acqua.
[3]Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
[4]Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode. 

[5]Così ti benedirò finché io viva,
nel tuo nome alzerò le mie mani.
[6]Mi sazierò come a lauto convito,
e con voci di gioia ti loderà la mia bocca.
[7]Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
[8]a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all'ombra delle tue ali. 

[9]A te si stringe l'anima mia
e la forza della tua destra mi sostiene.
[10]Ma quelli che attentano alla mia vita
scenderanno nel profondo della terra,
[11]saranno dati in potere alla spada,
diverranno preda di sciacalli.
[12]Il re gioirà in Dio,
si glorierà chi giura per lui,
perché ai mentitori verrà chiusa la bocca. 


COMMENTO

L'anima di ogni uomo ha sete di Dio. Siamo tutti come terra deserta, arida e senz'acqua quando siamo lontani dal Signore. Il salmista dice che la grazia di Dio vale più della vita. Essere in grazia di Dio quanto è importante per noi, per la nostra vita? Essere in grazia vuol dire essere amici, figli adottivi di Dio ed eredi del Paradiso. E solo gli amici e i figli sono degni di entrare in casa di un uomo. Per essere amici e figli,  e per essere degni del Paradiso dobbiamo partecipare ai Sacramenti e praticare una buona condotta di vita secondo la volontà di Dio.

Ai mentitori verrà chiusa la bocca: la menzogna è la radice di ogni male: Eva ascoltando la menzogna dell'antico serpente, è andata in rovina con tutto il genere umano. Per riparare a questo danno è venuta al mondo la Verità che è Gesù Cristo per risollevare l'umanità intera. Oggi il male fa tanto strepito e sembra non avere fine: un giorno però il male non parlerà più, perché Dio ha l'ultima parola.

Quanto costa dire bugie? Tanto. In quanti guai e preoccupazioni ci fa cadere una sola bugia? Tantissimi. La verità è l'unica che rende libero l'uomo da ogni guaio e preoccupazione. Gesù Cristo è la Verità ed è Lui e soltanto Lui con il Padre e lo Spirito Santo con i quali è una sola cosa, a liberare l'uomo dal laccio della morte. Siamo quindi uomini e donne veritieri, onesti, semplici ma soprattutto innamorati di Dio e benevoli verso i fratelli e le sorelle.

Qual è dunque il desiderio di Dio? Ce lo dice Lui stesso attraverso i comandamenti. Dio desidera che ci amiamo gli uni gli altri, amando e perdonandoci a vicenda, ma soprattutto che amiamo Lui, Sommo ed Eterno Bene. E per scoprire cosa significhi realmente amare, dobbiamo stare a contatto con l'Amore autentico che è Gesù Cristo: seguendo Lui, giorno dopo giorno, anno dopo anno, scopriremo sempre più cosa voglia dire "amare".

venerdì 29 luglio 2011

Siracide - Quarantunesimo appuntamento

 Proseguiamo la lettura del Siracide con il capitolo quarantuno:

 41

1O morte, come è amaro il tuo pensiero
per l'uomo che vive sereno nella sua agiatezza,
per l'uomo senza assilli e fortunato in tutto,
ancora in grado di gustare il cibo!
2O morte, è gradita la tua sentenza
all'uomo indigente e privo di forze,
vecchio decrepito e preoccupato di tutto,
al ribelle che ha perduto la pazienza!
3Non temere la sentenza della morte,
ricòrdati dei tuoi predecessori e successori.
4Questo è il decreto del Signore per ogni uomo;
perché ribellarsi al volere dell'Altissimo?
Siano dieci, cento, mille anni;
negli inferi non ci sono recriminazioni sulla vita.

5Figli abominevoli sono i figli dei peccatori,
una stirpe empia è nella dimora dei malvagi.
6L'eredità dei figli dei peccatori andrà in rovina,
con la loro discendenza continuerà il disonore.
7Contro un padre empio imprecano i figli,
perché sono disprezzati a causa sua.
8Guai a voi, uomini empi,
che avete abbandonato la legge di Dio altissimo!
9Quando nascete, nascete per la maledizione;
quando morite, erediterete la maledizione.
10Quanto è dalla terra ritornerà alla terra,
così gli empi dalla maledizione alla distruzione.
11Il lutto degli uomini riguarda i loro cadaveri,
il nome non buono dei peccatori sarà cancellato.
12Abbi cura del nome, perché esso ti resterà
più di mille grandi tesori d'oro.
13I giorni di una vita felice sono contati,
ma un buon nome dura sempre.

14Figli, custodite l'istruzione in pace;
ma sapienza nascosta e tesoro invisibile,
l'una e l'altro a che servono?
15Meglio chi nasconde la sua stoltezza
di chi nasconde la sua sapienza.
16Pertanto provate vergogna in vista della mia parola,
perché non è bene arrossire per qualsiasi vergogna;
non tutti stimano secondo verità tutte le cose.
17Vergognatevi della prostituzione davanti al padre e alla madre
della menzogna davanti a un capo e a un potente,
18del delitto davanti a un giudice e a un magistrato,
dell'empietà davanti all'assemblea del popolo,
19della slealtà davanti al compagno e all'amico,
del furto nell'ambiente in cui ti trovi,
20di venir meno al giuramento e all'alleanza,
di piegare i gomiti sul pane,
21del disprezzo di ciò che prendi o che ti è dato,
di non rispondere a quanti salutano,
22dello sguardo su una donna scostumata,
del rifiuto fatto a un parente,
23dell'appropriazione di eredità o donazione,
del desiderio per una donna sposata,
24della relazione con la sua schiava,
- non accostarti al suo letto -
25delle parole ingiuriose davanti agli amici
- dopo aver donato, non offendere -
26della ripetizione di quanto hai udito
e della rivelazione di notizie segrete.
27Allora sarai veramente pudico
 e troverai grazia presso chiunque.

COMMENTO

Anche oggi possiamo operare una tripartizione di questo passo: la prima parte affronta il tema della morte; la seconda parte si sofferma sul destino degli uomini empi mentre la terza parte ci mostra le cose di cui ci dovremmo realmente vergognare.
La prima parte chiarisce ciò che è già chiaro ai nostri occhi: la morte è uno spettro su chi si gode la vita in ricchezza ed egoismo poiché colui che conduce una vita simile ama non la vita in sé, ma la ricchezza che possiede: gli dispiace dover lasciare la felicità e l'agiatezza e per questo teme la morte. Al contrario, un uomo che non possiede nulla e che vive la vita in sacrificio, attende la morte con spirito diverso, quasi di liberazione. E così possiamo vedere la distinzione tra i giusti e gli empi: i primi attendono la morte perché sanno che con essa non viene posta la parola fine sull'esistenza; gli empi, invece, temono l'arrivo della morte perché sono terrorizzati dalla fine, dal nulla. Basti ricordare la narrazione di un uomo di Roma: quest'uomo, molto potente e di prestigio, aveva vissuto la sua vita nell'agiatezza e nel potere. Ora, divenuto vecchio, vedeva avvicinarsi lo spettro della morte e il terrore gli prese l'anima perché più di tutto temeva il nulla. Appena sentito parlare di Cristo, cominciò a nutrire speranza perché l'uomo ha bisogno di questo: ha bisogno di sperare che la morte sia solo un passaggio e non la fine di tutto. Gesù Cristo rappresenta questa speranza e per questo tutti noi attendiamo la morte con spirito diverso, anche se la paura a volte prende il nostro cuore, soprattutto quando il peccato è presente dentro di noi. Questo avviene perché l'anima nostra teme il giudizio finale e sa che se la sua ora venisse in presenza di peccato mortale, non avrebbe speranza di raggiungere Colui che l'ha creata! Nel Cantico delle Creature San Francesco disse: 

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano35 ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà36 ne le Tue sanctissime voluntati37,
ka la morte secunda no ’l farrà male

La seconda parte si sofferma sul destino degli empi e si ricollega a quanto abbiamo più volte detto in passato e qui sopra. L'autore si sofferma molto sul nome perché nei tempi antichi era il nome la cosa più importante perché si pensava che esso sarebbe vissuto in eterno: ecco perché l'empio doveva avere timore, perché dopo la sua morte, il suo nome sarebbe scomparso o sarebbe stato sinonimo di ignominia. Oggi, l'empio sa che non è solo il nome a cui deve pensare, ma l'anima sua perché Cristo ha spalancato le porte dell'eternità, ma ha anche rivelato il destino della zizzania...

L'ultima parte ci mostra cosa dovrebbe suscitare in noi la vergogna:  val la pena di ribadirle perché sono le empietà che molti di noi continuano a commettere, pensando che la modernità abbia di diritto autorizzato ogni nostro desiderio:   Vergognatevi della prostituzione davanti al padre e alla madre, della menzogna davanti a un capo e a un potente, del delitto davanti a un giudice e a un magistrato,dell'empietà davanti all'assemblea del popolo, della slealtà davanti al compagno e all'amico,del furto nell'ambiente in cui ti trovi, di venir meno al giuramento e all'alleanza,di piegare i gomiti sul pane, del disprezzo di ciò che prendi o che ti è dato,di non rispondere a quanti salutano, dello sguardo su una donna scostumata,del rifiuto fatto a un parente, dell'appropriazione di eredità o donazione,del desiderio per una donna sposata, della relazione con la sua schiava,- non accostarti al suo letto -  delle parole ingiuriose davanti agli amici - dopo aver donato, non offendere -  della ripetizione di quanto hai  udito della rivelazione di notizie segrete.  

Queste sono le cose di cui dovremmo vergognarci mentre dovremmo esser orgogliosi di essere fedeli a Cristo e alla Parola di Dio!

giovedì 28 luglio 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - XXXVI parte

Proseguiamo il nostro appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Continuiamo la lettura dell'Articolo 9 sul Credo nella Santa Chiesa Cattolica, mediante il Paragrafo 2:


CAPITOLO TERZO: CREDO NELLO SPIRITO SANTO

Articolo 9

Paragrafo 2 LA CHIESA - POPOLO DI DIO, CORPO DI CRISTO, TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO

I. La Chiesa - Popolo di Dio

781 “In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la sua giustizia. Tuttavia piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un Popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse. Si scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo formò progressivamente. . . Tutto questo però avvenne in preparazione e in figura di quella Nuova e perfetta Alleanza che doveva concludersi in Cristo. . . cioè la Nuova Alleanza nel suo sangue, chiamando gente dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 9].

Le caratteristiche del Popolo di Dio

782 Il Popolo di Dio presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente da tutti i raggruppamenti religiosi, etnici, politici o culturali della storia:

- È il Popolo di Dio: Dio non appartiene in proprio ad alcun popolo. Ma egli da coloro che un tempo erano non-popolo ha acquistato un popolo: “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa” (⇒ 1Pt 2,9).

- Si diviene membri di questo Popolo non per la nascita fisica, ma per la “nascita dall'alto”, “dall'acqua e dallo Spirito” (⇒ Gv 3,3-5), cioè mediante la fede in Cristo e il Battesimo.

- Questo Popolo ha per Capo [Testa] Gesù Cristo [Unto, Messia]: poiché la medesima Unzione, lo Spirito Santo, scorre dal Capo al Corpo, esso è “il Popolo messianico”.

- “Questo Popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio”.

- “Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati” [Cf ⇒ Gv 13,34 ]. È la legge “nuova” dello Spirito Santo [Cf ⇒ Rm 8,2; 782 ⇒ Gal 5,25 ].

- Ha per missione di essere il sale della terra e la luce del mondo [Cf ⇒ Mt 5,13-16 ]. “Costituisce per tutta l'umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza”.

- “E, da ultimo, ha per fine il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 9].

Un popolo sacerdotale, profetico e regale

783 Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito “Sacerdote, Profeta e Re”. L'intero Popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le responsabilità di missione e di servizio che ne derivano [Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis, 18-21].

784 Entrando nel Popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo, si è resi partecipi della vocazione unica di questo Popolo, la vocazione sacerdotale : “Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini, fece del nuovo popolo "un regno e dei sacerdoti per Dio, suo Padre". Infatti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 10].

785 “Il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo”. Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il Popolo, laici e gerarchia, quando “aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 10] e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo.

786 Il Popolo di Dio partecipa infine alla funzione regale di Cristo. Cristo esercita la sua regalità attirando a sé tutti gli uomini mediante la sua Morte e la sua Risurrezione [Cf ⇒ Gv 12,32 ]. Cristo, Re e Signore dell'universo, si è fatto il servo di tutti, non essendo “venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (⇒ Mt 20,28). Per il cristiano “regnare” è “servire” Cristo, [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 36] soprattutto “nei poveri e nei sofferenti”, nei quali la Chiesa riconosce “l'immagine del suo Fondatore, povero e sofferente” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 8]. Il Popolo di Dio realizza la sua “dignità regale” vivendo conformemente a questa vocazione di servire con Cristo.

Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l'unzione dello Spirito Santo sono consacrati sacerdoti. Non c'è quindi solo quel servizio specifico proprio del nostro ministero, perché tutti i cristiani, rivestiti di un carisma spirituale e usando della loro ragione, si riconoscono membra di questa stirpe regale e partecipi della funzione sacerdotale. Non è forse funzione regale il fatto che un'anima governi il suo corpo in sottomissione a Dio? Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull'altare del proprio cuore i sacrifici immacolati del nostro culto? [San Leone Magno, Sermones, 4, 1: PL 54, 149].

II. La Chiesa - Corpo di Cristo

La Chiesa è comunione con Gesù

787 Fin dall'inizio Gesù ha associato i suoi discepoli alla sua vita; [Cf ⇒ Mc 1,16-20; ⇒ Mc 3,13-19 ] ha loro rivelato il Mistero del Regno; [Cf ⇒ Mt 13,10-17 ] li ha resi partecipi della sua missione, della sua gioia [Cf ⇒ Lc 10,17-20 ] e delle sue sofferenze [Cf ⇒ Lc 22,28-30 ]. Gesù parla di una comunione ancora più intima tra sé e coloro che lo seguiranno: “Rimanete in me e io in voi. . . Io sono la vite, voi i tralci” (⇒ Gv 15,4-5). Annunzia inoltre una comunione misteriosa e reale tra il suo proprio Corpo e il nostro: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (⇒ Gv 6,56).

788 Quando la sua presenza visibile è stata tolta ai discepoli, Gesù non li ha lasciati orfani [Cf ⇒ Gv 14,18 ]. Ha promesso di restare con loro sino alla fine dei tempi, [Cf ⇒ Mt 28,20 ] ha mandato loro il suo Spirito [Cf ⇒ Gv 20,22; ⇒ At 2,23 ]. In un certo senso, la comunione con Gesù è diventata più intensa: “Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo Corpo i suoi fratelli, chiamati da tutte le genti” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7].

789 Il paragone della Chiesa con il corpo illumina l'intimo legame tra la Chiesa e Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a lui; è unificata in lui, nel suo Corpo. Tre aspetti della Chiesa-Corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l'unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del Corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo.

“Un solo corpo”

790 I credenti che rispondono alla Parola di Dio e diventano membra del Corpo di Cristo, vengono strettamente uniti a Cristo: “in quel Corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che attraverso i sacramenti vengono uniti in modo arcano ma reale a Cristo che ha sofferto ed è stato glorificato” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7]. Ciò è particolarmente vero del Battesimo, in virtù del quale siamo uniti alla Morte e alla Risurrezione di Cristo, [Cf ⇒ Rm 6,4-5; ⇒ 1Cor 12,13 ] e dell'Eucaristia, mediante la quale “partecipando realmente al Corpo del Signore” “siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7].

791 L'unità del corpo non elimina la diversità delle membra: “Nell'edificazione del Corpo di Cristo vige la diversità delle membra e delle funzioni. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità della Chiesa distribuisce i suoi vari doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei servizi”. L'unità del Corpo mistico genera e stimola tra i fedeli la carità: “E quindi se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra” [ Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7]. Infine, l'unità del Corpo mistico vince tutte le divisioni umane: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più né giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (⇒ Gal 3,27-28).

“Capo di questo Corpo è Cristo”

792 Cristo “è il Capo del Corpo, cioè della Chiesa” (⇒ Col 1,18). È il Principio della creazione e della redenzione. Elevato alla gloria del Padre, ha “il primato su tutte le cose” (⇒ Col 1,18), principalmente sulla Chiesa, per mezzo della quale estende il suo regno su tutte le cose.

793 Egli ci unisce alla sua Pasqua. Tutte le membra devono sforzarsi di conformarsi a lui finché in esse “non sia formato Cristo” (⇒ Gal 4,19). “Per ciò siamo assunti ai misteri della sua vita. . . Come il corpo al Capo veniamo associati alle sue sofferenze e soffriamo con lui per essere con lui glorificati” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7].

794 Egli provvede alla nostra crescita [Cf ⇒ Col 2,19 ]. Per farci crescere verso di lui, nostro Capo, [Cf ⇒ Ef 4,11-16 ] Cristo dispone nel suo Corpo, la Chiesa, i doni e i ministeri attraverso i quali noi ci aiutiamo reciprocamente lungo il cammino della salvezza.

795 Cristo e la Chiesa formano, dunque, il “Cristo totale” [“Christus totus”]. La Chiesa è una con Cristo. I santi hanno una coscienza vivissima di tale unità:

Rallegriamoci, rendiamo grazie a Dio, non soltanto perché ci ha fatti diventare cristiani, ma perché ci ha fatto diventare Cristo stesso. Vi rendete conto, fratelli, di quale grazia ci ha fatto Dio, donandoci Cristo come Capo? Esultate, gioite, siamo divenuti Cristo. Se egli è il Capo, noi siamo le membra: siamo un uomo completo, egli e noi. . . Pienezza di Cristo: il Capo e le membra. Qual è la Testa, e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa [Sant'Agostino, In Evangelium Johannis tractatus, 21, 8].

Redemptor noster unam se personam cum sancta Ecclesia, quam assumpsit, exhibuit - Il nostro Redentore presentò se stesso come unica persona unita alla santa Chiesa, da lui assunta [San Gregorio Magno, Moralia in Job, praef. , 1, 6, 4: PL 75, 525A].

Caput et membra, quasi una persona mystica - Capo e membra sono, per così dire, una sola persona mistica [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, III, 48, 2, ad 1].

Una parola di Santa Giovanna d'Arco ai suoi giudici riassume la fede dei santi Dottori ed esprime il giusto sentire del credente: “A mio avviso, Gesù Cristo e la Chiesa sono un tutt'uno, e non bisogna sollevare difficoltà” [Santa Giovanna d'Arco, in Actes du procès].

La Chiesa è la Sposa di Cristo

796 L'unità di Cristo e della Chiesa, Capo e membra del Corpo, implica anche la distinzione dei due in una relazione personale. Questo aspetto spesso viene espresso con l'immagine dello Sposo e della Sposa. Il tema di Cristo Sposo della Chiesa è stato preparato dai profeti e annunziato da Giovanni Battista [Cf ⇒ Gv 3,29 ]. Il Signore stesso si è definito come lo “Sposo” (⇒ Mc 2,19) [Cf ⇒ Mt 22,1-14; ⇒ Mt 25,1-13 ]. L'Apostolo presenta la Chiesa e ogni fedele, membro del suo Corpo, come una Sposa “fidanzata” a Cristo Signore, per formare con lui un solo Spirito [Cf ⇒ 1Cor 6,15-17; ⇒ 2Cor 11,2 ]. Essa è la Sposa senza macchia dell' Agnello immacolato; [Cf ⇒ Ap 22,17; 796 ⇒ Ef 1,4; ⇒ Ef 5,27 ] che Cristo ha amato” e per la quale “ha dato se stesso. . ., per renderla santa” (⇒ Ef 5,25-26), che ha unito a sé con una Alleanza eterna e di cui non cessa di prendersi cura come del suo proprio Corpo [Cf ⇒ Ef 5,29 ].

Ecco il Cristo totale, capo e corpo, uno solo formato da molti. . . Sia il capo a parlare, o siano le membra, è sempre Cristo che parla: parla nella persona del capo [“ex persona capitis”], parla nella persona del corpo [“ex persona corporis”]. Che cosa, infatti, sta scritto? “Saranno due in una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (⇒ Ef 5,31-32). E Cristo stesso nel Vangelo: “Non sono più due, ma una carne sola” (⇒ Mt 19,6). Difatti, come ben sapete, queste persone sono sì due, ma poi diventano una sola nell'unione sponsale... Dice di essere “sposo” in quanto capo, e “sposa” in quanto corpo [Sant'Agostino, Enarratio in in Psalmos, 74, 4].

III. La Chiesa - Tempio dello Spirito Santo

797 “Quod est spiritus noster, id est anima nostra, ad membra nostra, hoc est Spiritus Sanctus ad membra Christi, ad corpus Christi, quod est Ecclesia - Quello che il nostro spirito, ossia la nostra anima, è per le nostre membra, lo stesso è lo Spirito Santo per le membra di Cristo, per il Corpo di Cristo, che è la Chiesa” [Sant'Agostino, Sermones, 267, 4: PL 38, 1231D]. “Bisogna attribuire allo Spirito di Cristo, come ad un principio nascosto, il fatto che tutte le parti del Corpo siano unite tanto fra loro quanto col loro sommo Capo, poiché egli risiede tutto intero nel Capo, tutto intero nel Corpo, tutto intero in ciascuna delle sue membra” [Pio XII, Lett. enc. Mystici Corporis: Denz. -Schönm., 3808]. Lo Spirito Santo fa della Chiesa “il tempio del Dio vivente” (⇒ 2Cor 6,16) [Cf ⇒ 1Cor 3,16-17; ⇒ Ef 2,21 ].

È alla Chiesa che è stato affidato il “Dono di Dio” ... In essa è stata posta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, caparra dell'incorruttibilità confermazione della nostra fede, scala per ascendere a Dio... Infatti, dove è la Chiesa, ivi è anche lo Spirito di Dio e dove è lo Spirito di Dio, ivi è la Chiesa e ogni grazia [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 24, 1].

798 Lo Spirito Santo è “il principio di ogni azione vitale e veramente salvifica in ciascuna delle diverse membra del Corpo” [Pio XII, Lett. enc. Mystici Corporis: Denz. -Schönm., 3808]. Egli opera in molti modi l'edificazione dell'intero Corpo nella carità: [Cf ⇒ Ef 4,16 ] mediante la Parola di Dio “che ha il potere di edificare” (⇒ At 20,32); mediante il Battesimo con il quale forma il Corpo di Cristo; [Cf ⇒ 1Cor 12,13 ] mediante i sacramenti che fanno crescere e guariscono le membra di Cristo; mediante “la grazia degli Apostoli” che, fra i vari doni, “viene al primo posto”; [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7] mediante le virtù che fanno agire secondo il bene, e infine mediante le molteplici grazie speciali [chiamate “carismi”], con le quali rende i fedeli “adatti e pronti ad assumersi varie opere o uffici, utili al rinnovamento della Chiesa e allo sviluppo della sua costruzione” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 7].

I carismi

799 Straordinari o semplici e umili, i carismi sono grazie dello Spirito Santo che, direttamente o indirettamente, hanno un'utilità ecclesiale, ordinati come sono all'edificazione della Chiesa, al bene degli uomini e alle necessità del mondo.

800 I carismi devono essere accolti con riconoscenza non soltanto da chi li riceve, ma anche da tutti i membri della Chiesa. Infatti sono una meravigliosa ricchezza di grazia per la vitalità apostolica e per la santità di tutto il Corpo di Cristo, purché si tratti di doni che provengono veramente dallo Spirito Santo e siano esercitati in modo pienamente conforme agli autentici impulsi dello stesso Spirito, cioè secondo la carità, vera misura dei carismi [Cf ⇒ 1Cor 13 ].

801 È in questo senso che si dimostra sempre necessario il discernimento dei carismi. Nessun carisma dispensa dal riferirsi e sottomettersi ai Pastori della Chiesa, “ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono”, [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 12] affinché tutti i carismi, nella loro diversità e complementarità, cooperino all'“utilità comune” (⇒ 1Cor 12,7) [Cf ibid., 30; Giovanni Paolo II, Esort. ap. Christifideles laici, 24].

IN SINTESI

802 Gesù Cristo “ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un Popolo puro che gli appartenga” (⇒ Tt 2,14).

803 “Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il Popolo che Dio si è acquistato” (⇒ 1Pt 2,9).

804 Si entra nel Popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo. “Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo Popolo di Dio” , [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 13] affinché, in Cristo, “gli uomini costituiscano. . . una sola famiglia e un solo Popolo di Dio” [Conc. Ecum. Vat. II, Ad gentes, 1].

805 La Chiesa è il Corpo di Cristo. Per mezzo dello Spirito e della sua azione nei sacramenti, soprattutto l'Eucaristia, Cristo, morto e risorto, costituisce la comunità dei credenti come suo Corpo.

806 Nell'unità di questo Corpo c'è diversità di membra e di funzioni. Tutte le membra sono legate le une alle altre, particolarmente a quelle che soffrono, che sono povere e perseguitate.

807 La Chiesa è questo Corpo, di cui Cristo è il Capo: essa vive di lui, in lui e per lui; egli vive con essa e in essa.

808 La Chiesa è la Sposa di Cristo: egli l'ha amata e ha dato se stesso per lei. L'ha purificata con il suo sangue. Ha fatto di lei la Madre feconda di tutti i figli di Dio.

809 La Chiesa è il Tempio dello Spirito Santo. Lo Spirito è come l'anima del Corpo Mistico, principio della sua vita, dell'unità nella diversità e della ricchezza dei suoi doni e carismi.

810 “Così la Chiesa universale si presenta come "un Popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 4].

mercoledì 27 luglio 2011

Verità della Fede - XXVI parte

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Siamo giunti al Cap. XIII ove il Santo Vescovo Fondatore dei Redentoristi e Dottore della Chiesa, si sofferma sulla santa e divina dottrina di Gesù Cristo, l'unica vera ma anche su altre religioni o meglio definirle "sette", dimostrando la loro falsità. Quella Cattolica è l'unica vera religione e Sant'Alfonso con la fede e con la regione lo dimostra perché molti si ravvedano e tornino al vero ovile dove c'è l'unico vero Pastore che è Gesù Cristo; al di fuori di questo ovile ci sono lupi pronti a rovinare le anime e questo è dimostrato dai fatti poiché oggi assistiamo in altre religioni (e anche cristianesimi fai-da-te) un disorientamento morale non conforme con gli insegnamenti di Gesù Cristo. Lasciamo ora la parola a Sant'Alfonso perché ci illumini con la sapienza che Gesù gli ha donato:



Verità della fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

SECONDA PARTE

CAP. XIII.

Della santa e divina dottrina di Gesù Cristo.

1. Tutte le opere di Dio sono perfette, ma come poi il Signore ha creato l'uomo così disordinato, inclinato agli appetiti malvagi, alle impudicizie, alle vendette, alle ambizioni ed invidie, cose tutte contrarie alla retta ragione? Di tale sconcerto già ne divisammo l'origine nella seconda parte al capo I. Iddio creò retto il primo uomo coi sensi soggetti alla ragione e colla ragione soggetta a Dio. Ma Adamo pecca, e così restando egli e tutti i suoi discendenti privi della grazia divina, si ribella in essi il senso contro la ragione e la ragione contro Dio. Iddio manda il figlio a redimer l'uomo da tanta ruina; ma prima della venuta di questo Redentore manda i suoi profeti a prenunziarlo al mondo, acciocché gli uomini procurassero di salvarsi colla speranza de' di lui meriti; e tutte le loro profezie le fa registrare nelle sacre scritture con tutte le circostanze della venuta, delle opere, della vita e della morte del Redentore, affinché dopo la di lui vita non potessero gli uomini più dubitarne. Indi stabilisce nella Giudea la sua chiesa, ed ivi promulga ancora le sue leggi, acciocché gli uomini non solo col lume naturale, ma con quelle intendessero meglio quello che doveano fare, e quello da cui doveano astenersi. Ecco finalmente come viene in terra il Verbo eterno, prende carne umana, nasce, e promulga la sua legge di grazia, che è stata poi scritta negli evangeli, e che non già distrugge l'antica, ma l'adempie e la perfeziona. Quindi, acciocché i fedeli non errassero nei dubbj e nelle oscurità che sopra questa divina sua legge doveano insorgere, stabilisce la sua nuova chiesa, la quale da Dio stesso illuminata insegnasse poi a' fedeli tutto ciò che doveano credere circa i misteri, e praticare circa i costumi. Questa chiesa egli ha stabilita come colonna e base della verità, e le ha promesso che tutte le forze dell'inferno non mai potranno contra lei prevalere, secondo scrisse l'apostolo: Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis1. E come disse Cristo a s. Pietro: Aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam2

2. Questa chiesa poi è quella che ci insegna a conoscere il vero Dio, il quale è ultimo nostro fine. Ci fa intendere la sua natura divina, e ch'egli possiede tutte le perfezioni. Ci fa sapere il premio eterno apparecchiato ai giusti e l'eterno castigo destinato ai peccatori. Ella poi in quanto a' costumi c'insegna una legge tutta santa, piena di carità e di rettitudine, che ci istruisce a vincere gli appetiti disordinati, e ad amare il prossimo come noi stessi e Dio sopra ogni cosa. La chiesa in somma ci propone le leggi così divine, come umane, che dobbiamo e ben possiamo osservare coll'aiuto della divina grazia. Ci propone ancora i divini consigli, che ci rendon più facile l'osservanza de' precetti, e ci fanno più grati a Dio. Ella ancora ci fa sapere con quali mezzi dobbiamo conservarci nella divina grazia, e come ricuperarla, se mai per disgrazia l'abbiamo perduta. Questi mezzi sono i santi sacramenti instituiti da Gesù Cristo, pei quali egli ci rimette i peccati, e ci comunica le grazie a noi preparate pei meriti della sua passione. Ella ancora ci fa sapere che noi siam troppo deboli ad osservare colle nostre forze i divini precetti, e per vincere i nemici che ci tentano a trasgredirli, e che perciò dobbiam sempre ricorrere a Dio colle preghiere per ottenere da esso l'aiuto ad osservarli.

3. Vedasi pure se fra tutte le leggi può mai trovarsi o pensarsi una legge più santa, più retta e più ordinata. Ed all'incontro si osservi quel che insegnano le altre false religioni. La religione de' giudei un tempo fu retta e santa, ma dopo ch'essi han rifiutata la nuova legge di grazia sono rimasti ciechi, e son caduti in mille inezie ed empietà. Gli odierni ebrei (i quali oggidì son chiamati talmudisti, poiché hanno abbracciata la credenza del Talmud, libro, o sia legge piena di favole, di errori e di bestemmie) dicono che questa è un'altra legge, la quale fu data a Mosè a voce. Pertanto gl'inventori del Talmud nel pubblicarlo ordinarono che tutte le cose ivi comandate si osservassero come leggi divine, ed imposero pena di morte a chi le negasse. In quanto a' misteri divini insegnano i talmudisti che Iddio in una parte della notte rugge come un lione, e dice: Oimè che distrussi la mia casa, e bruciai il mio tempio, e rendei schiavi i miei figli! Dicono che nel giorno poi parte si mette a studiar la legge ed anche il Talmud, parte ad insegnar ai fanciulli che morirono bambini, e parte a giudicare il mondo; e nelle ultime tre ore si pone a divertirsi con un dragone chiamato Leviatan. Dicono che Dio prima di creare il mondo, molti mondi faceva e li disfaceva; dopo averlo creato poi egli cavalca la notte sopra un Cherubino, e visita 18. mila mondi che ha creati. Dicono che Dio disse una menzogna una volta per metter pace tra Abramo e Sara. Dicono che egli per aver diminuita la luce alla luna a confronto di quella data al sole, impose a Mosè che offerisse un bue in sacrificio, acciocché gli fosse perdonata questa colpa. In quanto poi ai precetti morali, gli ebrei presenti dicono molti errori e sciocchezze, parte delle quali si noteranno nella terza parte al capo terzo.

4. La setta maomettana poi in vece del Talmud tiene l'Alcorano per sua legge e regola di fede. Quest'Alcorano approva ogni religione che adora Dio, promettendo salute a chiunque vive secondo la legge da sé eletta, benché da una passasse all'altra a suo capriccio. In quanto a' misteri da credere, insegna che anche i dannati, i quali credono all'Alcorano, son liberati dall'inferno. E perciò i maomettani si radono il capo, ma vi lasciano una ciocchetta; sperando che per quella potrà Maometto cavarli dall'inferno. Sperano che almeno nel giorno del giudizio egli colle sue preghiere salverà tutti i suoi seguaci. Per gli altri dannati poi dice l'Alcorano che l'inferno non durerà più di mille anni, rinnovando l'errore di Origene. Il paradiso poi che promette l'Alcorano, è un paradiso di cui si vergognerebbero le stesse bestie, se avessero ragione, paradiso di piaceri sensuali: tanto che Avicenna maomettano, vergognandosi di tal promessa, dice che Maometto in ciò avea parlato allegoricamente; ma l'Alcorano in niun luogo ammette questa spiegazione di Avicenna.

5. In quanto a' costumi l'Alcorano permette di rubare a ciascuno a suo piacere. Permette ad ogni uomo aver tante mogli, quante ne può alimentare; e permette il divorzio a proprio arbitrio. Permette ogni sorta d'impudicizia colle schiave o suddite. Comanda la guerra e la vendetta, come cose gloriose. Comanda che si uccida chi non crede ad esso Alcorano. Vuole che tengasi comunicazione co' demonj, affin d'indovinare per via d'incantesimi e sortilegi. Ma delle cose più particolari della setta maomettana se ne parlerà a parte nella terza parte.

6. Lascio il parlare delle altre sette eretiche, delle quali ciascuna tiene i suoi particolari errori e disordini. Ma bisogna qui dire qualche cosa delle ultime eresie del settentrione, che vengono chiamate tutte sotto il nome di religion riformata. Questa religione pretesa riformata, di cui furono capi Lutero e Calvino, insegna, tra gli altri, due empi dogmi fondamentali che tolgono la bontà e 'l merito a tutte le opere buone, ed aprono il campo a tutti i vizj. Il primo dogma è che tutti gli uomini nascono egualmente infetti dal peccato originale, ma in modo tale che tutte le opere dell'uomo o buone o male, anche dopo il battesimo, sono perverse e degne delle pene eterne. Il secondo dogma è, che la sola fede, senza bisogno d'altra virtù, rende l'uomo giusto, e lo salva; poiché, come dicono, non già si rimettono all'uomo i peccati per la carità o per la grazia; ma la fiducia ch'egli ha nella divina misericordia per li meriti di Gesù Cristo fa che le sue colpe non gli vengano imputate, ma gli s'imputi la giustizia del Redentore, e così diventa giusto e si salva. In seguito poi di questi due errori ne insegnano molti altri, cioè che l'uomo dopo il peccato di Adamo ha perduto il libero arbitrio, ond'è costretto a volere e non volere quel che da Dio sta predeterminato: che Iddio non già dona a noi la virtù di fare il bene, né solamente permette il male, ma egli è quello che opera in noi tutte le azioni buone e cattive: che i divini precetti a noi non appartengono punto, mentre sono impossibili ad osservarsi: che a niente ci vagliono i sacramenti per ottenere la divina grazia: che chi ha la fede in Gesù Cristo, infallibilmente persevera in grazia, e certamente si salva, quantunque commetta tutte le scelleraggini del mondo. Ed ecco la bella religione riformata che ha trasformato l'uomo in un mostro d'inferno, giacché l'ha esentato da ogni legge, e gli ha data licenza d'immergersi in tutti i peccati più enormi, fuorché nell'infedeltà. Ecco come parla Lutero, e non si arrossisce di scriverlo: Vides quam dives sit homo christianus! nulla peccata possunt eum damnare, nisi sola incredulitas. Cetera omnia, si stet fides, absorbentur per eandem fidem1. Ma Calvino passò più innanzi, e disse che le opere buone non solo non giovano, ma ripugnano alla fede: Tum fidei iustitiae locus est, ubi nulla sunt opera, quibus debeatur merces.


7. Dunque secondo le loro massime di fede tutti i cristiani insino alla venuta di questi novelli maestri di religione sarebbero dannati. Mentre tutti i veri cristiani, e specialmente i santi ed i martiri avrebbero errato nella fede; giacché tutti han creduto non bastare i soli meriti di Gesù C. a salvarli, ma esser necessario, oltre la fede, anche le loro buone opere. Di più essi, quantunque speravano la salute, fidando ne' meriti di Gesù Cristo, non hanno creduto però per fede di esser predestinati, anzi sono stati sempre con timore fino alla morte; né han creduto di peccare, operando bene, affine di acquistarsi il paradiso: cose tutte opposte alla credenza de' novatori. Ma no, che ben dice il p. Segneri, che la loro credenza e dottrina è peggiore dell'ateismo. Poiché l'ateo fa il male sempre con timore, per la difficoltà che trova a persuadersi con fermezza che non vi sia Iddio nel mondo; laddove questi riformati operano con minor timore, lusingandosi di operare secondo la religione da Dio voluta.


8. Insegnano ancora che solo a' predestinati è donata da Dio la grazia della giustificazione, e che tutti gli altri sono da Dio predestinati al male ed alla dannazione eterna; e conseguentemente dicono che Gesù Cristo non è morto per tutti, ma solamente per gli eletti. E qui si noti l'empietà e l'ingratitudine di questi nemici della croce di Gesù Cristo, che essendo egli morto per tutti, vogliono far credere che sia morto per li soli predestinati, colla quale falsa ed empia dottrina fanno perdere l'amore a Gesù Cristo. Ma oh Dio e qual barbarie è questa! Un Dio ha data la vita per farsi amare da tutti gli uomini, e questi empj vogliono che Gesù Cristo sia morto solo per gli eletti! S. Paolo scrive Si unus (Christus) pro omnibus mortuus est, ergo omnes mortui sunt2. E poi soggiunge: Et pro omnibus mortuus est Christus, ut, et qui vivunt iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est et resurrexit3. Come l'apostolo avea da parlare più chiaro, per farc'intendere che Gesù Cristo è morto per tutti? Ma che meraviglia che coloro i quali si ribellano alla vera chiesa, ove solamente risplende la luce della verità, cadano in mille errori?


9. All'incontro una delle grandi prove della nostra religione cattolica è l'essere esente da qualunque minimo errore. I misteri che ella insegna a credere, benché sieno, come di sopra si disse, alti e superiori alla ragione, non sono però alla ragione contrarj. I precetti poi, che impone ad osservare, sono tutti santi e giusti. Che cosa più giusta che amare Iddio sommo bene più degli altri beni, che a confronto di Dio sono ombra e fumo? Che amare noi stessi, ma con amore ordinato, che non c'inganna con piaceri apparenti e passeggieri, ma ci conduce a quella felicità che non avrà mai fine? Ed amare il prossimo come noi stessi, giacché tutti siam chiamati a convivere in questa terra, affin di sovvenirci gli uni cogli altri co' buoni esempj e colle opere di carità, come compagni di viaggio all'eternità, per ritrovarci un dì insieme uniti in paradiso, dove esser dovremo compagni e concittadini eterni di quella patria beata.


10. È vero che i precetti della divina legge sono per sé difficili alle forze umane, ma son facili col divino aiuto, e quest'aiuto Dio l'ha promesso e lo concede a chiunque glie lo dimanda. Petite, così egli ha detto, petite et accipietis1. Quindi il sacro concilio di Trento c'insegna: Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis et petere quod non possis, et adiuvat ut possis2. Pertanto non può negarsi che nella chiesa cattolica vi sono stati sempre molti uomini santi, che hanno dati tanti belli esempi di umiltà, di distacco, di castità, di giustizia e di tutte le virtù, e colla loro buona vita a niuno si son renduti molesti ed esosi, se non solamente a coloro che odiavano il lor vivere, come un rimprovero de' loro mali costumi. È certo che niun cattolico mai che ha menata buona vita, è passato ad essere eretico o infedele. All'incontro molti eretici ed infedeli che facean vita, se non buona, almeno men disordinata degli altri, sono passati ad abbracciare la nostra fede, a fine di trovar salute: segno evidente che solamente nella nostra chiesa ritrovasi vera santità e vera salute.


11. Oppongono i naturalisti: il vangelo comanda di aspirare alla perfezione: estote perfecti: la verginità secondo l'apostolo è maggior perfezione: ecco dunque un consiglio contrario alla natura, e contrario alla stessa parola divina, che dice: Crescite et multiplicamini. Ma risponde s. Tommaso3, che la verginità e gli altri consigli non sono la perfezione, ma mezzi per la perfezione, e non sono mezzi necessari per la perfezione, ma mezzi più sicuri; onde non è a tutti necessario l'abbracciarli. In quanto poi al Crescite et multiplicamini, si risponde che ciò fu imposto non già ad ogni uomo in particolare, altrimenti ognuno sarebbe tenuto a prendere lo stato coniugale (cosa che niuno dice), ma fu imposto alla società umana in comune.


_________

1 1. Tim. 3. 15.

2 Matth. 16. 18.

1 Luther. de votis monach.

2 2. Cor. 5. 14.

3 Ibid. 15.

1 Ioan. 16. 24.

2 Sess. 6. 11.

3 Contr. Gent. l. 3. c. 130. 

martedì 26 luglio 2011

La Città di Dio - XXVIII parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": nell'appuntamento odierno vediamo la crisi (secondo Sallustio) e le sciagure che colpirono il popolo romano, a dimostrazione dell'inesistenza degli dei e della perversità dei costumi romani: 

Libro terzo

LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA  

17. 1. Allora diminuito ormai il timore, non perché le guerre fossero cessate, ma perché non incalzavano tanto gravemente, finito cioè il tempo in cui si amministrò con legislazione giusta e moderata, seguirono le condizioni che il citato Sallustio espone in breve così: In seguito i patrizi trattarono la plebe come schiava, ne disposero della vita e dell'opera con diritto regio, la privarono della proprietà dei campi e amministrarono da soli con l'esclusione di tutti gli altri. La plebe, oppressa dalla vessazione e soprattutto dalle tasse giacché doveva subire l'imposta e insieme il servizio militare per le continue guerre, occupò armata il monte Sacro e l'Aventino e così rivendicò i tribuni della plebe e gli altri diritti. Fine delle discordie e della lotta fra le due parti fu la seconda guerra punica 65. Perché dunque dovrei subire continue dilazioni e imporle ai lettori? Da Sallustio è stata rilevata la grande crisi della società romana, perché da lungo tempo e per tanti anni fino alla seconda guerra punica le guerre non cessarono di turbarla dall'esterno e le discordie e le sedizioni civili nell'interno. Pertanto quelle vittorie non sono state gioie piene di individui felici ma vuote consolazioni d'individui infelici e sollecitazioni ingannevoli d'individui guerrafondai a subire continue sventure prive di risultato. E i buoni Romani non devono arrabbiarsi con noi perché diciamo queste cose, sebbene non devono essere né richiesti né avvertiti in proposito, perché è assolutamente certo che non si arrabbieranno affatto. Infatti io, inferiore per cultura letteraria e disponibilità di tempo, non posso certamente dire più duramente cose più dure dei loro scrittori, tanto più che i Romani stessi si sono applicati e costringono i loro figli ad applicarsi per conoscerli. Ma coloro che si arrabbiano non mi perdonerebbero certamente se fossi io a dire queste parole di Sallustio: Si ebbero moltissimi tumulti, sedizioni e infine guerre civili, giacché pochi potenti, la cui influenza parecchi avevano accettato, aspiravano alle cariche con la speciosa adesione al partito senatoriale o democratico. Furono considerati buoni anche i cattivi cittadini e non per benemerenze verso la società, giacché tutti erano depravati, ma il più ricco e più capace nel commettere ingiustizia era considerato onesto perché difendeva lo stato presente delle cose 66. Dunque gli storiografi hanno considerato di pertinenza di una onorata libertà non tacere i mali della propria città, sebbene in molti passi sono stati costretti a lodarla con alto encomio, perché non conoscevano quella ideale, nella quale si devono raccogliere i cittadini dell'eternità. Che cosa dunque dovremmo far noi che dobbiamo avere una libertà tanto più grande, quanto è migliore e più certa la nostra speranza in Dio, quando rinfacciano i mali presenti al nostro Cristo? E lo fanno per distogliere le coscienze più deboli e inesperte da quella città in cui soltanto si potrà vivere in una felicità perpetua? E io non dico contro i loro dèi cose più tremende di quelle dette allo stesso modo dai loro scrittori che essi leggono ed esaltano, giacché da loro le ho apprese e non sono certamente da tanto di dirle tutte e come loro.

17. 2. Dove erano dunque quegli dèi, che si ritiene di dover onorare in vista dell'insignificante e fuggevole felicità di questo mondo, quando i Romani, ai quali con l'astuzia dell'impostore si esibivano per farsi onorare, erano travagliati da tante sciagure? Dove erano quando il console Valerio fu ucciso mentre difendeva con successo il Campidoglio, al quale esiliati e schiavi avevano appiccato il fuoco 67? Eppure era stato di maggior aiuto egli al tempio di Giove che a lui la ressa di tante divinità col loro re ottimo massimo, di cui aveva salvato il tempio. Dove erano quando la cittadinanza, afflitta dal male incessante delle sedizioni, in un breve periodo di tranquillità, aspettava gli ambasciatori mandati ad Atene per derivarne le leggi, fu spopolata da grave fame e pestilenza 68? Dove erano quando, in altra occasione, il popolo travagliato dalla fame creò il primo prefetto della provvigione annuale e aumentando la fame Spurio Melio, per il fatto che offrì grano alla massa affamata, fu incolpato di aspirare al regno e su richiesta del medesimo prefetto fu condannato dal dittatore Lucio Quinzio, rimbambito dall'età, e fu giustiziato, durante un gravissimo e pericolosissimo tumulto popolare, dal capo della cavalleria Quinto Servilio 69? Dove erano quando, scoppiata una gravissima epidemia, il popolo a lungo e pesantemente logorato, prese la deliberazione, mai avutasi prima, di offrire nuovi lettisterni agli dèi inefficienti 70? Si stendevano dei letti conviviali in onore degli dèi e da quell'uso ebbe nome questo rito sacro o meglio sacrilegio. Dove erano quando l'esercito romano, poiché combatteva male, per dieci anni continui aveva ricevuto presso Veio frequenti e pesanti sconfitte, se infine non fosse stato soccorso da Furio Camillo che in seguito l'ingrata città condannò 71? Dove erano quando i Galli presero, saccheggiarono, incendiarono e riempirono di stragi Roma 72? Dove erano quando una straordinaria epidemia menò tanta strage di cui morì anche Furio Camillo che difese prima l'ingrata patria dai Veienti e poi la protesse anche dai Galli?. Durante questa epidemia i Romani introdussero gli spettacoli teatrali, altra nuova peste non per il loro corpo ma, che è molto più funesto, per la loro moralità 73. Dove erano quando si sospettò che un'altra forte mortalità fosse dovuta ai veleni propinati da certe matrone e si scoprì che la moralità di molte nobili donne insospettate era più rovinosa di qualsiasi epidemia 74? O quando ambedue i consoli con l'esercito, assediati dai Sanniti alle forche caudine, furono costretti a stipulare con loro un patto disonorevole al punto che consegnati come ostaggi seicento cavalieri romani, gli altri, perdute le armi, spogliati e privati del resto dell'armatura, furono fatti passare sotto il giogo dei nemici, con un solo indumento addosso 75? O quando, mentre alcuni erano colpiti da grave pestilenza, molti altri, anche nell'esercito, morirono folgorati 76? O quando, scoppiata un'altra paurosa epidemia, Roma fu costretta a chiamare Esculapio da Epidauro per servirsene come di un dio medico 77, perché le frequenti fornicazioni, cui aveva atteso da giovanotto, non avevano permesso a Giove, che da tempo comandava in Campidoglio, di apprendere la medicina? O quando in seguito all'alleanza simultanea di Lucani, Bruzi, Sanniti, Etruschi e Galli Senoni, in un primo tempo furono uccisi i legati romani e poi fu sconfitto l'esercito guidato dal pretore e morirono assieme a lui sette tribuni e tredicimila soldati 78? O quando dopo lunghe e gravi sedizioni a Roma, alla fine la plebe, con ostile discordia, fece secessione sul Gianicolo? Era così grave il danno di questa sciagura che in vista di essa, e questo avveniva in pericoli di estrema gravità, fu creato dittatore Ortensio il quale, fatta tornare la plebe, morì durante la magistratura 79. Non si era mai verificato prima di lui ad alcun dittatore. Fu quindi un reato più grave degli dèi, perché era già presente Esculapio.

17. 3. E scoppiarono in quei tempi tante guerre che per carenza di soldati furono arruolati i proletari, così chiamati perché attendevano a generare prole non potendo fare il soldato per mancanza di mezzi. Anche Pirro, un re della Grecia, fatto venire dai Tarentini, venuto allora in grande fama, divenne nemico dei Romani. Mentre egli consultava Apollo sulla futura eventualità dei fatti, il dio con discreto buon garbo diede un responso così ambiguo che, qualunque delle due eventualità si fosse verificata, egli come divinatore se la cavava. Rispose infatti: "Ti dico, o Pirro, che puoi vincere i Romani"; o anche: "Ti dico, o Pirro, che i Romani ti possono vincere". Così, sia che Pirro vincesse i Romani o che i Romani vincessero Pirro, il vaticinatore poteva aspettare senza preoccupazioni l'uno o l'altro evento. Si verificò comunque un grande e spaventoso massacro dell'uno e dell'altro esercito 80. Tuttavia in quel caso vinse Pirro che poteva perciò dal proprio punto di vista considerare divinatore Apollo, se subito dopo in altra battaglia non avessero vinto i Romani. Durante così grande strage militare scoppiò anche una grave morìa di donne. Morivano nella gravidanza prima di dare alla luce i figli. Esculapio, penso io, si scusò del fatto perché era di professione primario medico non levatrice. Morivano con la medesima patologia anche gli animali domestici al punto da far credere che perfino la generazione degli animali cessasse 81. Quell'inverno fu memorabile perché incredibilmente rigido al punto che a causa delle nevi, le quali rimasero a una preoccupante altezza per quaranta giorni anche nel foro, perfino il Tevere gelò. Se si fosse avuto ai nostri tempi, costoro ne avrebbero dette tante e tanto grosse. Allo stesso modo una straordinaria epidemia, finché infierì, ne fece morire molti. Ed essendosi prolungata con maggiore virulenza nell'anno successivo malgrado la presenza di Esculapio, si consultarono i libri sibillini 82. In questo tipo di oracoli, come ricorda Cicerone nel libro Sulla divinazione, abitualmente si crede di più agli interpreti che spiegano le cose dubbie come possono o come vogliono 83. Il responso fu che causa dell'epidemia era il fatto che molti occupavano abusivamente parecchi edifici sacri. Così per il momento Esculapio fu scolpato dall'accusa d'incapacità o di trascuratezza. Gli edifici erano stati occupati senza che alcuno lo impedisse perché erano state inutilmente a lungo rivolte suppliche a una così folta moltitudine di divinità. Così un po' alla volta i locali venivano disertati dai devoti in modo che essendo vuoti si potevano senza offesa di alcuno adibire agli usi umani. Per far cessare la pestilenza furono fatti restituire e restaurare. E se in seguito non fossero rimasti sconosciuti perché di nuovo abbandonati e occupati, non si darebbe certamente merito alla grande erudizione di Varrone che scrivendo sugli edifici sacri ne ricorda molti ignorati 84. In quel caso non si ottenne la fine della epidemia ma per un po' di tempo una diplomatica scusa per gli dèi.

 

lunedì 25 luglio 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - XIII

 Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Nella porzione odierna vediamo il Beato Wojtyla  soffermarsi su di un importante argomento: i diritti dell'uomo. Chi conosce la storia di Karol Wojtyla, sa a quante violazioni costui abbia assistito lungo la sua vita: prima il calpestamento dei diritti degli ebrei trattati come animali dai nazisti, poi l'oppressione violenta del regime comunista che voleva cancellare la religione negli stati sovietici, in particolare nella sua cara Polonia. Ecco perché queste parole che ci apprestiamo a leggere sono così cariche di significato e avallate da considerazioni empiriche frutto della testimonianza di chi ha conosciuto le violazioni dei diritti umani più basilari. In particolare, vediamo come egli non sia nemmeno convinto che sia sufficiente l'esistenza di una Dichiarazione che attesti questi diritti umani: infatti, si chiede spesso se alla lettera corrisponda lo spirito e quindi se tali dichiarazioni siano solo formali od anche sostanziali. Ovviamente, l'attenzione si concentra anche sulla libertà di religione, la cui violazione è stata molto forte proprio in terra polacca:

 III - L'uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo  

17. Diritti dell'uomo: «lettera» o «spirito»

Il nostro secolo è stato finora un secolo di grandi calamità per l'uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali. Certamente, non è facile paragonare sotto questo aspetto epoche e secoli, poiché ciò dipende anche dai criteri storici che cambiano. Nondimeno, senza stabilire questi paragoni, bisogna pur constatare che finora questo secolo è stato un secolo in cui gli uomini hanno preparato a se stessi molte ingiustizie e sofferenze. Questo processo è stato decisamente frenato? In ogni caso, non si può qui non ricordare, con stima e con profonda speranza per il futuro, il magnifico sforzo compiuto per dare vita all'Organizzazione delle Nazioni Unite, uno sforzo che tende a definire e stabilire gli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo, obbligandosi reciprocamente gli Stati-membri ad una rigorosa osservanza di essi. Questo impegno è stato accettato e ratificato da quasi tutti gli Stati del nostro tempo, e ciò dovrebbe costituire una garanzia perché i diritti dell'uomo diventino, in tutto il mondo, principio fondamentale dell'azione per il bene dell'uomo.

La Chiesa non ha bisogno di confermare quanto questo problema sia strettamente collegato con la sua missione nel mondo contemporaneo. Esso, infatti, sta alle basi stesse della pace sociale e internazionale, come hanno dichiarato al riguardo Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e poi Paolo VI in particolareggiati documenti. In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo - opera di giustizia è la pace -, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancor più gravi violazioni di essi. Se i diritti dell'uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l'uomo, che non può in nessun modo accordarsi con un qualsiasi programma che si autodefinisca «umanistico». E quale programma sociale, economico, politico, culturale potrebbe rinunciare a questa definizione? Nutriamo la profonda convinzione che non c'è nel mondo di oggi alcun programma in cui, perfino sulla piattaforma di opposte ideologie circa la concezione del mondo, non venga messo sempre in primo piano l'uomo.

Ora, se malgrado tali premesse, i diritti dell'uomo vengono in vario modo violati, se in pratica siamo testimoni dei campi di concentramento, della violenza, della tortura, del terrorismo e di molteplici discriminazioni, ciò deve essere una conseguenza delle altre premesse che minano, o spesso annientano quasi l'efficacia delle premesse umanistiche di quei programmi e sistemi moderni. S'impone allora necessariamente il dovere di sottoporre gli stessi programmi ad una continua revisione dal punto di vista degli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo.

La Dichiarazione di questi diritti, unitamente all'istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, non aveva certamente soltanto il fine di distaccarsi dalle orribili esperienze dell'ultima guerra mondiale, ma anche quello di creare una base per una continua revisione dei programmi, dei sistemi, dei regimi, proprio da quest'unico fondamentale punto di vista, che è il bene dell'uomo - diciamo della persona nella comunità - e che, come fattore fondamentale del bene comune, deve costituire l'essenziale criterio di tutti i programmi, sistemi, regimi. In caso contrario, la vita umana, anche in tempo di pace, è condannata a varie sofferenze e, nello stesso tempo, insieme con esse si sviluppano varie forme di dominio, di totalitarismo, di neocolonialismo, di imperialismo, che minacciano anche la convivenza tra le nazioni. Invero, è un fatto significativo e confermato a più riprese dalle esperienze della storia, come la violazione dei diritti dell'uomo vada di pari passo con la violazione dei diritti della nazione, con la quale l'uomo è unito da legami organici, come con una più grande famiglia.

Già fin dalla prima metà di questo secolo, nel periodo in cui si stavano sviluppando vari totalitarismi di Stato, i quali - come è noto - portarono all'orribile catastrofe bellica, la Chiesa aveva chiaramente delineato la sua posizione di fronte a questi regimi, che apparentemente agivano per un bene superiore, qual è il bene dello Stato, mentre la storia avrebbe invece dimostrato che quello era solo il bene di un determinato partito, identificatosi con lo Stato111. In realtà, quei regimi avevano coartato i diritti dei cittadini, negando loro il riconoscimento proprio di quegli inviolabili diritti dell'uomo che, verso la metà del nostro secolo, hanno ottenuto la loro formulazione in sede internazionale. Nel condividere la gioia di questa conquista con tutti gli uomini di buona volontà, con tutti gli uomini che amano veramente la giustizia e la pace, la Chiesa, consapevole che la sola «lettera» può uccidere, mentre soltanto «lo spirito dà vita»112, deve insieme con questi uomini di buona volontà domandare continuamente se la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e l'accettazione della loro «lettera» significhino dappertutto anche la realizzazione del loro «spirito». Sorgono, infatti, timori fondati che molto spesso siamo ancora lontani da questa realizzazione, e che talvolta lo spirito della vita sociale e pubblica si trova in una dolorosa opposizione con la dichiarata «lettera» dei diritti dell'uomo. Questo stato di cose, gravoso per le rispettive società, renderebbe particolarmente responsabili, di fronte a queste società ed alla storia dell'uomo, coloro che contribuiscono a determinarlo.

Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell'esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all'imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questa società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca, in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo e del necessario vigore dell'autorità pubblica113. Questi sono, quindi, problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell'uomo stesso e dello sviluppo globale della sua umanità.

La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa, inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è la sollecitudine per il bene comune della società; da qui derivano i suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste premesse attinenti all'ordine etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell'uomo. Quel bene comune, che l'autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si arriva allo sfacelo della società, all'opposizione dei cittadini all'autorità, oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo, di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismi del nostro secolo. È così che il principio dei diritti dell'uomo tocca profondamente il settore della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella vita degli Organismi politici.

Fra questi diritti si annovera, e giustamente, il diritto alla libertà religiosa accanto al diritto alla libertà di coscienza. Il Concilio Vaticano II ha ritenuto particolarmente necessaria l'elaborazione di una più ampia Dichiarazione su questo tema. E il documento che s'intitola Dignitatis Humanae114, nel quale è stata espressa non soltanto la concezione teologica del problema, ma anche la concezione dal punto di vista del diritto naturale, cioè dalla posizione «puramente umana», in base a quelle premesse dettate dall'esperienza stessa dell'uomo, dalla sua ragione e dal senso della sua dignità. Certamente, la limitazione della libertà religiosa delle persone e delle comunità non è soltanto una loro dolorosa esperienza, ma colpisce innanzitutto la dignità stessa dell'uomo, indipendentemente dalla religione professata o dalla concezione che esse hanno del mondo. La limitazione della libertà religiosa e la sua violazione contrastano con la dignità dell'uomo e con i suoi diritti oggettivi. Il sunnominato documento conciliare dice con bastante chiarezza che cosa sia una tale limitazione e violazione della libertà religiosa. Indubbiamente, ci troviamo in questo caso di fronte a una ingiustizia radicale riguardo a ciò che è particolarmente profondo nell'uomo, riguardo a ciò che è autenticamente umano. Difatti, perfino lo stesso fenomeno dell'incredulità, areligiosità e ateismo, come fenomeno umano, si comprende soltanto in relazione al fenomeno della religione e della fede. È pertanto difficile, anche da un punto di vista «puramente umano», accettare una posizione, secondo la quale solo l'ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale, mentre gli uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati, oppure trattati come cittadini di categoria inferiore, e perfino - il che è già accaduto - sono del tutto privati dei diritti di cittadinanza.

Occorre, pur se brevemente, trattare anche questo tema, perché anch'esso rientra nel complesso delle situazioni dell'uomo nel mondo attuale, perché anch'esso testimonia quanto questa situazione sia gravata da pregiudizi e da ingiustizie di vario genere. Se ci asteniamo dall'entrare nei particolari proprio in questo campo, in cui avremmo uno speciale diritto e dovere di farlo, ciò è soprattutto perché, insieme con tutti coloro che soffrono i tormenti della discriminazione e della persecuzione per il nome di Dio, siamo guidati dalla fede nella forza redentrice della croce di Cristo. Tuttavia, in virtù del mio ufficio, desidero a nome di tutti i credenti del mondo intero, rivolgermi a coloro da cui, in qualche modo, dipende l'organizzazione della vita sociale e pubblica, domandando ad essi ardentemente di rispettare i diritti della religione e dell'attività della Chiesa. Non si chiede alcun privilegio, ma il rispetto di un elementare diritto. L'attuazione di questo diritto è una delle fondamentali verifiche dell'autentico progresso dell'uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente.

 

domenica 24 luglio 2011

Filotea: Introduzione alla vita devota - IV

Proseguiamo la lettura di una delle più celebri opere scritte dai Santi, ovvero: Filotea di San Francesco di Sales. Nel capitolo di oggi il Santo Vescovo Francesco ci parla dell'importanza dell'obbedienza e della necessità di un direttore spirituale. L'obbedienza tante volte sottovalutata o ignorata, ha permesso a tantissime anime di guadagnarsi il Paradiso. Riscopriamola attraverso le sante parole di San Francesco di Sales:   



FILOTEA
Introduzione alla vita devota
(San Francesco di Sales)

PRIMA PARTE

Contiene consigli ed esercizi necessari per condurre l'anima dal primo desiderio della vita devota fino alla ferma risoluzione di abbracciarla

Capitolo IV

NECESSITA’ DI UN DIRETTORE SPIRITUALE PER ENTRARE E PROGREDIRE NELLA DEVOZIONE

Quando il giovane Tobia ricevette l’ordine di recarsi a Rage, rispose: Non conosco la strada. Il padre gli disse allora: Va tranquillo e cerca qualcuno che ti faccia da guida.

Ti dico la stessa cosa, Filotea. Vuoi metterti in cammino verso la devozione con sicurezza? Trova qualche uomo capace che ti sia di guida e ti accompagni; è la raccomandazione delle raccomandazioni. Qualunque cosa tu cerchi, dice il devoto Avila, troverai con certezza la volontà di Dio soltanto sul cammino di una umile obbedienza, tanto raccomandata e messa in pratica dai devoti del tempo antico.

La Beata Madre Teresa, vedendo Caterina di Cordova fare grandi penitenze, ebbe un grande desiderio di imitarla contro il parere del confessore che glielo proibiva e al quale era tentata di non obbedire, almeno in questo, Dio allora le disse: Figlia mia, tu stai camminando su una strada buona e sicura. Vedi le sue penitenze? Eppure io preferisco la tua obbedienza! Teresa concepì tanto amore per questa virtù che, oltre all’obbedienza dovuta ai Superiori, votò una particolare obbedienza ad un uomo straordinario, impegnandosi a seguirne la direzione e la guida; ne ebbe grandi consolazioni. Prima e dopo di lei, è capitata la stessa cosa a molte anime elette che, per garantirsi una più perfetta sottomissione a Dio, hanno posto la loro volontà sotto la direzione dei suoi servi; cosa che S. Caterina da Siena elogia con sante espressioni nei suoi Dialoghi.

La devota principessa S. Elisabetta obbediva, con estrema esattezza, al dotto Maestro Corrado; ecco un consiglio dato da S. Luigi sul letto di morte a suo figlio: "Confessati spesso, scegli un confessore adatto, che sia molto prudente e che possa insegnarti con sicurezza, a fare il tuo dovere".

"L’amico fedele, dice la S. Scrittura, è una forte protezione; chi lo trova, trova un tesoro". L’amico fedele è un balsamo di vita e d’immortalità; coloro che temono Dio, lo trovano. Queste parole divine si riferiscono, in primo luogo, come puoi notare, all’immortalità, per camminare verso la quale è necessario, prima di tutto, avere un amico fedele che diriga le nostre azioni con le sue esortazioni e i suoi consigli; ci eviterà così i tranelli e gli inganni del nemico; sarà per noi un tesoro di sapienza nelle afflizioni, nelle tristezze e nelle cadute; sarà il balsamo per alleviare e consolare i nostri cuori nelle malattie spirituali; ci proteggerà dal male e ci renderà stabili nel bene; e se dovesse colpirci qualche infermità, impedirà che diventi mortale e ci farà guarire.

Ma chi può trovare un amico di tal sorta? Risponde il Saggio: coloro che temono Dio; ossia gli umili, che desiderano ardentemente avanzare nella vita spirituale.

Giacché ti sta tanto a cuore camminare con una buona guida, in questo santo viaggio della devozione, cara Filotea, prega Iddio, con grande insistenza, che ne provveda una secondo il suo cuore; e poi non dubitare: sii certa che, a costo di mandare un Angelo dal cielo, come fece per il giovane Tobia, ti manderà una guida capace e fedele.

Per te deve rimanere sempre un Angelo: ossia, quando l’avrai trovato, non fermarti a dargli stima come uomo, e non riporre la fiducia nelle sue capacità umane, ma in Dio soltanto, che ti incoraggerà e ti parlerà tramite quell’uomo, ponendogli nel cuore e sulla bocca ciò che sarà utile al tuo bene; tu devi ascoltarlo come un Angelo venuto dal cielo per condurti là. Parla con lui a cuore aperto, in piena sincerità e schiettezza; manifestagli con chiarezza il bene e il male senza infingimenti e dissimulazione: in tal modo il bene sarà apprezzato e reso più solido e il male corretto e riparato; nelle afflizioni ti sarà di sollievo e di forza, nelle consolazioni di moderazione e misura.

Devi riporre in lui una fiducia senza limiti, unita a un grande rispetto, ma in modo che il rispetto non diminuisca la fiducia e la fiducia non tolga il rispetto. Apriti a lui con il rispetto di una figlia verso il padre e portagli rispetto con la fiducia di un figlio verso la madre; per dirla in breve: deve essere una amicizia forte e dolce, santa, sacra, degna di Dio, divina, spirituale.

A tal fine, scegline uno tra mille, dice Avila; io ti dico, uno tra diecimila, perché se ne trovano meno di quanto si dica capaci di tale compito. Deve essere ricco di carità, di scienza e di prudenza: se manca una di queste tre qualità, c’è pericolo. Ti ripeto, chiedilo a Dio e, una volta che l’hai trovato, benedici la sua divina Maestà, fermati a quello e non cercarne altri; ma avviati, con semplicità, umiltà e confidenza; il tuo sarà un viaggio felice.